
«Ricordiamo oggi nostro fratello Awdah Hathalin, un padre, un marito, un giovane insegnante che ha lasciato un segno profondo nella nostra scuola per il rapporto umano che sapeva instaurare con studenti e colleghi». La voce del docente si interrompe per un attimo, sovrastata dagli applausi della folla. Nel cortile della scuola di Umm el Kheir, che accoglie i bambini delle piccole comunità palestinesi di questa parte di Mesafer Yatta, a sud di Hebron, si sono radunate almeno duecento persone. Uomini, donne, tanti bambini, ma anche alcune decine di attivisti israeliani antisionisti che aiutano i palestinesi di questa zona minacciati dai coloni. Potrebbe sembrare una commemorazione come tante, il ricordo di qualcuno scomparso per malattia o incidente. Ma il grande striscione affisso al secondo piano dell’edificio scolastico non lascia spazio a dubbi: «Giustizia per Awdah Hathalin».

Il video diffuso poco dopo non lascia spazio a interpretazioni: colpi esplosi a distanza ravvicinata, grida di bambini, Awdah che continua a filmare fino all’ultimo istante della sua vita. L’assassino fu fermato solo per poche ore. Poi il rilascio, senza accuse formali. Tornò fiero al suo avamposto, accolto dai suoi compagni. «Sono contento di quello che ho fatto», avrebbe detto, secondo testimonianze raccolte da attivisti israeliani. Nessuna incriminazione. La sua scarcerazione immediata è apparsa come l’ennesima conferma del doppio binario della giustizia israeliana: tribunali inflessibili con i palestinesi, compiacenti con i coloni armati.
La vicenda di Awdah si inserisce in un quadro ben più vasto di violenza. Mesafer Yatta, ribattezzata dai militari israeliani «Zona di Fuoco 918», è teatro da anni di un lento strangolamento. Più di mille palestinesi vivono sotto minaccia costante di sfratto e demolizioni. La Corte suprema israeliana ha respinto i loro ricorsi, consegnandoli a una precarietà permanente. E nell’ultimo anno gli assalti dei coloni si sono intensificati: incursioni notturne, incendi di campi, devastazioni di scuole. In marzo, a Jinba un attacco condotto da decine di uomini armati ha lasciato a terra almeno sei feriti, tra cui bambini, mentre case e una scuola venivano saccheggiate e danneggiate.

Qualche sera fa a Kallet al Dabaa, un villaggio già sfollato con la forza più volte, un gruppo di coloni ha picchiato e ferito dodici persone – tra cui un neonato riferiscono i palestinesi – durante l’ennesimo raid contro chi tenta di tornare al villaggio sfollato con la forza mesi fa allo scopo di dare vita a nuove colonie e nuovi insediamenti. Spesso gli aggressori indossano uniformi militari, indistinguibili da quelle dei soldati, e mettono in atto veri e propri rastrellamenti come se fossero forze di polizia a tutti gli effetti. Dal 7 ottobre concentrano la loro attenzione anche sugli attivisti internazionali: li fermano, quindi li segnalano alle autorità per farli espellere.
«C’è un attacco contro i palestinesi una volta, due volte, tre volte, ogni giorno», racconta al manifesto Khalil Hathalin, fratello di Awdah. «I coloni attaccano la gente, le case, attaccano tutti. Vogliono trasferire i palestinesi». Dopo l’uccisione del fratello, Khalil si sente più determinato che mai. «Ho paura di quello che accade qui – dice – ma la paura mi dà più forza, più energia. Non ho nessun altro posto dove andare. Questa è la terra di mio padre e di mio nonno. E resterò qui, come tutta la nostra gente». Il suo volto si illumina quando ricorda Awdah, sempre in prima linea per i diritti della comunità di Umm el Kheir. «Abbiamo bisogno che i governi europei e gli Stati uniti fermino gli attacchi contro i palestinesi. Ogni giorno ci sono aggressioni. Fermatele, e così onorerete anche mio fratello».
Durante la commemorazione, un gruppo di soldati entra nella scuola per pochi minuti, poi si sposta a bloccare l’ingresso del villaggio e impedisce l’accesso a un paio di giornalisti. «Va avanti così da lungo tempo» spiega un’attivista israeliana. E aggiunge: «Sempre più spesso i militari compiono raid e arresti senza alcun motivo, e le detenzioni – anche degli attivisti – si fanno sempre più dure»
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