È questa la motivazione con la
quale il Tribunale di Crotone il 12 dicembre scorso ha assolto un tunisino, un
algerino e un marocchino difesi dagli avvocati Natale De Meco, Eugenio
Naccarato e Giuseppe Malena. Il giudice Edoardo D'Ambrosio muove dal quadro
normativo europeo e basa il suo ragionamento sul fatto che i provvedimenti di
trattenimento nel Cie emessi dalla questura di Reggio Calabria fossero «privi
di motivazione, e dunque illegittimi alla luce dell'articolo 15 della direttiva
n. 115 del 2008, così come interpretato dalla Corte di Giustizia europea»,
perché «omettevano del tutto l'indicazione delle ragioni specifiche in forza
delle quali non era stato possibile adottare una misura coercitiva meno
afflittiva del trattenimento presso il Cie».
Nel richiamare poi due sentenze
del 2009 della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno condannato Grecia
e Belgio per le pessime condizioni di loro centri di trattenimento, il giudice rimarca
nel caso calabrese i «materassi luridi, privi di lenzuola e con coperte
altrettanto sporche, lavabi e “bagni alla turca” luridi, asciugamani sporchi,
pasti in quantità insufficienti e consumati senza sedie né tavoli» (adesso c'è
la mensa). E trae la convinzione che «le strutture del Centro sono al limite
della decenza», usando il termine «nell'etimologia di convenienti alla loro
destinazione: che è quella di accogliere essere umani. E, si badi, esseri umani
in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul
territorio nazionale. Lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non
deve essere rapportato a chi magari è abituato a condizioni abitative precarie,
ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di razza».
L'asserita illiceità del
trattenimento e «le condizioni lesive della dignità umana» sono «le offese ingiuste»
contro le quali gli imputati hanno dunque reagito per «legittima difesa», di
cui il giudice ravvisa i tre requisiti. C'era l'«attualità del pericolo»,
perché il trattenimento nel Centro «restringeva la loro libertà e le condizioni
ledevano la loro dignità umana». C'era l'«inevitabilità del pericolo», perché,
«quando l'offensore è incarnato da un apparato dello Stato di diritto, gli imputati
non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di
pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di
diritto non il rischio di una violazione dei propri diritti, ma appunto il
rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino». E
per il giudice c'è stata «proporzionalità tra difesa del diritto ed offesa
arrecata», perché «il confronto tra i beni giuridici in conflitto è pacificamente
a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a
quelli, offesi, del prestigio, efficienza e patrimonio materiale della pubblica
amministrazione».
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