Lapide per i partigiani presa
di mira dai vandali
E' accaduto in via Guerzoni
L'indignazione
dell'Anpi Milano sull'accaduto: "Questo episodio si inserisce nel
rifiorire nella nostra città di movimenti neofascisti e neonazisti, con
l’apertura di nuove sedi e punti di riferimento"
Milano, 5
gennaio 2013 - Monumento ai caduti della Resistenza in via Guerzoni
preso di mira dai vandali. La polizia è intervenuta questa notte dopo un
principio di incendio che è stato spento dai vigili del fuoco.
Secondo le
prime indagini, ignoti avrebbero appiccato il fuoco a un manifesto
affisso vicino alla lapide, quindi le fiamme hanno interessato le corone
che hanno preso fuoco. Al momento sono in corso le indagini per far
luce sull'accaduto.
Sull'accaduto,
l’Anpi Provinciale di Milano, esprime "la propria indignazione e
la propria ferma condanna del grave gesto compiuto nella notte tra venerdì e
sabato 5 gennaio ai danni della lapide posta in via Guerzoni, dedicata ai
partigiani caduti nella lotta di Liberazione contro il nazifascismo".
"Questa
ennesima provocazione neofascista, preceduta il 2 dicembre 2012 dall’aggressione di un
militante di un centro sociale milanese da parte di un gruppo di naziskin, si
inserisce nel rifiorire nella nostra città di movimenti neofascisti e
neonazisti, con l’apertura di nuove sedi e punti di riferimento - dichiara
Roberto Cenati, presidente Anpi Milano -. L’Anpi Provinciale di Milano
nell’esprimere la propria preoccupazione per il rinnovato manifestarsi di
questi movimenti che si pongono in aperto contrasto con i principi e i
valori sanciti dalla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza,
sottolinea l’urgenza di un impegno comune delle istituzioni, delle forze
preposte alla difesa dell’ordine pubblico, dei partiti, dell’associazionismo
democratico, dei cittadini, affinchè queste inaccettabili provocazioni
neofasciste abbiano finalmente a cessare e diventino improponibili a Milano,
Città Medaglia d’Oro della Resistenza".
Trapani come l’Alabama degli
anni ’60: bus separati per bianchi e immigrati
Vicino alla frazione di Salinagrande sorge un centro
per richiedenti asilo africani che usano mezzi pubblici per spostarsi in
centro. La proposta del consigliere comunale Andrea Vassallo per risolvere il
sovraffollamento dei trasporti: "Gli immigrati spesso creano un clima di
tensione"
Due linee di
autobus diverse: una per gli “indigeni” bianchi , l’altra per gli immigrati
africani, dovutamente scortati dalla polizia. Sembra l’Alabama
degli anni ’60 e invece è semplicemente Trapani nel 2013. Nella città
siciliana, infatti, da qualche tempo i cittadini lamentano un problema: gli
autobus che collegano il centro della città con la periferia meridionale sono
spesso troppo affollati. Questo perché dalle parti della frazione di Salinagrande
sorge un centro per richiedenti asilo, uno dei più grandi dell’isola con circa
260 ospiti, soprattutto africani. Logico dunque che i rifugiati ospiti di
Salinagrande utilizzino i mezzi pubblici per spostarsi in centro. Solo che in
questo modo le linee esistenti non sono sufficienti per servire la popolazione
dei quartieri periferici trapanesi. Come risolvere la situazione? Forse
aumentando le corse degli autobus? Ma neanche per idea. Piuttosto si potrebbero
creare due linee diverse: una per i bianchi e una per i neri.
L’insana
proposta è contenuta in un comunicato ufficiale pubblicato sul sito del comune
di Trapani e firmato dal consigliere comunale Andrea Vassallo,
presidente socialista della sesta commissione per le problematiche del
territorio urbano. “Sono state rappresentate al Presidente Saluto (il
dirigente dell’azienda municipale dei trasporti, ndr) le numerose
lamentele degli abituali viaggiatori indigeni della tratta i quali riferiscono
di comportamenti poco civili adottati dagli immigrati che spesso creano ed
alimentano all’interno del bus un clima di tensione tale da lasciar presagire,
prima o poi, il verificarsi di episodi spiacevoli”, avverte Vassallo nel
comunicato ufficiale. Quale soluzione adottare dunque per evitare che si
verifichino i non meglio specificati “episodi spiacevoli”? “Opportuno sarebbe,
a parere della Commissione – si legge sempre nell’atto pubblicato on line –
valutare l’ipotesi di istituire un servizio di trasporto esclusivamente
dedicato ad essi”. Ma non solo. Perché, sempre secondo Vassallo, gli autobus
che dovrebbero essere utilizzati soltanto dagli immigrati dovrebbero
addirittura essere sottoposti “a controllo da parte della polizia, al fine di
scongiurare i pericoli di ordine pubblico che potrebbero malauguratamente
ingenerarsi”.
“Una
proposta , quella della sesta commissione consiliare del comune di Trapani, che
farebbe piombare la nostra città direttamente nel Sudafrica dell’apartheid”
scrive il blogger Natale Salvo, che ha sollevato il caso. Una proposta
davvero estrema, che ha subito provocato le aspre repliche degli altri
esponenti politici. “Esprimiamo e rabbia per questa proposta: questo è
apartheid!” è il commento di Francesco Bellina, dirigente di Rifondazione
Comunista a Trapani. “Evidentemente ai consiglieri proponenti nulla dice la
storia di Rosa Parks, che nel 1955, rifiutandosi di cedere il posto
sull’autobus ad un bianco, diede vita al famoso ‘boicottaggio degli autobus’ a Montgomery”
è invece la replica di Fabio Bongiovanni dell’Udc.
Anche gli
altri componenti della commissione presieduta da Vassallo, però, hanno subito
preso le distanze dalla proposta del “doppio autobus razziale”. “Non ricordo
una proposta del genere, non so se ero presente alla seduta della commissione,
ma è ovvio che una cosa del genere non può esistere in nessun posto,
soprattutto a Trapani, da sempre aperta e ospitale con gli immigrati” è
l’immediata marcia indietro di Francesco Briale, che è addirittura
capogruppo in consiglio dei Riformisti, lo stesso partito al quale appartiene
Vassallo. Che nel frattempo ha deciso di prendere le distanze dalla sua stessa
proposta. “Non sono razzista, se solo mi conoscesse non penserebbe male di me –
si giustifica il consigliere autore della proposta – Quello degli autobus è un
reale problema della comunità e andava affrontato, ma non certo nel modo
estremo in cui è stato espresso nel comunicato stampa. Volevo solo che la
polizia s’interessasse ai casi di disordini”. Ma chi ha scritto il comunicato
stampa, che proponeva di far precipitare Trapani all’anno zero
dell’integrazione? Ma sempre lui ovviamente, il consigliere Vassallo. Che però
adesso chiede scusa, promettendo di auto rettificarsi: “Sono inesperto, sono in
politica da sei mesi. Volevo dare rilevanza al problema ma ho sbagliato il modo
dell’esposizione nel comunicato stampa. Domani manderò una rettifica. Forse era
meglio evitare quel passaggio sulle linee di autobus separate per gli
immigrati”. Sì, forse era meglio evitarlo. Anzi, sicuramente.
L’abusata
nozione di ‘intelligenza collettiva’ ha trovato in questi due giorni una delle
sue più felici applicazioni. Un articolo sulla vicenda della nave Enrica
Lexie del giornalista Matteo Miavaldi, ospitato sul blog del collettivo di
scrittori Wu Ming, ha
scatenato un’inchiesta collettiva che ha portato alla luce una serie di
gravi inesattezze date per buone dai media e dai politici italiani. E
soprattutto chiarito il ruolo giocato da alcuni personaggi. Come l’ingegnere Luigi
Di Stefano, autore di una perizia difensiva volta a scagionare i due
marò, subito
rilanciata dai maggiori media italiani e arrivata a essere illustrata in una
conferenza presso la Camera dei Deputati il 16 aprile. Peccato che sia
emerso come l’ingegnere non solo non è tale, ma è invece sicuramente un
dirigente nazionale di CasaPound. E suo figlio Simone, della
stessa associazione neofascista, è uno dei fondatori e il candidato alla presidenza
della Regione Lazio.
Tutto parte
dall’esaustivo articolo di Miavaldi, redattore dall’India di China Files, che peraltro non intendeva
entrare nel merito dell’innocenza o della colpevolezza di Salvatore Girone
e Massimiliano Latorre, date le evidenti difficoltà d’interpretazione
del diritto e delle convenzioni internazionali in materia. Piuttosto era teso a
squarciare il velo d’ipocrisia con cui i media e la politica italiana hanno
raccontato la storia. E ha aperto un ulteriore squarcio sulla vicenda. Nella
discussione sviluppatasi in seguito alla pubblicazione, è infatti intervenuto
Di Stefano in persona, che ha riproposto la sua perizia: basata su fotogrammi
provenienti da youtube, dai servizi dei telegiornali italiani e su
un’intervista rilasciata al settimanale Oggi in cui a parlare è un fantomatico
comandante/proprietario del peschereccio, Mr. Freddy Bosco.
Da qui
prende spunto l’inchiesta collettiva, dato che di un Mr. Freddy Bosco la rete
non offre traccia. Ecco che allora, piccato, l’ingegnere risponde con un
curriculum vitae, a suo dire “inappuntabile”, dove dichiara titoli e
collaborazioni con atenei che in realtà la controinchiesta scopre essere
inesistenti, o non accreditati. Come confermato
a ilfattoquotidiano.it dallo stesso Luigi Di Stefano, che ha ammesso
di non essere iscritto ad alcun Albo provinciale di ingegneri e di avere
conseguito la laurea, che dichiara “un semplice vezzo”, alla Adam
Smith University: ente para-universitario per l’apprendimento a distanza e
non accreditato. Un curriculum che invece
lo certifica come dirigente nazionale e responsabile delle politiche
energetiche di CasaPound. A dimostrazione che bastava informarsi su chi fosse il presunto
ingegnere e a quali associazioni appartenesse, prima di prendere per oro colato
le sue deduzioni.
Sarebbe
bastata una ricerca in rete. Ma probabilmente non è stato ritenuto opportuno
farlo. Inebriati da cotanto patriottismo ed essendo in così buona compagnia
nella difesa a prescindere dei due militari, alla stampa italiana non
interessava chi fosse la fonte e da dove attingesse le informazioni. Perché in
realtà la situazione è ancora più complessa. Come spiega lo stesso Di Stefano
a ilfattoquotidiano.it, per redigere la perizia tecnica, non è andato
molto oltre a una ricerca sulla rete: “Non ho mai telefonato in India, le fonti
indiane mi sono state rivelate da alcuni giornalisti italiani (cita alcuni
quotidiani ndr.) che avevano seguito il caso e avevano le loro fonti”. Quindi a
Di Stefano hanno riferito alcune informazioni e diversi dettagli tecnici per
l’estensione della famosa perizia gli stessi giornalisti che poi hanno
certificato e validato i loro articoli grazie alla sua perizia. “Anche sì –
risponde l’interessato -, se poi i dati non sono esatti hanno sbagliato loro”.
Una perizia
che tra l’altro non è ripresa solo dalla stampa, ma anche dal Parlamento. E dopo che era già stata
presentata proprio a Casa Pound (5 aprile) dieci giorni prima di arrivare fino alla conferenza
organizzata alla Camera dei Deputati (16 aprile) su invito “di un deputato
del PdL di cui non ricordo il nome” dice evasivo Di Stefano. Senza che
nessuno avanzasse dubbi sulla sua legittimazione. Solo i Radicali, che
hanno posto la questione al ministro Terzi senza ricevere peraltro
risposta. Quello che un’inchiesta di due giorni sviluppatasi in rete ha quindi
dimostrato è che da più parti, che si tratti della grande stampa o della
politica, per mesi in Italia si è dato credito e risalto alle affermazioni di
un dirigente della neofascista Casa Pound, presentato a torto come ingegnere
super partes. E senza nemmeno volere approfondire le fonti. Cosa che è invece
riuscita in brevissimo tempo grazie al lavoro di scavo, di ricerca e di
condivisione di diverse intelligenze connesse tra loro.
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