Immagini della rivolta di qualche anno fa
Al Cara di Mineo i migranti dovrebbero rimanere al massimo per 35 giorni e invece rimangono per anni...
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In un territorio povero con la disoccupazione al 50 per cento la struttura è un’opportunità
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In un territorio povero con la disoccupazione al 50 per cento la struttura è un’opportunità
Medici, infermieri,
cuochi e traduttori il mondo che ruota attorno al Cara
In un territorio
povero, con una disoccupazione che
sfiora anche il 50 per cento soprattutto tra i giovani, il Cara di Mineo
rappresenta un fiume di denaro e lavoro
insperato. In un territorio dove gli investenti privati e delle
amministrazioni pubbliche latitano, lo
Stato spende circa 35 milioni di euro all’anno per tenere in vita questo
centro di accoglienza per richiedenti asilo. E se è vero che molti di questi
soldi, gli utili soprattutto, non finiscono certo al territorio visto che molte
aziende non sono locali, è pur sempre vero che tra operatori sanitari, addetti alle pulizie, cuochi, traduttori almeno 400
persone tra diretti e indotto hanno un lavoro grazie al Cara. E attorno al
Cara gravitano anche piccole aziende fornitrici, a partire dall’unico
supermercato di Mineo convenzionato con il centro nel quale i migranti possono spendere il buono da 2,5
euro giornaliero [e chi controlla che questo “buono” venga davvero dato? chi controlla cosa mangiano? chi controlla come vivono?... ndr]
per l’acquisto di cibo e vivande non fornite attraverso i pasti giornalieri.
Questo solo per fermarsi all’economia
ufficiale, senza contrare quella sommersa che vede tassisti abusivi o la
presenza di un forte caporalato in agricoltura.
A
gestire comunque questo fiume di denaro sono le aziende che dal 2011 vincono a
mani basse le gare per l’affidamento dei servizi coperti dallo Stato con i 35
euro versati giornalmente per ogni migrante. Una parte di
questi soldi va come affitto per il “villaggio della solidarietà” alla Pizzarotti, ditta di Parma che si
occupa anche della manutenzione delle villette. In gran parte si rivolge a
proprio personale e piccole ditte del luogo per interventi ordinari. Un’altra
fetta importante di questi fondi va a La
Cascina, azienda legata a Comunione e Liberazione nella quale lavorano circa
50 tra cuochi e addetti al servizio di ristorazione in media colazione, pranzo
e cena costano circa 9 euro a migrante. Gli altri servizi sanitari e sociali
sono forniti dalla “Casa della solidarietà”, cooperativa legata all’Arciconfraternita del Santissimo
Sacramento e di San Trifone di Roma, ma soprattutto da Sol Calatino, altro
nome molto noto nei servizi sociali dell’isola che raggruppa una serie di coop
del settore. Al Cara lavorano anche una ventina di operatori dalla Croce Rossa
e altrettanti dalla Senis Hospes: quest’ultima è guidata da Camillo Aceto, ex
dipendente della Cascina che gestisce diversi centri di accoglienza a Messina e
in Puglia.
Gli
addetti diretti al Cara sono 390 e la gran parte di questi è stata assunta per
chiamata diretta. Proprio sulle assunzioni la procura di Caltagirone e ha
aperto un fascicolo per una possibile “parentopoli”,
visto che tra i lavoratori vi sono anche parenti di politici locali legati al
Consorzio Calatino Terre di accoglienza, che fino allo scandalo Maia Capitale
ha raggruppato i Comuni del comprensorio e gestito affidamento dei servizi.
Anche qui dl nulla son nati quattro posti di lavoro: quello del direttore e di
tre funzionari assunti nel Consorzio.
La Repubblica Palermo
3 settembre 2015
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