domenica 1 luglio 2012

pc 1 luglio - merde in polizia - Milano e ovunque


Incontrano un anziano di notte in una strada di Milano e lo massacrano di botte. Poi lo denunciano per resistenza a pubblico ufficiale. Smascherati dalle immagini riprese da alcune telecamere, finiscono in manette.
Sarà che siamo sensibili al tema, ma ci sembra proprio che gli episodi di ‘Malapolizia’ in questo paese stiano diventando sempre più numerosi e inquietanti. Altro che mele marce.
L’ultimo episodio è accaduto a Milano, dove due agenti di Polizia in borghese hanno prima riempito di botte un anziano e poi lo hanno denunciato con l’intento di farlo arrestare per “resistenza a pubblico ufficiale”. Ma sono stati scoperti grazie alle immagini registrate da alcune telecamere presenti sul luogo del pestaggio e arrestati. Violenti e sbadati. I poliziotti arrestati hanno circa 24 anni e sarebbero in servizio da appena un anno.
Le accuse nei loro confronti sono lesioni gravissime, falso ideologico (perché hanno dichiarato il falso dicendo che l'anziano era caduto a seguito di una spinta), e calunnia (per aver denunciato di essere stati aggrediti dall’uomo).
I due appartenenti agli apparati di sicurezza, Federico Spallino e Davide Sunseri, hanno aggredito il 64enne Luigi Vittorino Morneghini verso le tre di notte del 21 maggio scorso, e lo hanno pestato così forte da rompergli numerose ossa della faccia (le fratture procurate in totale sono una quarantina) tanto da deformargli il volto in maniera permanente. Le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza – che hanno corroborato la versione di una donna di 50 anni che si trovava in quel momento in compagnia del malcapitato - mostrano i due che incontrano casualmente l’uomo per strada, cominciano a parlarci e poi cominciano a picchiarlo selvaggiamente con pugni e calci in pieno volto prima in mezzo ad una strada nella zona della Darsena, in Viale Gorizia, poi in un luogo più appartato a poca distanza dove avevano trascinato la vittima.
L’arresto è stato disposto dal Gip Alessandra Clemente che ha accolto la richiesta di custodia cautelare avanzata dal secondo dipartimento della procura di Milano. Ha scritto la Pm Tiziana Siciliano chiedendo l’arresto dei due agenti: «Nemmeno un pubblico ministero con anni di esperienza quale chi scrive avrebbe mai potuto immaginare la reazione fredda ma bestiale dei due» che dovrebbero essere «rappresentanti dell'ordine». Anche in questo caso, come in quello del romano Stefano Gugliotta, delle riprese hanno permesso di stabilire la verità dei fatti. Ma in quanti altri casi non ci sono telecamere a testimoniare gli abusi e le vere e proprie torture inflitte dagli uomini in divisa al malcapitato di turno? Quanti di questi abusi non vengono neanche denunciati dalle vittime per paura di ritorsioni?


Sembra che la sentenza di Cassazione del 21 giugno sull’omicidio Aldrovandi abbia creato un inarrestabile effetto domino. Le cronache dell’ultima settimana straripano di fattacci legati alle divise.

L’effetto immediatamente visibile è il progressivo sgretolarsi di quella cortina di inviolabilità che circonda i crimini compiuti da elementi delle forze dell’ordine. Si sgretola sotto il peso della denuncia incessante, delle voci e delle parole di coloro che quel timore reverenziale nei confronti dei tutori dell’ordine non lo conoscono.
Tutto è cominciato da quella torrida giornata di giugno, nei maestosi corridoi della Cassazione, IV sezione penale. In una camera di consiglio durata quattro ore, il giudice e i suoi consiglieri avevano la gravosa responsabilità di creare un precedente inedito; confermare una condanna che avrebbe fatto - almeno si spera - da apripista a esiti simili per processi altrettanto complessi, caratterizzati dagli stessi veleni del caso Aldrovandi, le stesse menzogne, lo stesso sistema di corruzione e autotutela oltranzista.
La Corte di Cassazione dubbi non ne ha avuti: sentenza confermata, e un messaggio chiaro a tutti coloro che a vario titolo dovranno fare i conti con gli altri casi: vittime e colpevoli, pubblici ministeri, avvocati, giornalisti e classe politica. L’aria è cambiata, poco importa se sull’onda di una sentenza blanda, poco più che simbolica.
C’era serenità nell’aria, e l’immagine che tutti avevano in mente era quella di una famiglia che ora poteva ritirarsi a vita privata, ad accarezzare in silenzio il ricordo di un figlio ucciso dallo stato. Ci ha pensato Paolo Forlani a rinfocolare le polemiche, con quelle parole infamanti diffuse su internet, e che hanno avuto l’unico risultato di svelare pubblicamente la propria vera natura. Che in fondo è la vera natura di ampie fasce delle forze dell’ordine di questo paese. Una cultura della violenza alimentata da retaggi fascisti, e da un abuso smodato dei poteri conferiti dalla divisa.
Di fronte a questo grossolano errore di comunicazione la reazione della Polizia di Stato semplicemente non c’è stata. Scomparso l’ufficio stampa, scomparsi gli spin doctor, non pervenuto Manganelli. Solo la Ministra Cancellieri, vagamente contrariata, ha agitato la bacchetta disciplinare, e minacciato non meglio precisati provvedimenti. Che attendiamo con fiducia, nella speranza che abbiano a che fare con un rapido e inderogabile licenziamento, per Forlani, e per gli altri tre complici.
La speranza accesa dall’esito del caso Aldrovandi deve portare tutti a tenere alta l’attenzione sugli altri processi ancora in corso. Presto toccherà alla giovane figlia di Michele Ferrulli, Domenica Ferrulli, entrare e uscire dalle aule giudiziarie, dove si spaccherà il capello in quattro sulla morte di suo padre. Dove ancora una volta l’omicidio preterintenzionale declina in omicidio colposo, come se un pestaggio violento e gratuito potesse essere assimilato a un incidente stradale non voluto. Come se si affermasse che quattro agenti immortalati in un video durante un vigoroso “massaggio cardiaco” a base di manganelli – così hanno provato a spacciarlo – non avevano intenzione di offendere fisicamente, ma di difendere, proteggere, curare. Ieri era il giorno della fiaccolata in memoria di questo uomo di cinquant’anni che ha trovato la morte per uno stereo ad alto volume e una birra di troppo.
La settimana prosegue con un’altra notizia di sangue. Due poliziotti di 24 anni, Federico Spallino e Davide Sanseri, vengono arrestati per aver massacrato un uomo di 64 anni. Ancora una volta un video li inchioda e li denota per ciò che probabilmente sono: due giovani agenti di polizia che indossano la divisa per puro caso, per alternativa a un presente senza prospettive, non per passione né per vocazione. Quella divisa che ben sapevano di poter sfruttare mentre tentavano di uccidere il malcapitato sessantaquattrenne, al riparo da occhi indiscreti, in modo premeditato e animalesco. Due ragazzini, passati per le maglie larghe delle selezioni pubbliche, e che non fatichiamo a immaginare con trascorsi di bulletti da scuola, o come picchiatori da strada, già da molto prima di indossare la divisa. Anche in questo caso sindacati, ufficio stampa e ufficio pubbliche relazioni tacciono. Tacciono di fronte a domande che resteranno inevase ancora per molto: quali sono i criteri di selezione della Polizia di Stato? Chi si occupa della formazione? Esiste un sostegno psicologico? Esiste un sistema che individui e colga in tempo segnali di instabilità mentale, stress psicofisico, inclinazione alla violenza? Esiste un adeguato quadro disciplinare che funzioni da forte deterrente per chiunque pensi di abusare della propria divisa? Il sistema delle forze dell’ordine italiane va rivisto, ricalibrato, ripensato in senso democratico? Non è forse il momento per ricomporre i vertici e la dirigenza? Si attendono risposte.
La settimana nera della polizia italiana si conclude con le parole contenute nella sentenza del processo Uva, occasione per fare nuovamente una breve riflessione sui rapporti inquinati tra procure e forze dell’ordine.
Il giudice Muscato offre infiniti spunti critici e analitici sull’operato della pubblica accusa, e su come una simile condotta abbia irreparabilmente alterato un processo già di per sé delicatissimo. Spostare l’attenzione processuale sui medici e non su coloro che hanno arrestato e trattenuto in caserma Giuseppe Uva resta una mossa ancora tutta da spiegare, e che ha portato a risultati praticamente nulli.
Resta da chiarire chi porterà avanti il nuovo processo auspicato dal giudice Muscato, a carico – eventualmente - di otto tra poliziotti e carabinieri. Chi e come dovrà ricostruire quelle tre ore che hanno precededuto la morte di Giuseppe Uva? Chi copre i veri responsabili, quali che siano? E perché?
La certezza acquisita in questa settimana tremenda per la forza pubblica, è che il teorema delle mele marce ormai appartiene alla preistoria, non regge. La frequenza di episodi violenti aumenta esponenzialmente di settimana in settimana, e l’unica risposta è il mutismo istituzionale.

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