La loro casa, da sette giorni, è sotto un ponte. Non il gigante spezzato, che è comunque vicinissimo e sporge con il suo moncherino proteso nel vuoto, come il trampolino di una piscina immaginaria: quello della ferrovia, che passa sopra via Fillak, nel quartiere di Certosa. È qui che comincia la zona rossa, che dall’altra sera è diventata inaccessibile perché quel che resta del mostro ferito ha preso a scricchiolare. Ed è qui che, da sette giorni, trascorre le sue ore la famiglia Marinelli. Sabino e Giusy, impiegato di banca in pensione lui, dipendente di un negozio di giocattoli lei, classe ’54, entrambi in pensione. E le due figlie, Monica e Manuela, gemelle, anche se non identiche: 36 anni compiuti l’altro ieri, «è da un mese che ci chiediamo dove festeggiamo, andiamo a cena fuori? Ecco, fuori ci siamo». Manuela trova la forza di scherzarci sopra, «se non ci tiene su l’energia implodiamo, proprio come il ponte»... i Marinelli sono una delle 311 famiglie genovesi sfollate: l’alloggio di Sabino e Giusy è — o meglio, era — al civico16 interno 6 di via Porro, mentre la figlia Monica abitava da sola due piani sotto, all’interno 1. Quando il ponte è crollato, lei leggeva in cucina, in pigiama. «Ho sentito un tuono molto più forte degli altri. Ho alzato gli occhi alla finestra, e l’ho visto. Si stava sgretolando, letteralmente: non riesco a togliermi quell’immagine dalla mente». Sabino, Giusy e Monica non sanno quando, e soprattutto se, a casa potranno rientrarci: per ora sono ospiti dall’altra figlia, Manuela, e di suo marito Luca, in via Mansueto, non lontano da qui. La loro vita è accatastata nell’atrio dell’appartamento, dentro borse e scatoloni che non bastano mai, e infatti in via Fillak sono l’articolo più richiesto dagli sfollati. O meglio, lo erano fino all’altro ieri, perché ormai è diventato impossibile oltrepassare le transenne per tornare a prendere le proprie cose, nemmeno scortati dai vigili del fuoco: troppo pericoloso. «Per fortuna ci era appena arrivato il divano letto — sorride Manuela — lì ci dormono i miei genitori, mia sorella in sala. La privacy non esiste più. Eppure noi siamo fortunati, ce ne rendiamo conto. Siamo vivi, prima di tutto»
I Marinelli si alzano presto, in questi giorni nessuno riesce a riposare bene. Arrivano in via Fillak, e prendono servizio. Giusy ha il piglio dell’organizzatrice, tiene in mano un registro, le persone vengono da lei a lasciare i propri contatti, a chiedere dove prendere gli scatoloni, come fare per la casa, un semplice consiglio. Lei inforca gli occhiali da lettura, segna sull’agenda e si attacca al cellulare. «Il primo giorno, grazie alla mamma, qui si è evitata la sommossa — ricorda Monica — eravamo tutti in attesa, la tensione era altissima. Lei ha fatto un po’ da filtro, anche perché conosce tutti».E infatti, l’unico pensiero che la fa vacillare è l’idea di andare a vivere lontano da Certosa: da quella casa che avevano comprato i nonni ferrovieri, dopo una vita di sacrifici, e dove hanno investito i propri risparmi per ristrutturarla. «Dal quartiere non ci spostiamo — interviene il marito, capelli bianchi a spazzola, maglietta azzurra e sguardo stanco — mia moglie mi diceva proprio ieri: andiamo ad abitare vicino alla nostra amica, almeno. Vederci sparpagliati ci fa male. Ma come si fa, bisogna ancora capire se e dove ci assegneranno queste famose case. Ufficialmente non è venuto nessun politico, qui, a spiegarcelo bene: hanno fatto solo passerella.
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