PUBBLICHIAMO L'ULTIMO PARAGRAFO DI UN LUNGO SCRITTO DI GIUSEPPE ANTONIO DI MARCO: "L’ANALISI
DELLA LEGGE CAPITALISTICA DELLA POPOLAZIONE IN KARL MARX E IL
“GOVERNO” DEI FLUSSI MIGRATORI" - In seguito pubblicheremo altri paragrafi.
L'importanza di questa analisi per la lotta dei proletari sta nelle indicazioni finali di questo articolo: "...l’unione tra occupati e disoccupati e di conseguenza anche tra migranti e residenti, ponendo così fine a quella concorrenza tra tutti loro, che è tanto indispensabile all’accumulazione del capitale".
*****
5. I flussi migratori
contemporanei entro la legge della popolazione specifica al modo di
produzione capitalistico, ossia della formazione della
sovrappopolazione relativa
Secondo il Dipartimento per gli affari economici e
sociali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, tra il 2000 e il
2015 i migranti su tutto il pianeta sono cresciuti da 173 milioni a
243,7 milioni. Nel 2015 essi hanno rappresentato il 3,3% della
popolazione mondiale rispetto al 2,9% del 1990. Questi dati
potrebbero non tenere «adeguatamente conto dei movimenti degli
immigrati “senza documenti”»,
i quali costituirebbero il 10-15% dei flussi internazionali totali,
secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le
migrazioni.
Sempre «nel 2015, su 244 milioni di migranti nel mondo, il 43% è
nato in Asia, il 25% in Europa, il 15% in America latina e Caraibi
[…], il 14% arriva
dall’Africa».
I paesi che hanno il più alto numero di migranti sono - in ordine di
grandezza di popolazione migrante presente nel rispettivo territorio
- gli Stati Uniti d’America con 19.000.100 di migranti, la Germania
con 4.900.000, la Federazione russa con 4.800.000, l’Arabia Saudita
con 4.200.000, il Regno Unito, con 3.500.000, gli Emirati Arabi, con
3.300.000, il Canada, con 3.200.000, la Francia, con 3.200.000,
l’Australia, con 2.800.000, la Spagna e l’Italia, con
2.400.000».
Questi 11 paesi «nel 1990 insieme arrivavano al 44% del totale
internazionale» di popolazione migrante presente nei loro rispettivi territori «e
nel 2015 hanno raggiunto il 53,8%. Stati Uniti e Federazione russa
ospitano complessivamente un quarto del totale dei migranti
internazionali».
Inoltre le migrazioni non avvengono solo tra un continente e un
altro, ma all’interno degli stessi continenti. Emblematico è il
caso dell’Africa. Come abbiamo visto, essa getta nel mercato
mondiale capitalistico degli altri continenti il 14% di migranti.
Negli ultimi anni ciò è avvenuto con una crescita notevole, tale
che «dal 1980 a oggi il numero di migranti africani oltre i confini
continentali è notevolmente cresciuto, addirittura triplicato,
passando da 5,5 milioni a 16 milioni nel 2015»,
con destinazioni che si sono diversificate notevolmente. Infatti il
flusso che va dall’Africa all’Asia, è quello più in crescita
con il 4,2% di persone all’anno. Ma al tempo stesso, «il
52% dei migranti africani si muove all'interno dei confini
continentali. I movimenti interni, fra Stati
africani, sono particolarmente accentuati nell'Africa
occidentale (Senegal, Mali, Burkina Faso,
Costa d'Avorio) e, nella regione orientale, dall'Eritrea. Un Paese
che attrae molti migranti è il Sudafrica, così come destinazioni
privilegiate sono i Paesi produttori di petrolio, come Libia e
Gabon».
In questi dati, il primo punto da notare è la
dimensione ormai completamente planetaria del movimento migratorio.
Esso avviene tra continenti e all’interno dei continenti stessi.
Sembra insomma essere ormai il continente l’unità di misura dei
traffici migratori. Il secondo punto è l’accelerazione fortissima
che questi flussi hanno preso nel primo quindicennio del secolo XXI:
si sono mossi all’incirca ufficialmente settanta milioni di
persone, ma in realtà esse sono molte di più se si includono i
sempre più considerevoli flussi di migranti “senza documenti”.
Il discorso che abbiamo finora fatto, seguendo Marx, sulla legge
dell’accumulazione capitalistica lascia pensare che la cifra
assoluta e l’incremento relativo siano destinati ad aumentare. 273
milioni di persone che si spostano in quindici anni, su più o meno
sette miliardi esseri umani, potrebbero sembrare una cifra piccola,
ma qui non stiamo parlando di mobilità turistica,
bensì di esseri umani che si muovono mettendo in gioco, precisamente
nella loro mobilità specificamente migrante,
la contraddizione antagonistica tra la loro esistenza personale e le
condizioni sociali generali di essa, in cui sono gettate dal modo di
produzione capitalistico. Pertanto, i flussi migratori costituiscono
come non mai parte integrante, se non addirittura decisiva in questa
fase storica, del fenomeno della sovrappopolazione relativa
capitalistica, che è il motore del suo processo di accumulazione.
Alla luce del discorso marxiano, che abbiamo seguito
finora, sulla sovrappopolazione relativa come conseguenza e
condizione dell’accumulazione capitalistica, uno spostamento così
considerevole di masse umane nell’arco di soli quindici anni indica
senza ombra di dubbio che c’è stato un aumento del capitale
sociale globale complessivo di dimensioni tali che lascia pensare a
un aumento enorme della sua parte costante, dunque di mezzi di
produzione che devono essere messi in movimento; che ci sono, di
conseguenza, un’enorme produzione su larga scala di merci
riconvertibili sia in mezzi di produzione addizionali sia in mezzi di
consumo, e un’espansione del mercato mondiale tale che ormai esso
copre tutto il pianeta; che, di conseguenza, si sono sviluppati al
massimo i mezzi di trasporto e comunicazione, e che l’estensione,
l’intensità e l’accelerazione delle comunicazioni retroagiscono
sullo sviluppo della produzione industriale la quale, a sua volta,
crea il mercato mondiale; infine, che c’è sia un sistema
creditizio che ha ormai posto le banche in una posizione di
preminenza mai vista prima. E in effetti, quella che chiamiamo
“globalizzazione” o, se piace di più, “mondializzazione”
capitalistica e che possiamo far partire dagli anni Ottanta del
secolo Ventesimo, ha come centro produttivo la rivoluzione
informatica dei processi lavorativi, la robotizzazione,
l’organizzazione scientifica delle attività umane e lo sviluppo
del traffico umano su queste basi informatizzate, quindi lo sviluppo
della forza produttiva del lavoro sul terreno di queste nuove
tecnologie. Questa trasformazione del processo lavorativo in chiave
digitale porta all’ennesima potenza tutto quello che, come sopra
abbiamo visto, Marx ha detto sullo sviluppo del processo di
accumulazione capitalistico già ai tempi dell’industria meccanica.
Sullo sviluppo del commercio mondiale, che consegue a questa
rivoluzione del processo lavorativo che crea strumenti di
comunicazione e di traffico in un’estensione, qualità e quindi
velocità mai viste prima, non c’è bisogno di spendere molte
parole: basta solo il temine “globalizzazione” a indicare in modo
adeguato la realtà da esso espressa. Quanto allo sviluppo del
sistema creditizio che, come visto, si intreccia con lo sviluppo
della produzione e del commercio, ciascuno ha oggi sotto gli occhi il
ruolo strapotente assunto dal sistema bancario. Se dovessi trovare,
tra le organizzazioni internazionali che i paesi capitalistici e
dunque tutti i paesi del mondo tra la fine della Seconda guerra
mondiale e la fine della Guerra fredda si sono date per eseguire gli
affari di tutta la classe borghese che è ormai completamente
globale, ne nominerei tre significative: per il traffico.
l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e per il sistema
creditizio in genere, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale. Tutto questo processo è causa e conseguenza di
un’accumulazione del capitale sociale complessivo mai raggiunta
prima nel modo di produzione capitalistico.
Ebbene, poiché, come abbiamo visto, l’aumento del
capitale significa in assoluto aumento del proletariato, in
conseguenza di un aumento della domanda di lavoro, è chiaro che il
livello raggiunto dall’accumulazione odierna, in quanto l’ambito
di azione del capitale sociale complessivo coincide con tutta quanta
la superficie terrestre, non può che creare in assoluto l’aumento
della domanda di lavoro e quindi mettere in movimento, su
tutta la terra, masse enormi ed
esponenzialmente crescenti di persone. È qui che si colloca, per
quantità, ossia per estensione, e per qualità, ossia per
significato, un discorso sulla centralità, nel nostro immediato
presente, dei flussi migratori planetari. Indubbiamente flussi
migratori ci sono stati in misura considerevole dacché il processo
capitalistico di accumulazione cominciò ad assumere un livello
considerevole di sviluppo. Marx stesso aveva ampiamente studiato il
caso dell’emigrazione irlandese verso gli Stati Uniti d’America,
la quale formò una delle basi dell’accumulazione capitalistica
nella «giovane repubblica gigantesca» che compì il fratricidio verso «l’antica regina dei mari».
Ma oggi, è la dimensione globale assunta dall’accumulazione
capitalistica a rendere altrettanto globale il movimento migratorio.
Il fatto che, come abbiamo visto dalle cifre sopra riportate, il
flusso migratorio più rilevante è da e verso l’Asia, ossia il più
grande continente del mondo, e che i tre paesi che hanno più
migranti sul loro territorio siano del peso degli Stati Uniti
d’America, come da tradizione, della Germania, paese capitalistico
di punta, e della Federazione russa, che si colloca nel quintetto dei
Bircs (Brasile, India, Cina, Russia, Sudafrica – paese in ascesa di
molta immigrazione intra-africana) dà la misura, ossia,
dialetticamente, la sintesi di qualità e quantità del fenomeno.
Ora però, abbiamo anche visto che l’aumento del
capitale variabile, ossia dei mezzi che danno occupazione a queste
enormi masse di immigrati, e quindi l’aumento assoluto dei flussi
migratori che è documentato da quell’incremento da 173 milioni a
243, 7 milioni di persone suddette, più quelle “senza documenti”
che si vanno a stratificare nella popolazione dei paesi verso cui
migrano e con cui entrano in feroce concorrenza, se viene commisurato
alla crescita del capitale sociale globale complessivo e quindi alla
sua parte costante in robot, piattaforme informatiche, impianti
energetici, sistemi satellitari, più tutti i tradizionali impianti
di estrazione di petrolio, acciaierie, industrie automobilistiche,
ferroviarie, aeree, spaziali ecc., più alla quantità
esponenzialmente crescente di merci che si converte in mezzi di
produzione addizionali e chi più ne ha più ne metta, è un aumento
relativamente decrescente.
Dunque, quanto più avanza la globalizzazione capitalistica in
intensità ed estensione e quindi quanto più aumentano i flussi
migratori, tanto più la forbice tra i due diversi incrementi ai due
poli opposti, del capitale costante, da un lato, e di quello
variabile, dall’altro, si allarga. Quindi la crescita, che possiamo
considerare esponenziale, delle migrazioni è inferiore alla crescita
stra-esponenziale dei mezzi di lavoro - sia informatizzati che
tradizionali -, dei mezzi di comunicazione e della massa di denaro
che il credito mette a disposizione. Di conseguenza i migranti
complessivi in aumento sono di gran lunga superiori alla massa di
mezzi di sussistenza e quindi di salari che questo enorme capitale
complessivo mette loro a disposizione. Pertanto, se la popolazione
migrante, vale a dire la sua domanda di occupazione e benessere, è
messa in moto dall’aumento esponenziale della ricchezza globale in
mezzi di produzione informatizzati, merci prodotte su larga scala e a
prezzi bassi, mezzi di trasporto ultraveloci ecc., viceversa essa
stessa, muovendosi globalmente, mette in moto l’allontanamento di
una sua parte sempre più grande dagli strumenti che le dovrebbero
dare occupazione e di conseguenza anche dai mezzi di consumo.
Insomma: la popolazione
migrante creata dalla globalizzazione che si va a stratificare dentro
tutto il proletariato capitalistico mondiale, che ovviamente non è
solo migrante, crea essa stessa la sovrappopolazione
relativa sia residente che migrante. La
domanda di ricchezza messa in moto dalla globalizzazione è al tempo
stesso offerta di miseria e questo i flussi migratori lo portano come
uno stigma.
Non solo. Proprio la globalizzazione contemporanea
mostra che la sovrappopolazione relativa migrante stratificata entro
la più ampia sovrappopolazione relativa prodotta dall’accumulazione
capitalistica, di cui quella migrante è parte cospicua, oltre a
essere il prodotto dell’accumulazione è anche la sua leva. Poiché
l’elasticità del credito e «la massa della ricchezza sociale che
con il progredire dell’accumulazione trabocca e diventa
trasformabile in capitale addizionale entra impetuosamente e con
frenesia in branche vecchie della produzione il cui mercato
improvvisamente si allarga, oppure in branche dischiuse per la prima
volta come» – e qui al posto di «ferrovie ecc.»,
di cui parla Marx, poniamo tutto ciò che riguarda
l’informatizzazione della produzione: tutto questo, con la
“frenesia” in cui si è sviluppato nella globalizzazione,
richiede che grandi masse di esseri umani devono essere spostabili da
un punto all’altro della produzione nei punti decisivi senza
pregiudicarne la scala della produzione negli altri punti. E poiché
questa flessibilità la fornisce la sovrappopolazione, è chiaro che,
con un processo frenetico di questo genere su scala planetaria, non
sarebbero potuti non mettersi in moto con velocità accelerata flussi
migratori su tutto il pianeta.
Prima la crisi asiatica del 1997 e poi la crisi mondiale
partita dal 2008, hanno chiuso il ciclo iniziatosi con la
globalizzazione degli anni Ottanta del Novecento. In tal modo si può
vedere come in tutto questo processo dove si succedono periodi di
vivacità media, di produzione con massima pressione, poi di crisi,
contrazione e recessione, poi di ripresa più o meno timida e così
di seguito; e dove gli effetti diventano a loro volta cause e
viceversa: in tutto questo processo, dicevo, il capitale può
descrivere le sue orbite o i suoi cicli rinascenti con la precisione
meccanica dei corpi celesti solo perché ha formato il suo esercito
industriale di riserva che, a seconda delle alterne vicende del ciclo
e delle sue ricorrenze, può essere assorbito ora in misura maggiore
ora in misura minore e può essere sempre nuovamente formato. E
poiché gli spostamenti della popolazione sono planetari
conformemente al carattere globale dell’accumulazione del capitale
complessivo, noi possiamo vedere come il maggiore o minore
assorbimento e la nuova formazione dell’esercito industriale di
riserva migrante siano contemporaneamente la conseguenza e la leva
delle alterne vicende del ciclo industriale, attraverso l’azione
che il capitale esercita per mezzo degli Stati (e delle unioni di
Stati), suoi comitati di affari, alternando fasi di maggiore apertura
e maggiore chiusura dei confini.
Come abbiamo visto, l’obiettivo che il capitale
persegue nel creare esso stesso una sovrappopolazione relativa ossia
una popolazione di disoccupati, è la separazione tra lavoro e
occupazione, di modo che la massa di lavoro possa aumentare secondo i
suoi bisogni di autovalorizzazione indipendentemente dal fatto che
aumenti la massa dei mezzi di occupazione degli operai. Tale
obiettivo si può raggiungere grazie alla pressione che l’esercito
industriale di riserva in ozio forzoso fa sull’esercito industriale
attivo costringendolo al sovralavoro; la concorrenza tra occupati e
disoccupati crea la disponibilità dell’occupato a fare quello che
altrimenti sarebbe umano non fare. Orbene, per quanto riguarda la
popolazione migrante l’obiettivo suddetto si raggiunge nel fatto
che le leggi dei paesi capitalistici vincolano il soggiorno del
migrante (e dei suoi eventuali familiari) nel paese in questione al
possesso di un documento di lavoro che ne attesti l’occupazione.
Ciò permette a ogni capitalista di ricattare il lavoratore immigrato
che chiedesse un aumento del salario o la riduzione del sovralavoro a
limiti umanamente accettabili, mediante la minaccia di un
licenziamento che comporterebbe la perdita del documento di lavoro e
di conseguenza del premesso di soggiorno. Così l’immigrato
licenziato precipiterebbe nella cosiddetta immigrazione clandestina,
con un probabile soggiorno temporaneo in centri di identificazione ed
espulsione, dove, in attesa di essere rimpatriato, subisce
trattamenti disumani, di cui un segnale sono periodicamente le
esplosioni di rivolte che gli immigrati internati fanno contro le
condizioni che essi trovano lì. All’espulsione o alla fuga da
un’istituzione di questo genere, segue molto più probabilmente lo
spostamento clandestino del migrante da un paese all’altro fino a
che egli non si trovi lavoro, giacché, essendo l’immigrazione
mossa dalla miseria artificiale del modo capitalistico di produzione,
il ritorno nel paese di provenienza costituisce per l’immigrato un
male peggiore della clandestinità.
Così, quella stessa borghesia che attraverso il suo
Stato punisce l’immigrazione clandestina, proprio mediante questa
criminalizzazione la crea e la ricrea continuamente, perché la
riserva di popolazione migrante illegale fa pressione su quella
legale e in tal modo il capitalista ottiene anche dagli operai
immigrati una maggiore massa di lavoro senza aumentare l’offerta di
occupazione. A sua volta, la parte di sovrappopolazione relativa
costituita dagli immigrati, che il capitale divide nella concorrenza
tra regolari e clandestini, ha pretese più basse rispetto alla
popolazione operaia residente e così preme su di essa costringendo
gli operai attivi ad accontentarsi di salari più bassi e soprattutto
a lavorare per ancora più tempo supplementare, mentre l’esercito
dei clandestini si aggiunge alla popolazione disoccupata residente,
contribuendo ad aumentarne la domanda di lavoro di fronte a un
capitale che, grazie a questa concorrenza tra le parti della sua
classe operaia, può diminuire l’offerta di operai grazie alla
maggiore offerta di lavoro che proviene dagli operai occupati, siano
essi migranti siano essi residenti. È sulla base della concorrenza
generale tra occupati e disoccupati e sulla conseguente pressione dei
secondi sui primi affinché aumentino la massa di lavoro senza che il
capitale aumenti l’occupazione, che nascono quei conflitti
interetnici e xenofobici in cui l’ignoranza del fatto che sia il
capitale stesso e non gli immigrati a creare la sovrappopolazione, si
riflette nella rappresentazione rovesciata dove il nemico è
l’immigrato che toglie lavoro.
In questo quadro la polemica tra opposti schieramenti
politici, economisti e vari ideologi borghesi, divisi tra politiche
di “accoglienza” dei migranti in quantità più o meno ampie, in
nome dei diritti umani, da un lato, e politiche di forti restrizioni
o addirittura di chiusura, in nome dell’occupazione e della
sicurezza dei residenti, dall’altro, è, in tutte e due le
posizioni e in tutte quelle intermedie, il riflesso ideologico del
movimento reale e contraddittorio dell’intero ciclo
dell’accumulazione capitalistica, resa possibile dal maggiore o
minore assorbimento o dalla nuova formazione della sovrappopolazione
relativa. Perciò il dibattito, posto in questi termini, mistifica le
contraddizioni antagonistiche reali che l’intero ciclo strutturale
genera e di cui si nutre. Poiché, nel ciclo in cui si alternano fasi
di vivacità media, di frenesia espansiva, di stagnazione, di
recessione e crisi da cui di nuovo riprende il ciclo, gli effetti
diventano cause e viceversa, ecco che l’assorbimento, la
contrazione e la nuova creazione di sovrappopolazione si alternano a
loro volta, quindi le politiche di cosiddetta accoglienza e le
politiche di freno e chiusura sono complementari, data la legge che
regola la formazione capitalistica del suo esercito industriale di
riserva. Aperture massime, ma non illimitate, si alternano a chiusure
con manifestazioni ideologiche xenofobe oppure si intrecciano con una
reciproca conversione di cause ed effetti.
Infatti gli schieramenti socialdemocratici o
democratico-progressisti hanno avviato essi stessi le legislazioni
contro l’immigrazione clandestina, che quindi implica limitazioni
di accesso a chi non ha il permesso di soggiorno non avendo il
libretto di lavoro, con l’effetto di fermare i migranti o in
ipocritamente filantropici centri di accoglienza o in repressivi
centri di identificazione ed espulsione onde poter redistribuire il
flusso migratorio in una modalità che, stante il modo di produzione
capitalistico, non può significare altro se non subordinazione alle
esigenze di autovalorizzazione del capitale. E questo, quando non
siano state addirittura tali forze politiche “progressiste” ad
avviare la costruzione di muri alle frontiere. Viceversa, gli
schieramenti conservatori o apertamente xenofobi, sostenendo
protezionismi e chiusure di frontiere anche con muri, non possono
certo abolire la legge naturale del modo di produzione capitalistico,
che è quello della creazione della sovrappopolazione relativa
essenziale alla riproduzione, a meno di non sopprimere del tutto il
modo di produzione stesso. Ma posto che sia difficile una simile
evenienza, essendo la tendenza a creare il mercato mondiale data
immediatamente nello stesso concetto di capitale, un protezionismo
estremo non sarebbe sufficiente. Infatti, come diceva Marx, «il
sistema protezionista non è che un mezzo per impiantare presso un
popolo la grande industria, ossia per farlo dipendere dal mercato
mondiale, e dal momento che si dipende dal mercato mondiale, si
dipende già più o meno dal libero scambio. Oltre a ciò il sistema
protezionista contribuisce a sviluppare la libera concorrenza
all’interno di un paese».
Considerando che ora la borghesia non avrebbe dinanzi il sistema
feudale da cui affrancarsi, ma è essa stessa protagonista di uno
sviluppo enorme della produzione, quindi è la classe dominante
mondiale, inevitabilmente l’aumento della forza produttiva del
lavoro con operai della propria nazione creerebbe un’accumulazione
tale che se questa nazione volesse occupare tutti gli operai in essa
presenti, dovrebbe creare la sovrappopolazione, necessaria alla
riproduzione della sua ricchezza, al di fuori dello Stato, e di
conseguenza dovrebbe riaprire i confini alla mobilità della
forza-lavoro, altrimenti il suo capitale nazionale – che comunque
sta dentro il mercato mondiale - non potrebbe percorrere il ciclo di
sviluppo, crisi e ripresa. E infatti, al di là della propaganda più
volgare, gli stessi schieramenti di questo tipo insistono sulla lotta
solo all’immigrazione clandestina, anche se con forte tenenza a
restringere il numero dei cosiddetti “regolari”. Diversamente, la
borghesia di questa nazione, “chiusa” a parole ma nei fatti
inevitabilmente inserita nel mercato mondiale, dovrebbe creare il suo
esercito industriale di riserva con una quota di disoccupati al suo
interno. Ma in questo caso essa introdurrebbe una dinamica di flussi
migratori interni relativamente a uno strato della popolazione
disoccupata e quindi si riprodurrebbero gli stessi inconvenienti di
tutte le migrazioni che nascono dalla miseria della sovrappopolazione
relativa. Così avvenne, ad esempio, nelle migrazioni dal Sud al Nord
in Italia fino agli anni Settanta del Novecento.
Il punto è che nel modo di produzione capitalistico e
specificamente dentro il movimento della sua riproduzione allargata o
accumulazione, la mobilità migrante, appunto in quanto è tale, non
può mai nascere dal fatto che gli uomini liberamente possano
muoversi sulla superficie terrestre secondo il loro desiderio di
autorealizzazione. In quanto “migrante”, la mobilità è
eterodiretta nel senso che è il capitale che crea la sua
sovrappopolazione e quindi la costrizione a migrare di una parte di
essa, poiché esso deve continuamente mantenere il moto nella sua
orbita attraverso il maggiore o minore assorbimento o attraverso la
nuova creazione di sovrappopolazione, a seconda dell’alternarsi di
periodi di espansione e periodi di recessione. Perciò anche le
politiche dell’accoglienza non mettono in discussione tutto
l’impianto fondamentale del modo di produzione capitalistico, che
consiste nella sottomissione del tempo di lavoro di un uomo alle
esigenze di arricchimento di un altro uomo, e di conseguenza sono
continuamente ricattate da tutte le spinte xenofobe dinanzi a cui si
mostrano deboli e soccombono soprattutto in periodi di crisi.
D’altra parte la stessa parola “accoglienza” può avere un
senso nella misura in cui il modo di produzione è quello
capitalistico e per i modi di produzione precedenti, fondati sulla
proprietà privata, perché presuppone che un uomo o una comunità
siano proprietari di una parte di superficie terrestre in cui
“accogliere”. Invece, scrive Marx, «dal
punto di vista di una più elevata formazione economica della
società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di
singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata
di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una
nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese
complessivamente, non sono proprietarie della terra, sono soltanto i
suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla
migliorata, come boni patres familias,
alle generazioni successive».
Ciò detto, è bene precisare che questo discorso non
significa che in un radicalizzarsi dello scontro tra le due opzioni
politiche suddette, nella prassi politica immediata non si debba
appoggiare le rivendicazioni delle organizzazioni politiche più
aperte alla mobilità di tutti gli uomini sul pianeta. Ma questo non
basta, e ottenuto l’obiettivo immediato di fermare l’avanzata
delle destre xenofobe, la lotta deve proseguire sulla via che porterà
ad abbattere la radice stessa della condizione migrante, vale a dire
quel sistema di produzione in cui la ricchezza creata di lavoratori
stessi si capovolge nella loro miseria più nera.
Una tale prosecuzione della lotta è possibile solo
mediante l’unione tra occupati e disoccupati e di conseguenza anche
tra migranti e residenti, ponendo così fine a quella concorrenza tra
tutti loro, che è tanto indispensabile all’accumulazione del
capitale. Questo possono realizzarlo solo gli operai stessi «non
appena […] penetrano il mistero e si rendono conto come possa
avvenire che, nella stessa misura in cui lavorano di più, in cui
producono una maggiore ricchezza altrui e cresce la forza produttiva
del loro lavoro, perfino la loro funzione come mezzo di
valorizzazione del capitale diventa sempre più precaria per loro;
non appena scoprono che il grado d'intensità della concorrenza fra
loro stessi dipende in tutto dalla pressione della sovrappopolazione
relativa; non appena quindi cercano attraverso Trade
Unions ecc. di
organizzare una cooperazione sistematica fra i lavoratori occupati e
quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze
che quella legge di natura della produzione
capitalistica ha per la loro classe».
Non è un caso che proprio allora «il capitale e il suo sicofante,
l'economista, strepitano per la violazione della "eterna"
e, per così dire, "sacra" legge della domanda e
dell'offerta. Ogni solidarietà fra i lavoratori occupati e quelli
disoccupati turba infatti l'azione "pura" di quella
legge».
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