Quattro
operai morti avvelenati sul lavoro a Milano. Cosa è cambiato rispetto a dieci e
100 anni fa? Niente, nemmeno l'indignazione di facciata di fronte ad una strage
che ogni anno conta più di 1000 lavoratori che non tornano a casa dal
lavoro.
Provate a immaginare la morte per
intossicazione. Il veleno che comincia ad accumularsi nel posto di lavoro;
l’ambiente che si trasforma in una camera a gas; il veleno che che sale alla
gola e ti entra in corpo. Manca l’aria. Sei a terra, senza riuscire a respirare.
Magari provi a gridare, ma la voce non esce. “Ma le grida non arrivavano più
lontano dei suoi orecchi”, scriveva Pietro
Di Donato, autore italo-americano troppo presto ed ingiustamente
dimenticato, descrivendo la morte sul lavoro in un suo straordinario romanzo,
Cristo
fra i muratori. “Aria, aria! gridavano i suoi polmoni mentre il
cemento lo murava vivo. […] Doveva resistere. Aveva una famiglia sulle braccia,
non poteva abbandonarla senza lotta, rassegnarsi a morire senza combattere. Non
voleva morire. […] Ma di là dal buco non v’era aria. Di là dal buco c’era solo
calcestruzzo, sempre più duro e tenace. Sotto il cemento che si rapprendeva, i
polmoni si chiudevano come in
una morsa. […] Fra le note singhiozzanti di un organetto, il cervello si disintegrò in uno spasimo della lotta e i ricordi di una vita delusa ne uscirono a frotte”.
una morsa. […] Fra le note singhiozzanti di un organetto, il cervello si disintegrò in uno spasimo della lotta e i ricordi di una vita delusa ne uscirono a frotte”.
Era il racconto che Di Donato fece
nel 1939 della morte di un muratore, ucciso dall’assenza di norme di sicurezza
in un cantiere. Ucciso come rimase ucciso suo padre, nel 1923. L’aria che manca,
come mancò a sette lavoratori morti asfissiati dieci anni fa in una vasca del
depuratore di Mineo,
come è mancata pochi giorni fa ai lavoratori impegnati nella manutenzione di un
forno per il trattamento dell’acciaio alla Lamina
di Milano,
dove quattro lavoratori hanno perso la vita (tre subito, il quarto dopo ore di
agonia). Si muore oggi come nel 2008, come nel 1923. Per gli stessi motivi:
assenza
di misure di prevenzione e protezione.
Alla Lamina di MIlano i sistemi di
sicurezza, a quanto pare, non hanno funzionato. Come alla Thyssenkrupp di Torino,
nella notte tra il 5 e 6 dicembre 2007, quando morirono bruciati vivi sette
operai. Cosa è cambiato da allora? Niente, nemmeno l'indignazione di facciata di
fronte ad una strage che ogni anno conta più di
1000 lavoratori che non tornano a casa dal lavoro. Un numero nemmeno paragonabile al
numero di soldati italiani morti nelle guerre umanitarie in giro per il mondo. E
mentre non si fa altro che chiedere riduzione del costo del lavoro, troppe volte
quei risparmi già vengono fatti, ma scommettendo sulla vita dei lavoratori,
mentre intanto nelle assemblee di Confindustria si parla di Patto
per la fabbrica con la preoccupazione per la produttività e nuovi
margini di profitto; e ministri rilanciano, politici mettono in programma,
sindacalisti gialli approvano. Lavoratori
muoiono.
L’Inail,
nel 2016 ha registrato 1.104
denunce di infortunio con esito mortale. Di solito quelle morti
non fanno notizia. Eppure quel dato è addirittura sottostimato, dal momento che
non conta gli infortuni dei lavoratori non assicurati all’Inail. Così,
l’Osservatorio indipendente dei morti sul lavoro, nel suo encomiabile impegno,
ha contato 1.400
morti sul lavoro nel 2017; 34 in questo inizio 2018. A guardare
gli spot istituzionali sembra che le vittime siano responsabili della propria
morte. Inviti a indossare elmetti e imbracature, per proteggersi dai rischi
lavorativi, mentre invece dovrebbe essere l’ultima soluzione da adottare, quando
altra soluzione non è praticabile. Il Testo
Unico sulla sicurezza lavoro lo dice espressamente: i
dispositivi di protezione individuale, quali sono elmetti, autorespiratori,
imbracature, “devono essere impiegati quando
i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti
da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure,
metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro”. Prima di questi
dispositivi di protezione, le imprese dovrebbero: valutare i rischi; eliminarli
e, dove ciò non sia possibile, ridurli il più possibile e alla fonte; sostituire
ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso; fare formazione.
Obblighi spesso disattesi.
Ed
il lavoro diventa tanto più rischioso quanto più avanza la precarietà
lavorativa.
Non ci vuole un luminare in materia per capire che quanto più un lavoratore è
soggetto al ricatto occupazionale tanto più si sentirà costretto ad accettare
qualunque tipologia di lavoro, anche rischiosa per la sua incolumità, perché
magari l’alternativa è la disoccupazione e la povertà assoluta. Ma se non
bastasse, a confermare questa semplice, intuibile correlazione è l’Agenzia
europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, che - lo
abbiamo già scritto, ma è bene ripeterlo - già nel 2007 metteva in guardia sui
rischi emergenti per la salute e la sicurezza dei lavoratori che “spesso sono la
conseguenza di trasformazioni tecniche o organizzative”. Al primo posto dei
fattori di rischio, l’Agenzia metteva “l’uso
di più contratti di lavoro precari, insieme alla tendenza verso
una produzione snella (produzione di beni e servizi eliminando gli sprechi) e il
ricorso all’outsourcing
(l’uso di imprese esterne per svolgere il lavoro)”. Tutte forme di lavoro e
organizzazione del processo produttivo oggi consolidate. In questo contesto,
sottolineava l’Agenzia europea, “I
lavoratori con contratti precari tendono a svolgere i lavori più
pericolosi, a lavorare in condizioni peggiori e a ricevere meno
formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro”. Perché troppo spesso
per un lavoratore precario all’impresa appare inutile fare formazione, un costo
che non vale la pena considerare. E poi si corrono rischi sul lavoro anche
perché capita che di fronte ad un rischio evidente si preferisca,
consapevolmente, di risparmiare sulle misure di prevenzione e protezione
mettendo minacciando la stessa vita dei lavoratori, come avvenne, con
atteggiamento criminale, alla Thyssenkrupp. E vedremo perché i sistemi di
sicurezza non hanno funzionato alla Lamina di Milano.
L’accertamento di ciò che
effettivamente è avvenuto alla Lamina, come per ogni morte sul lavoro, lo farà
la magistratura. Quello che intanto occorre sottolineare, è che troppo spesso,
dietro ogni decimo di punto di crescita di Pil; dietro l’aumento di profitti
realizzati, c’è la precarietà, c’è il ricatto occupazionale, c’è la riduzione
dei diritti dei lavoratori, ci sono lavoratori che si fanno male, che restano
disabili, che si ammalano, che muoiono. Che fanno una vita d’inferno e vanno in
paradiso troppo presto.
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