Mortola si smarca: «Io voglio il processo»
G8 Genova - Il primo strappo, dopo l’inchiesta del Secolo XIX sui ritardi artificiosi per garantire l’impunità ai protagonisti del massacro alla Diaz, lo compie uno dei superfunzionari più noti nelle inchieste sul G8. È l’ex dirigente responsabile della Digos genovese, recentemente promosso questore, Spartaco Mortola: nessuna speranza di prescrizione - fa sapere - semmai il desiderio di essere processato davvero anche in ultimo grado, perché questa vicenda finisca. Con una precisazione: se ci sono state perdite di tempo apparentemente strumentali da parte di alcuni imputati (ma viene respinto il termine «complotto»), che rischiano di mandare a monte il terzo grado e quindi la verità, non riguardano Mortola stesso.
Il quale non escluderebbe al momento addirittura di rinunciarci, alla prescrizione.
Le precisazioni sono espresse dal suo legale storico, Piergiovanni Junca. E rappresentano un dettaglio importantissimo a ventiquattr’ore dalla rivelazione del dossier raccolto dai giudici del capoluogo ligure, proprio sul caso Diaz.
I magistrati hanno infatti documentato una serie di episodi «anomali», che stanno facendo slittare in modo forse irreparabile il verdetto della Suprema Corte sul raid compiuto nell’istituto dove alloggiavano i noglobal nel luglio 2001, e sulla falsificazione delle prove per giustificare i pestaggi. L’Appello, nel maggio 2010, aveva condannato picchiatori e superdirigenti, ma la Cassazione non è stata fissata. E se si tarda ancora un po’ c’è il concreto pericolo che si finisca con un nulla di fatto. Decisivi, nel dilatare i tempi, si sono rivelati gli incredibili “problemi” nella consegna ai protagonisti del processo di vari atti (se tutte le parti non hanno ogni singolo documento, non si può cominciare). Cambi continui d’indirizzo da parte dei dirigenti e degli agenti alla sbarra, notifiche rispedite misteriosamente al mittente o rimpallate fra ufficiali giudiziari davvero poco desiderosi di eseguirle, oltre che copie di dossier dimenticate nei cassetti, stanno pregiudicando la scrittura del capitolo finale. Ed è chiaro che lo tsunami della prescrizione cancellerebbe d’incanto una macchia pesantissima per personaggi assai in carriera, che hanno riportato sull’affaire Diaz condanne gravi: dall’attuale capo della Divisione centrale anticrimine Francesco Gratteri (4 anni per falso, firmò il verbale in cui si diceva che i dimostranti custodivano nell’istituto le molotov introdotte al contrario dalle forze dell’ordine), al capo-analista dei servizi segreti Giovanni Luperi (3 anni e 8 mesi per falso), senza dimenticare il direttore del Servizio centrale operativo Gilberto Caldarozzi (stessa pena e stesso reato).
Pure Mortola ha subito la medesima pena per la Diaz - oltre a un anno e 2 mesi per i depistaggi successivi, nel processo in cui era imputato con l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, a sua volta condannato - ma oggi il difensore Junca la mette giù dura: «I miei assistiti (è consulente pure di Carlo Di Sarro, ex funzionario ala Digos di Genova con 3 anni e otto mesi sul groppone) non hanno mai modificato l’indirizzo, tecnicamente definito “domicilio”, cui inviare la corrispondenza giudiziaria, non creando così alcun intoppo o ritardo (l’opposto, per esempio, ha fatto l’ex comandante dei picchiatori Vincenzo Canterini, ndr) . E siamo noi stessi sorpresi dei tempi lunghi, poiché ci riterremmo danneggiati dal mancato svolgimento delle udienze in Cassazione». Junca aggiunge un dettaglio cruciale: «Il giorno in cui Mortola e Di Sarro hanno depositato il loro ricorso, hanno allegato all’istanza originale, come da norma, le copie per tutte le parti del processo, spendendo mille euro a testa con l’unico obiettivo di snellire le procedure». Il contrario di quanto fatto dall’ex poliziotto Luigi Fazio, oggi in pensione. Il quale, oltre ad aver assoldato un docente di diritto per formulare l’istanza in Cassazione nonostante una mini-condanna per percosse già prescritta, ha “dimenticato” di allegare le stesse copie. Facendo perdere mesi e nonostante lo sollecitasssero. Sono stati episodi come questi a istillare nelle toghe che avevano emesso la condanna in Appello (e a distanza di un anno non vedono fissato l’ultimo round davanti alla Suprema Corte) il dubbio d’una strategia. O perlomeno l’idea che gli imputati, ancorché uomini dello Stato, stiano sguazzando nelle lungaggini ben felici di non farsi giudicare. Junca (e il suo assistito Mortola) si smarcano: «I problemi degli altri funzionari non mi riguardano
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