Davvero la volontà di Israele è “legge” in Italia?
Innumerevoli gli appelli, le analisi, gli interventi che stanno arrivando sulla “retata antipalestinese” di Genova. Ne pubblichiamo intanto alcuni, scusandoci per l’effetto “antologia”.
*****
Il CRED (Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia) esprime forti perplessità per le misure cautelari emesse nei confronti di Mohammed Hannoun e di altri attivisti impegnati nella solidarietà con la popolazione palestinese.
L’impianto accusatorio palesa un elemento di eccezionale criticità: una parte rilevante delle contestazioni si fonda su documentazione prodotta dall’esercito israeliano nel corso di operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. Tali materiali vengono recepiti come prove documentali senza un effettivo vaglio di terzietà, attendibilità e verificabilità.
Israele non è un soggetto neutrale né una semplice “parte in conflitto”. È uno Stato attualmente sotto scrutinio per genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia e destinatario di misure provvisorie vincolanti. Questo dato giuridico non può essere ignorato nel momento in cui le sue forze armate producono materiale probatorio destinato a incidere sulla libertà personale di cittadini e residenti in Italia.
Si tratta di documenti formati in un contesto radicalmente incompatibile con le garanzie del giusto processo: assenza di contraddittorio e produzione da parte di un apparato militare direttamente coinvolto in crimini oggetto di indagine internazionale. Il loro utilizzo determina un grave slittamento tra cooperazione giudiziaria e recepimento acritico di intelligence militare.
Particolarmente allarmante è la qualificazione di attività di assistenza umanitaria come “finanziamento al terrorismo”, fondata sull’inclusione delle organizzazioni beneficiarie in liste predisposte da un governo straniero. In tal modo, l’etichettamento politico sostituisce l’accertamento giudiziale: se l’esercito israeliano qualifica un soggetto come “familiare di un terrorista”, tale definizione viene assunta come presupposto di reato dal giudice italiano, senza alcuna verifica autonoma.
In
questo quadro, l’azione penale sembra piegarsi a una rilettura unitaria
di oltre vent’anni di attività, tentando di dare rilievo penale a fatti
già oggetto di passate archiviazioni. L’uso di presunti “nuovi
elementi” forniti dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre 2023
configura una sorta di “clima di emergenza interpretativa” che travolge i
principi di legalità e certezza del diritto, agendo retroattivamente su
condotte nate come solidarietà lecita.
Ciò che si delinea è un caso paradigmatico di lawfare: l’uso del diritto penale come proiezione di una strategia politica e militare esterna, in cui l’intelligence di uno Stato accusato di genocidio finisce per orientare le valutazioni di un tribunale della Repubblica Italiana. È un corto circuito istituzionale che compromette la sovranità della funzione giurisdizionale.
Il CRED richiama la magistratura al rispetto rigoroso dei principi di autonomia e indipendenza. L’accertamento penale non può fondarsi su prove prodotte da un apparato militare in guerra, né su etichette politiche. In gioco non vi è soltanto la posizione degli indagati, ma la tenuta dello Stato di diritto e il confine, sempre più fragile, tra giustizia e guerra giuridica.
*
CRED (Center for Research and Elaboration for Democracy) expresses serious concerns regarding the precautionary measures issued against Mohammed Hannoun and other activists engaged in solidarity with the Palestinian population.
The prosecutorial framework reveals an element of exceptional gravity: a significant portion of the charges is based on documentation produced by the Israeli army during military operations conducted in the Gaza Strip. Such materials are accepted as documentary evidence without any effective assessment of neutrality, reliability, and verifiability.
Israel is neither a neutral actor nor merely a “party to a conflict.” It is a State currently under scrutiny for genocide before the International Court of Justice and subject to binding provisional measures. This legal reality cannot be ignored when its armed forces generate evidentiary material intended to affect the personal liberty of citizens and residents in Italy. These documents are produced in a context radically incompatible with the guarantees of due process: absence of adversarial proceedings and production by a military apparatus directly involved in crimes under international investigation. Their use results in a serious slippage from judicial cooperation to the uncritical reception of military intelligence.
Particularly alarming is the classification of humanitarian assistance activities as “financing terrorism,” based on the inclusion of beneficiary organizations on lists drawn up by a foreign government. In this way, political labeling replaces judicial fact-finding: if the Israeli army designates an individual as a “relative of a terrorist,” such a definition is adopted as a presupposition of criminal liability by an Italian judge, without any independent verification.
In this context, the criminal action appears to bend toward a unitary reinterpretation of more than twenty years of activity, attempting to confer criminal relevance on facts that were already the subject of previous dismissals. The use of alleged “new elements” provided by the Israeli army after October 7, 2023, creates a sort of “interpretative emergency climate” that overrides the principles of legality and legal certainty, acting retroactively on conduct that originated as lawful solidarity.
What emerges is a paradigmatic case of lawfare: the use of criminal law as the projection of an external political and military strategy, in which the intelligence of a State accused of genocide ends up shaping the assessments of a court of the Italian Republic. It is an institutional short circuit that compromises the sovereignty of the judicial function.
CRED calls upon the judiciary to rigorously uphold the principles of autonomy and independence. Criminal adjudication cannot be based on evidence produced by a military apparatus at war, nor on political labels. At stake is not only the position of the accused, but the resilience of the rule of law and the increasingly fragile boundary between justice and juridical warfare.
*
يُعرب مركز البحث والصياغة من أجل الديمقراطية
(CRED) عن قلقه الشديد إزاء التدابير الاحترازية الصادرة بحق محمد حنون وبحق ناشطين آخرين منخرطين في التضامن مع الشعب الفلسطيني.
ويكشف البناء الاتهامي عن عنصر بالغ الخطورة: إذ إن جزءًا كبيرًا من الاتهامات يستند إلى وثائق أنتجها الجيش الإسرائيلي خلال عمليات عسكرية نُفذت في قطاع غزة. وقد جرى اعتماد هذه المواد كأدلة وثائقية دون إخضاعها لأي فحص فعلي لحيادها ومصداقيتها وقابليتها للتحقق.
إسرائيل ليست طرفًا محايدًا ولا مجرد «طرف في نزاع». إنها دولة تخضع حاليًا للتدقيق بتهمة الإبادة الجماعية أمام محكمة العدل الدولية، وهي مخاطَبة بتدابير مؤقتة ملزِمة. ولا يمكن تجاهل هذه الحقيقة القانونية عندما تنتج قواتها المسلحة مواد إثباتية يُراد لها أن تمس بالحرية الشخصية لمواطنين ومقيمين في إيطاليا. فهذه وثائق أُعدّت في سياق يتعارض جذريًا مع ضمانات المحاكمة العادلة: غياب مبدأ المواجهة، وإنتاجها من قبل جهاز عسكري متورط مباشرة في جرائم قيد التحقيق الدولي. ويؤدي استخدامها إلى انزلاق خطير من التعاون القضائي إلى التلقّي غير النقدي للاستخبارات العسكرية.
ومما يبعث على القلق الشديد تصنيف أنشطة المساعدة الإنسانية على أنها «تمويل للإرهاب»، استنادًا إلى إدراج المنظمات المستفيدة في قوائم أعدّتها حكومة أجنبية. وبهذه الطريقة، يحلّ الوسم السياسي محل التحقق القضائي: فإذا صنّف الجيش الإسرائيلي شخصًا ما على أنه «قريب لإرهابي»، يُعتمد هذا الوصف كأساس لقيام الجريمة من قبل قاضٍ إيطالي، دون أي تحقق مستقل.
وفي هذا السياق، يبدو أن الدعوى الجنائية تنحرف نحو إعادة قراءة موحّدة لأكثر من عشرين عامًا من النشاط، في محاولة لإضفاء طابع جنائي على وقائع سبق أن كانت محل قرارات حفظ. كما أن استخدام ما يُسمّى «عناصر جديدة» مقدَّمة من الجيش الإسرائيلي بعد 7 تشرين الأول/أكتوبر 2023 يخلق نوعًا من «مناخ طوارئ تفسيرية» ينسف مبادئ الشرعية واليقين القانوني، ويعمل بأثر رجعي على أفعال نشأت بوصفها تضامنًا مشروعًا.
وما يتبلور هنا هو نموذج واضح لحالة من الحرب القانونية (Lawfare): استخدام القانون الجنائي كامتداد لاستراتيجية سياسية وعسكرية خارجية، بحيث تنتهي استخبارات دولة متهمة بالإبادة الجماعية إلى توجيه تقييمات محكمة من محاكم الجمهورية الإيطالية. وهو خلل مؤسسي خطير يمس بسيادة الوظيفة القضائية.
ويدعو مركز CRED السلطة القضائية إلى الالتزام الصارم بمبادئ الاستقلالية والحياد. فلا يجوز أن يقوم الإثبات الجنائي على أدلة أنتجها جهاز عسكري منخرط في حرب، ولا على تسميات سياسية. فالمطروح على المحك ليس فقط وضع الأشخاص الخاضعين للتحقيق، بل متانة دولة القانون، والحدّ الفاصل — الذي يزداد
*****
L’inchiesta sui presunti finanziamenti ad Hamas vuole criminalizzare chi si oppone al sionismo e all’imperialismo genocida
Non ci siamo mai lasciati davvero alle spalle gli spettri del Novecento. Negli anni Settanta, in Italia, il cosiddetto “teorema Calogero” trasformò il dissenso sociale in un’ipotesi criminale: un’equazione giudiziaria che stabiliva un nesso implicito tra conflitto politico, lotta di classe e insurrezione armata. Un dispositivo interpretativo tanto elastico da consentire indagini, arresti e processi non su prove, ma su possibilità: bastava condividere assemblee, riviste, slogan, frequentazioni, per essere risucchiati nel cono d’ombra del sospetto.
Cinquant’anni dopo, quella logica non è scomparsa: ha cambiato linguaggio, bersagli e strumenti, ma non la sua funzione. Oggi il “solidale” diventa pericoloso, il dissenso destabilizzante, la critica radicale delegittimazione. L’inchiesta sui presunti finanziamenti ProPal ripropone lo stesso meccanismo a catena: qualsiasi sostegno umanitario o politico a un popolo sotto attacco rischia di essere decodificato non come atto di solidarietà, ma come indizio di complicità con il “terrorismo”. Un clima che non nasce nelle aule dei tribunali, ma nei dogmi geopolitici dell’impero, dove la paura non è un effetto collaterale: è un metodo di governo delle coscienze.
La guerra nella Striscia di Gaza ha amplificato un dibattito globale senza precedenti sul peso delle parole e sulle responsabilità del potere. Organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International parlano apertamente di atti riconducibili alla definizione giuridica di genocidio: accuse respinte con fermezza dalle autorità israeliane, ma che segnano un punto di frattura nel racconto pubblico occidentale, un tempo quasi monolitico. In Italia, questa tensione si è abbattuta anche sull’accademia.
Il professor Luciano Vasapollo, economista marxista e fino a novembre decano di Economia alla Sapienza di Roma, ha subito una campagna di delegittimazione mediatica violentissima per aver denunciato in un’assemblea studentesca il «genocidio a Gaza» e definito Israele uno «Stato terrorista». Non era un intervento didattico, ma un atto politico, pronunciato in un’assemblea pubblica: eppure tanto è bastato per scatenare attacchi frontali, richieste di licenziamento da parte di esponenti del governo – tra cui Matteo Salvini – e servizi televisivi che, denunciano il docente e i suoi legali, hanno travisato i fatti fino alla calunnia.
Ne sono nate querele per diffamazione. Ma ne è nata anche un’ondata di solidarietà trasversale da parte di docenti, sindacati di base, movimenti sociali e studenti: un argine, fragile ma reale, a un riflesso repressivo che si pensava confinato ai libri di storia.
Oggi, l’arresto di Mohammad Hannoun – attivista palestinese molto noto per il suo impegno umanitario – ha riaperto il vaso di Pandora della criminalizzazione del dissenso internazionalista e della critica al sionismo. Ne abbiamo parlato con il professor Vasapollo, che non si sottrae alle parole forti, ma le inserisce in un quadro teorico e storico più ampio, che va ben oltre il singolo caso giudiziario.
Professore, cosa sta accadendo oggi in Italia sul piano della repressione del dissenso?
Stiamo assistendo a un salto di paradigma. Negli anni Settanta si criminalizzava l’idea di rivoluzione; oggi si criminalizza l’idea di autonomia critica. Non si tratta più soltanto di colpire un’ideologia politica: si vuole spegnere la possibilità stessa di una voce alternativa, non allineata. È un’operazione culturale prima ancora che penale.
Il potere non vuole convincerti: vuole farti sentire isolato. E per farlo usa etichette assolute, come “Stato canaglia”, “regime terrorista”, “studente estremista”, “movimento violento”. Il messaggio è intimidatorio: non donare, non sostenere, non schierarti, perché un gesto di umanità potrebbe essere trasformato in indizio penale.
È la pedagogia della paura: un dispositivo che frantuma la comunità, isola l’individuo e lo riduce a ingranaggio economico, merce tra le merci. La repressione non agisce più solo sulle piazze: agisce sui legami, sulle parole, sui sentimenti collettivi. È un maccartismo liquido, compatibile con la società dei consumi, dove il nemico non va confutato: va reso impensabile.
I media hanno preso di mira movimenti, sindacati e realtà sociali. Qual è il disegno?
È il disegno della deterrenza sociale. Guardate come vengono descritti sindacati come USB, collettivi come OSA, reti come la Rete dei Comunisti, spazi sociali come il Leoncavallo: non vengono criticati per ciò che fanno, ma per ciò che rappresentano. Sfide al pensiero unico, al dogma dell’Occidente come “unico orizzonte possibile”. Se una petroliera porta energia a Cina o Cuba scatta l’accusa di “pirateria” o “sostegno al nemico”.
Non importa il diritto internazionale: importa solo chi ha la forza di farsi rispettare. Uno Stato che si autoproclama polizia del mondo non garantisce la pace: la sostituisce con l’interesse economico dell’impero. E quando questo modello entra in crisi, chi prova a dire una parola diversa diventa una minaccia interna da neutralizzare. I media preparano il terreno: poi la magistratura, in un clima già avvelenato, trova sponda culturale per l’intervento repressivo. È un circuito perfetto, come nel Novecento, ma con i “like”, la pubblicità e l’indignazione algoritmica al posto delle adunate di massa.
Professore, Faro di Roma parla di una corrispondenza tra il teorema Calogero degli anni ’70 e le logiche repressive odierne. Che cosa le unisce?
Le unisce il metodo della colpa preventiva. Negli anni ’70 si diceva che “il dissenso prepara le armi”, oggi si sostiene che “i solidali finanziano il terrorismo”. In entrambi i casi non si colpiscono prove, ma possibilità, frequentazioni, parole. È una costruzione di nemici simbolici che serve a isolare chiunque sfidi il paradigma dominante.
All’epoca io stesso fui colpito in modo durissimo. Venni tradotto nelle carceri speciali, con mandati di cattura a catena basati sulla parola dei pentiti, spesso indiretta, fondata sul “sentito dire”. Mi fu applicato l’articolo 90 dell’ordinamento penitenziario, un regime molto peggiore del 41-bis: isolamento estremo, trasferimento a oltre 700 km da Roma, a 600–700 km dalla mia città, colloqui a vetro, censura, stigmatizzazione sociale. E non colpiva solo me, ma i miei legami familiari: i miei familiari subirono trattamenti umilianti, controlli, viaggi estenuanti, ostacoli burocratici, un impatto punitivo sugli affetti, non solo sull’imputato.
Oggi, a distanza di cinquant’anni, in che forma questa logica si ripresenta?
Si ripresenta come un teorema del potere costituito. La solidarietà internazionale diventa indizio, l’aiuto umanitario sospetto, la critica politica “odio”, l’incompatibilità al pensiero unico un pericolo sociale. È lo stesso schema: costruzione del nemico, criminalizzazione preventiva, intimidazione delle coscienze.
La criminalizzazione della solidarietà a chi serve davvero?
Serve a isolare, intimidire, neutralizzare. A impedire che una sola scintilla accenda la prateria, come diceva Mao. E invece la scintilla può ancora incendiare le coscienze. Ribellarsi è giusto! Una scintilla può dar fuoco a tutta la prateria. Il capitalismo teme l’individuo pensante, non quello che consuma. Il consumismo è il catechismo laico del capitalismo.
Dopo gli orrori del Novecento, il controllo totale non è scomparso: si è esternalizzato nel mercato. Non servono più soltanto leggi speciali: basta programmare i desideri, modellare i bisogni, saturare l’orizzonte dell’immaginazione. Un popolo che consuma senza pensare non si ribella, non solidarizza, non immagina alternative. E chi prova a farlo – un movimento studentesco, un centro sociale, un sindacato di base, un internazionalista – viene raccontato come minaccia all’ordine, alla “sicurezza”, alla “governabilità”.
La libertà di espressione è tollerata solo se non produce conseguenze reali. Ma la critica a un potere che fa la guerra, occupa territori o pratica pulizie etniche non è mai neutra: genera scelte, legami, azione collettiva. Ed è questo che il mercato e la politica di sistema temono davvero: non la piazza in sé, ma l’individuo pensante che ritrova la comunità e smette di riconoscersi come merce.
Lei parla di “incompatibili” che oggi sono a rischio. Chi sono nell’Italia in cui viviamo gli incompatibili?
Sono tutti coloro che non rientrano nel recinto della compatibilità sistemica. Il perimetro del “legittimo” arriva al massimo al PD, ad AVS, al Movimento 5 Stelle e a Rifondazione Comunista quando si piegano alla governabilità. Tutto ciò che eccede – i sindacati conflittuali, i centri sociali, le reti internazionaliste, i movimenti studenteschi radicali, chi denuncia l’imperialismo come sistema di guerra permanente – viene spinto fuori dal campo del legittimo. E ciò che è fuori dal legittimo diventa minaccia. Allora eri “eversore”, oggi diventi potenziale terrorista. La vera colpa non è un atto, è l’incompatibilità all’obbedienza preventiva.
Professore, lei cita spesso il grido dei nativi americani “Hoka Hey”. Che valore ha oggi?
“Hoka Hey” non è un inno alla morte, come spesso viene travisato, ma al coraggio radicale. Per i nativi significava “È un buon giorno per combattere”, l’affermazione suprema della dignità in battaglia, il rifiuto dell’assoggettamento. I Klingon lo ripresero come metafora cinematografica della gloria nella lotta; Mao lo tradusse nel linguaggio della rivoluzione popolare: «una scintilla può incendiare la prateria».
Oggi quella scintilla non è soltanto l’insurrezione fisica: è la rottura del dispositivo della paura. È il rifiuto dell’etichetta come destino, della merce come identità, dell’omologazione come unica via. È il gesto minuscolo ma irriducibile di chi dice: io non mi lascio dissuadere dall’umano. Anche se fosse l’ultimo giorno, sarebbe un buon giorno per lottare: non per morire, ma per svegliarsi. Perché lottare non significa scegliere la fine, ma scegliere l’inizio: la possibilità di essere comunità, popolo, storia, e non solo mercato.
In questa battaglia, qual è l’orizzonte politico?
Il socialismo come liberazione dell’umano, non come marchio geopolitico. Un’idea di decolonizzazione delle relazioni, delle coscienze e dei diritti, che include tutte le esperienze che sfidano l’impero della merce: Cuba, Nicaragua, Venezuela, Vietnam, Laos, e soprattutto la Palestina autodeterminata. Hamas, al di là della sua cornice religiosa, nasce come movimento di resistenza, eletto nel 2006 in un voto libero che l’Occidente ha poi preferito rimuovere.
Oggi la solidarietà internazionale viene trasformata in ipotesi criminale per dissuadere la gente dal mettere anche solo un euro per chi muore sotto le bombe. Ma il punto di non ritorno non è l’arresto: è il tentativo di spezzare la solidarietà come categoria politica e umana. Se la repressione vuole rendere impensabile la scintilla, il nostro compito è opposto: riaccendere le coscienze. Perché senza coscienza non c’è liberazione, e senza liberazione non c’è solidarietà. E la solidarietà di classe non è terrorismo: è autodifesa dell’umano contro l’impero della merce.
Insomma, professore: il vero terrorismo del nostro tempo?
Non è un movimento, ma un metodo di potere. È il terrorismo di Stato che si fa norma geopolitica, l’imperialismo armato che pretende obbedienza preventiva, il capitalismo che ammette la critica solo se non produce alternative. A me non interessa il catechismo religioso dell’imperialismo: interessa la libertà concreta, quella che si misura nella possibilità di pensare, scegliere, donare, solidarizzare, lottare. Anche con un euro, anche con una parola. Soprattutto con una parola.
Qual è allora l’orizzonte di questa “battaglia delle coscienze”?
Socialismo, qui e ora. Non come brand geopolitico, ma come orizzonte di liberazione e decolonizzazione. Un sogno di battaglia che include Cuba, Nicaragua, Venezuela, Cina, Vietnam, Corea, Laos, e soprattutto l’autodeterminazione della Palestina e di tutti i popoli che lottano contro l’imperialismo. Lottare per vivere – qui e ora – significa vivere senza se e senza ma: Socialismo.
Lo slogan di Mao esalta il potere di mobilitazione delle masse e l’importanza delle insurrezioni popolari. Sottolinea come un piccolo atto di ribellione possa innescare un vasto movimento rivoluzionario, come evidenziato in documenti e pubblicazioni dedicate al pensiero rivoluzionario e marxista. Mao si riferiva alle insurrezioni contadine nel Kiangsi, vedendo in esse una grande potenzialità rivoluzionaria contrapposta all’influenza imperialista di Hong Kong. La frase vuole comunicare che anche un piccolo gruppo di combattenti o un singolo atto rivoluzionario (“la scintilla”) può accendere la “prateria” (il popolo), portando a una rivoluzione su larga scala.
Un messaggio che invita a non sottovalutare i movimenti di base, ma a considerarli come il seme di una rivoluzione più ampia, un concetto centrale nel pensiero politico di Mao. Celebra il potenziale rivoluzionario del popolo e l’efficacia dell’azione diretta per innescare il cambiamento.
“Ribellarsi è giusto!” è anche un pamphlet di Jean-Paul Sartre, in cui l’intellettuale francese riflette provocatoriamente sulle ingiustizie e il perbenismo della società occidentale. Scritto negli anni Settanta, in un periodo di militanza politico-intellettuale, Sartre si avvicina ai gruppi di estrema sinistra, assume la responsabilità giuridica del periodico La Cause du Peuple e contribuisce alla fondazione del quotidiano Libération. Le sue pagine restano attuali di fronte alla crisi sistemica del Capitale.
Rita Martufi e Salvatore Izzo
*****
Nel caso dell’arresto di Mohamed Hannoun e degli altri fratelli, la tesi investigativa appare francamente grottesca. Si sostiene che il terrorismo si finanzierebbe tramite bonifici bancari ordinari, completamente tracciati, intestati a una persona pubblica, costantemente esposta, attiva da anni alla luce del sole e sottoposta a controlli continui. È una ricostruzione che fa sorridere per quanto è poco credibile.
Le presunte “indagini in Palestina” non risultano tali: non emergono accertamenti autonomi, ma solo informazioni fornite da fonti israeliane, non verificabili e già più volte rivelatesi false o strumentali. Su questa base si costruisce un impianto accusatorio che arriva a criminalizzare persino il sostegno umanitario, come dare da mangiare agli orfani o aiutare famiglie colpite dalla guerra.
Il paradosso è evidente: mentre si partecipa politicamente e diplomaticamente a un genocidio, si criminalizza chi svolge lavoro umanitario. Chi soccorre viene trattato come un criminale, mentre chi sostiene l’oppressione viene normalizzato. Un rovesciamento morale e giuridico inquietante.
Ancora più grave è il ruolo di una magistratura che, in questa vicenda, sembra oltrepassare il proprio perimetro, erigendosi a giudice della politica internazionale e improvvisandosi esperta di Medio Oriente, conflitto israelo-palestinese e diritto internazionale, sulla base di narrative politiche esterne.
Il tutto si inserisce in un quadro di evidente sudditanza dell’Italia verso Israele, che compromette l’autonomia delle istituzioni e la credibilità dello Stato di diritto. Questa vicenda non riguarda solo Hannoun: riguarda lo spazio democratico, la libertà di azione umanitaria e il diritto di dissentire.
La resa dei conti non sarà giudiziaria, ma storica, politica e morale.
Davide Piccardo

Nessun commento:
Posta un commento