(da L'Espresso)
Dal Piemonte al Sud, ecco come vivono gli schiavi della vendemmia
Lavorano 12 ore al giorno al sole, dal Monferrato alla Sicilia. La notte dormono nei campi. Qualcuno, a volte, muore di fatica. Ma il giorno dopo tutto ricomincia
Piegati sui filari sotto il sole che arde i campi a 35 gradi. Per dodici ore filate: dalle sette alle 19. A raccogliere grappoli a ritmi forsennati, perché quando l’uva è matura non si può aspettare. E finito il lavoro, la sera, nessun posto dove dormire: «Come ieri, anche oggi mi tocca passare la notte in strada», dice Stoil, bulgaro cinquantenne, barba lunga e piedi sporchi di terra e di acini. Sua moglie è stata più fortunata: ha trovato una branda, una doccia e una razione di tonno e biscotti grazie all’accoglienza gratuita messa in piedi da tre
volontari della Caritas. Ma ci sono posti solo per venti persone. Gli altri, niente.
Stoil è uno degli oltre mille migranti della vendemmia arrivati quest’anno in Piemonte. In tutta Italia, sono stati quasi ventimila. Lui è finito a Canelli, la patria dell’Asti spumante e del Moscato d’Asti, con oltre cento milioni di bottiglie in commercio ogni anno. Intorno, terreni dove per ogni ettaro di vendemmia si incassano quasi 11 mila euro. Un giro d’affari da oltre cento milioni. I ricchi vitigni non garantiscono però diritti e condizioni umane per tutti. Trasformano anzi la vendemmia in un teatro di spietati caporali, manodopera illegale, contratti fuorilegge.
Così la zona è ormai da dieci anni meta degli “schiavi dell’uva”: prima dalla Macedonia e ora soprattutto dalla Bulgaria. Da centri come Razlog, Sandanski e Blagoevgrad: una trasferta di 1.700 chilometri per guadagnare dai tre ai cinque euro l’ora. Che però in trenta giorni possono diventare l’equivalente di cinque o sei mesi di lavoro in Bulgaria, visto che lì lo stipendio medio non supera i 200 euro mensili.
Piemonte, tra gli schiavi della vendemmia
Per partire non serve molto. I soldi per la benzina e l’autostrada oppure 70 euro per il biglietto del bus. Molti sanno già cosa li aspetta e si presentano con i materassi al seguito; i più sprovveduti soltanto con i vestiti che indossano. Come i tre ventenni che non hanno trovato posto nel centro Caritas e, disperati, aspettano la notte in piazza. Nel primo giorno hanno lavorato quattro ore, raccogliendo 20 euro a testa. «Se avessi saputo di finire in strada non sarei partito» dice sconsolato uno.
Li porta qui il passaparola e finiscono a dormire in strada, nelle cascine abbandonate, in minuscoli appartamenti dove ne infilano anche venti. I più sfortunati nelle bidonville lungo il fiume Belbo. Lontani dal cuore e dagli sguardi dei residenti.
La baraccopoli rintracciata da “l’Espresso” è a 150 metri da un autolavaggio. Sulla strada sterrata si trovano asciugamani stesi, bottiglie di plastica e spazzatura. Dopo la giornata di vendemmia, l’unica preoccupazione è lavarsi e mangiare qualcosa. Pochi passi e si arriva sull’argine del fiume. Sotto gli alberi, un divano sfondato, il focolare con avanzi della cena, attrezzi da cucina e bancali da mettere a terra per proteggersi dall’umidità. Come tetto, una tenda costruita con plexiglas e coperte. Tutto trovato sul posto. Come il calendario appeso ad un albero: fino a metà mese è segnato come «ripozo».
Un anno fa il Comune li aveva sistemati in un parcheggio, con docce e bagni. Con il grande esodo di migranti verso l’Italia ha prevalso invece la linea dura.«Come amministrazione non posso certo risolvere il problema del caporalato», dice il sindaco di Canelli Marco Gabusi, eletto con una lista civica di centrodestra. «Ma chiudere i campi abusivi lo posso fare. Per questo abbiamo deciso di non stanziare soldi pubblici. Si favorisce soltanto l’arrivo di altri lavoratori in nero. La mia ricetta è sanzionare e controllare per evitare il degrado». Piuttosto che spendere cinquemila euro per il campo temporaneo, si è quindi preferito puntare su pattuglie di vigili e tolleranza zero. Così dopo dodici ore tra i filari gli stagionali si nascondono: e diventano invisibili.
Il sindacato invece qualcosa sta facendo, ma con difficoltà. Ad esempio, la Cgil si è dotata di un camper per aiutare e informare i braccianti per strada. Ma il mercato delle braccia ha scavato un solco tra lavoro in regola e sfruttamento. Così il salario crolla fino ai tre euro l’ora. E si firmano contratti che di regolare non hanno nulla: non vengono indicati i giorni di lavoro e neppure l’orario. Si viene ingaggiati direttamente in piazza. Il caporale “scala” poi dallo stipendio il costo del trasporto nelle campagne e perfino la bottiglia d’acqua.
C’è poi la questione del dormire. Spesso i vendemmiatori finiscono in cascine fatiscenti dove devono sganciare 200 euro per un mese di posto letto. Chi non accetta rimane a piedi. E la marea di sfruttati sale così fino alle colline delle Langhe, Roero e Monferrato, diventate appena un anno fa patrimonio dell’Umanità per la loro eccezionalità rurale e culturale.
A gestire il business sono le cooperative senza terra, che garantiscono la raccolta chiavi in mano. Scatenando una guerra tra vecchi e nuovi poveri: i macedoni sono arrivati per primi e ora alcuni di loro sfruttano i vicini di casa in arrivo dal sud della Bulgaria. «Sì, le cooperative dei nostri connazionali sono i maggiori sfruttatori», spiega Hristov, macedone:«Assumono per la vendemmia con contratto a chiamata poi ti ritrovi sulla busta paga appena due giorni, anche se ne hai fatti venti o più. Con questo sistema ti trovi con 10 giorni lavorativi all’anno, senza sussidi di disoccupazione né niente di ciò che ti spetta».
Una pratica così diffusa che ha insospettito anche la Guardia di Finanza: in un solo controllo, in Piemonte, hanno scoperto 106 lavoratori in nero smistati in 144 aziende agricole.
Neppure le donne sono immuni a questo traffico. Anzi, i loro salari sono ancora più striminziti. E spesso non ci sono differenze tra Nord e Sud, tra migranti e italiani: in Puglia quest’anno ha destato scalpore il caso di Paola Clemente, bracciante di 49 anni e tre figli, morta sfiancata dal caldo il 13 luglio mentre toglieva gli acini più piccoli. Si alzava alle quattro del mattino per guadagnare due euro all’ora. Stesso destino per Zaccaria, un tunisino di 50 anni morto a Modugno, vicino a Bari, dopo una mattinata a trasportare casse di uva.
Trapani è la provincia con più vigneti in tutta la Penisola. Nelle sue cantine nascono i doc Marsala, Erice e Delia Nivolelli. Ma il trapanese è anche il territorio con più centri di accoglienza per migranti. Qui la manodopera si sceglie nelle vie e nelle piazze: alle sei del mattino si ritrovano stagionali dell’Est Europa, marocchini, tunisini e profughi subsahariani. «E adesso si è creato un conflitto tra braccianti stagionali e rifugiati», spiega Alberto Biondo della onlus Borderline Sicilia. Perché i secondi dormono nei centri di accoglienza, dove vengono anche nutriti. Quindi accettano paghe ancora più basse, accentuando il dumping salariale a svantaggio di chi invece deve pagarsi da dormire e da mangiare. Al sole dei vigneti scoppia così l’ultima lotta di classe: quella dei poverissimi contro altri poverissimi.
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