Prima la Meloni e adesso
Mattarella, tutti e due con la scorta di padroni come il presidente di
Stellantis Elkann, economisti ecc. ecc. vanno in Cina: è una lunga carovana che
ripercorre la via di Marco Polo per fare accordi commerciali con l’obiettivo
principale di salvaguardare i profitti dei padroni.
Mattarella, che si è portato la
figlia, ci starà 5 giorni, ed è insieme al ministro degli Esteri Tajani (e c’è
pure Casini!) per una visita istituzionale e sta incontrando con i maggiori
esponenti del governo cinese, innanzi tutto con il presidente Xi Jinping.
L’obiettivo, insieme a tutta una serie di dichiarazioni sui temi più disparati, è stato dichiarato
pubblicamente e ripetuto anche durante la lezione magistrale tenuta da Mattarella, ed è la sostanza, come ha scritto un quotidiano, e cioè, appunto, gli accordi commerciali. E gli affari con la Cina vanno bene: gli scambi commerciali sono passati, dal 2016 al 2022, da 38 a 74 miliardi, mentre gli investimenti dei padroni italiani sono arrivati nel 2023 a 15 miliardi.Solo il quotidiano il sole 24 ore
ha però riportato i particolari di un accordo approvato, appena prima della
visita in Cina del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che
sblocca i profitti che i padroni italiani fanno in Cina.
Questo accordo, che dovrebbe
beneficiare tutte e due le parti, Cina e Italia, e che entrerà in vigore dal 1°
gennaio 2025, è stato siglato nel 2019 e approvato all’unanimità in
Italia in questi giorni, e prevede tra l’altro “la creazione di
condizioni più favorevoli per le imprese italiane attive in Cina e un
quadro normativo più stabile per gli investitori cinesi in Italia.”
Le imprese del capitalismo-imperialismo italiano in Cina sono oltre 1600, secondo il sito InforMercatiEsteri, e sfruttano
oltre 170.000 lavoratori, con un giro d’affari superiore ai 27 miliardi di
euro.
La questione più importante,
quindi, per i padroni riguarda i profitti, in questo accordo chiamati “dividendi”:
come fare a pagare meno tasse e come portarli nei loro conti in Italia senza
tanti ostacoli burocratici: si parte da una “riduzione dell’aliquota di
ritenuta alla fonte rispetto al Dta [regime di doppia tassazione] del 1986,
che passa dal 10 al 5 per cento in caso di dividendi di investimenti con
partecipazione di almeno il 25 per cento del capitale, quindi con una
tassazione dimezzata sui dividendi distribuiti dopo l’entrata in vigore del
nuovo accordo.”
È prevista poi “una riduzione
all’8 per cento per gli interessi pagati agli istituti finanziari
per prestiti di durata minima di tre anni finalizzati a progetti
d’investimento, mentre gli interessi pagati o ricevuti da istituzioni
pubbliche sono esenti da tassazione. Relativamente alle royalties [nella
sostanza ciò che si paga per poter utilizzare un brevetto, per es.], il nuovo
trattato fiscale mantiene un’aliquota standard del 10 per cento, con una
riduzione al 5 per cento per le royalties su attrezzature industriali,
commerciali o scientifiche. Si tratta di un risultato molto atteso dalle
aziende italiane in Cina che potranno pianificare in modo diverso le politiche
di reimpatrio degli utili.”
Insomma, Mattarella fa ancora una
volta il commesso viaggiatore in nome e per conto del capitalismo italiano, e
più che ripercorrere l’antica via della seta, percorre la via dei profitti dei
padroni.
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