lunedì 18 luglio 2011

pc 18 luglio - la diaz .. come lo stato prima massacra poi trama e trucca per assicurarsi impunità e promozioni.. pagherete caro, pagherete tutto !

Il sospetto di una strategia
Nessuno paghi per la Diaz
15 luglio 2011 | Graziano Cetara e Matteo Indice
l’inserto del Secolo XIX sul G8


G8
Genova - La notte «che disonorò l’Italia agli occhi del mondo intero», come scrissero i giudici; quella notte di dieci anni fa in cui «i diritti fondamentali dell’uomo furono sospesi» tra le quattro mura d’una scuola dormitorio a Genova, diventata la scena d’un massacro fuori dal tempo, ancora non è finita. E non solo perché nessuno ha mai chiesto scusa per il sangue con cui furono impastate le coperte di chi dormiva e graffiate le pareti. E nemmeno perché i responsabili, uomini dello Stato, hanno continuato a fare orecchie da mercante, impedendo l’accertamento della verità in ogni modo, distruggendo le prove e organizzando depistaggi a tavolino fino al punto di addomesticare i testimoni. No. La notte della vergogna alla Diaz continua perché la polizia, o meglio certa polizia, ha deciso che nessuno dovrà pagare per il massacro dei 93 noglobal sorpresi nel sonno, dentro l’edificio loro destinato dall’organizzazione del G8 2001. Erano le 23 circa del 21 luglio.

E’ una decisione vera, presa smascherando di fatto, ma senza dichiararlo apertamente, l’ipocrisia della prima ora: «I responsabili saranno puniti dopo una sentenza definitiva di condanna» diceva l’allora capo della polizia Gianni De Gennaro (che oggi coordina i servizi segreti con una pena di un anno e sei mesi sul groppone, inflitta proprio per i depistaggi sul G8) di fronte al fioccare degli avvisi di garanzia spediti agli agenti picchiatori, e ai capi che li avevano legittimati se non spinti apertamente. La gran parte di quei poliziotti è stata promossa e neppure sfiorata dalla possibilità d’un procedimento disciplinare. Ma ora si vuole di più. Adesso si punta alla totale impunità. Perché una condanna definitiva raderebbe al suolo carriere di primissimo piano.

La scelta è nei fatti, all’indomani della sentenza di secondo grado che ha condannato tutti, il braccio e la mente della «macelleria messicana» - così definì la scena che gli si parò davanti il funzionario Michelangelo Fournier, anch’egli impegnato nel rastrellamento - a un totale di 98 anni e 3 mesi di carcere. Una scelta più o meno deliberata di alcuni degli imputati, tra cui Vincenzo Canterini, l’ex capo dei violenti della Celere di Roma, entrati come Terminator nell’istituto. Ma all’insabbiamento contribuiscono altri personaggi minori, disposti a intralciare in ogni modo la macchina della giustizia, già abbastanza imballata. Come? Semplicemente non facendosi trovare, cambiando domicilio in modo inopinato e inutile, magari pretendendo l’invio degli atti in un alloggio di servizio abbandonato di lì a poco per andare in pensione; atti che per tutto il decorso delle indagini venivano inoltrati con successo ai propri difensori.

Tutto questo si somma alle voragini della burocrazia, nella migliore delle ipotesi sottovalutata. Perché ci sono ufficiali giudiziari romani che si rimpallano in modo incredibile, e per mesi, una consegna che nessuno evidentemente vuole portare a termine. Oppure ricevute di notifica che spariscono, come quelle arrivate in tempi record ai difensori delle vittime. Devono essere reinviate, con evidente e ulteriore ritardo.

CANCELLARE LE CONDANNEE SALVARE LE CARRIERE

Il processo di Cassazione così, conseguenza diretta dell’ostruzionismo vagamente legalizzato, sta slittando in silenzio tra il secondo e l’ultimo grado di giudizio. Sta scivolando di mese in mese e ormai da più di un anno verso la ghigliottina della prescrizione, già calata proprio nelle ultime settimane sulle lesioni più gravi subite dai manifestanti addormentati alla Diaz. E destinata, se si continuerà a perdere tempo, a cancellare persino i reati più infamanti per i vertici della polizia: i falsi, le accuse inventate ad arte, costruite a tavolino per sostenere l’obbrobrio di 93 arresti illegittimi, diventati quasi all’istante proscioglimenti di persone con la testa e le ossa rotte.

Cosa sta avvenendo esattamente? Succede che dopo i primi ritardi nella notifica ai 28 imputati delle 310 pagine di sentenza, operazione ciclopica cui ha lavorato la cancelleria della terza sezione della Corte di appello di Genova, ora stanno girando per l’Italia i duplicati dei ricorsi in Cassazione di ciascuna delle parti del processo, 3700 documenti. Tutti devono avere una copia di tutto, altrimenti l’ultimo grado non si può celebrare. E ciascuno deve riceverla a un indirizzo preciso, fornito in precedenza. Con un’avvertenza. Gli imputati hanno diritto a cambiare domicilio per l’invio della corrispondenza giudiziaria. E a comunicarlo per tempo. Solo che tra ufficiali giudiziari in carenza perenne di organico e spedizioni multiple con inevitabili (involontari?) errori, se le variazioni si ripetono con una certa insistenza e a macchia di leopardo - spuntando persino vie e piazze fantasma - l’effetto complessivo è solo uno: la paralisi. Le copie rimbalzano da Genova verso mezzo Paese e ritorno senza l’avvenuta consegna, l’appuntamento in Cassazione ritarda ancora e la prescrizione avanza. Ed è proprio quanto sta avvenendo in gran segreto. Gli indirizzi subiscono strane metamorfosi o non si trovano, le spedizioni saltano a ogni intoppo. Per ripartire daccapo.

Aldilà dell’innegabile sfacelo burocratico, esiste una strategia deliberata da parte d’un (ristretto) nucleo di imputati, appartenenti alla polizia? Il sospetto ha fatto breccia all’interno della Corte di appello di Genova, che ha in mano il pallino delle notifiche. Tanto è vero che i giudici autori della sentenza di condanna hanno chiesto ai cancellieri un rapporto finale, da inviare alla Suprema Corte insieme al resto delle carte, cosicché chi dovrà prendere l’ultima decisione sappia proprio ogni cosa. Il dossier è pronto e Il Secolo XIX, oggi, è in grado di anticipare nel dettaglio i contenuti.

I DOMICILI FANTASMADEI PICCHIATORI

Sono cinque i casi «eclatanti» che i magistrati hanno inserito nella loro informativa, sebbene uno dei legali della polizia (si leggerà nel seguito dell’inchiesta) sostenga addirittura siano di più. Situazioni al limite della fantascienza che hanno sortito un effetto senza dubbio comune: dilatare i tempi dell’ultimo, e fondamentale, verdetto in modo forse irreparabile.

Uno dei nomi cerchiati in neretto nell’incartamento è quello di Vincenzo Canterini. Personaggio-clou dell’ affaire G8, era il comandante del Reparto mobile di Roma che fece irruzione per primo nella scuola manganellando alla cieca, e che da allora ha avuto una carriera roboante: prima trasferito a Bucarest (!) dove in teoria si occupava d’inchieste sul traffico internazionale di organi, quindi in pensione con il remunerativo grado di questore. E avvistato pure sul social network “Badoo”, dove da un villaggio turistico di Santo Domingo si proponeva per «conoscenze con donne colte». Ebbene, le notifiche all’imputato Canterini (5 anni in Appello per lesioni e falso) sono andate alquanto a rilento, con ripercussioni sui tempi del processo a carico di tutti. Il generale , come lui stesso amava definirsi on-line, ha sempre indicato quale luogo dove notificare gli atti, lo studio genovese dei suoi legali storici Silvio e Rinaldo Romanelli (padre e figlio). All’indomani della sentenza d’appello decide di cambiare. È sua facoltà, ma è perlomeno singolare. Perché pur mantenendo gli stessi difensori modifica l’indirizzo dove da Genova dovranno aggiornarlo sulla questione Diaz. E, lo ricordiamo ancora, se tutti i partecipanti al processo non ricevono tutti gli atti, i tempi s’allungano. Quindi. Canterini indica come “nuovo” indirizzo via San Francesco 3, a Pisa, alloggi per le forze dell’ordine. Ma il 17 agosto dello scorso anno le carte a lui destinate tornano indie tro: «Omessa notifica», il ricevente non è più rintracciabile. Il motivo? «Si è congedato dalla polizia». Ma allora, se sapeva che di lì a poco quel riferimento toscano sarebbe diventato inutile, perché Canterini lo ha indicato? I giorni passano, uno dei reati per cui è imputato (le lesioni) ha scadenza piuttosto vicina. E recentemente è sfumato causa prescrizione per lui e per gli altri ai quali era stato addebitato.

A Genova optano per una soluzione estrema. Se il domicilio dichiarato dall’imputato non serve, si torna ai difensori. E mentre Silvio Romanelli firma la “ricevuta” della notifica il 13 settembre 2010, il figlio Rinaldo non lo fa. Sostiene che i carteggi dovrebbero marciare verso Pisa. E ci vogliono altri tre mesi e mezzo affinché, dopo l’ennesimo rimbalzo, pure lui riceva ufficialmente il dossier. Risultato: i fascicoli che Canterini avrebbe potuto avere il 17 agosto, gli sono definitivamente notificati il 22 dicembre. Oltre quattro mesi di ritardo per fare cosa? Un gioco di cambi e rifiuti in cui è difficile vedere altri obiettivi se non la melina. «Nessuna tattica almeno da parte nostra – avverte Silvio Romanelli – anzi, a noi interessa farlo questo processo». E i rimpalli e gli inseguimenti al suo assistito? «A fine processo, prima di andare in pensione fui io a invitarlo a farsi spedire tutto a casa. Siccome è uno che ha sempre girato il mondo e non avrei saputo come beccarlo, non volevo che fosse responsabilità mia se non avesse ricevuto gli atti». Difatti, gli atti alla fine sono tornati giusto all’avvocato... «Vero, ma non per colpa mia. Ci sono stati errori da parte di cancellerie e ufficiali giudiziari. A trarne vantaggio non siamo stati noi, dal momento che i nostri reati sono prescritti da un anno, nonostante lo sbaglio di calcolo di ben tre anni contenuto nella stessa sentenza di appello. A cambiare di continuo domicilio mi risulta siano quelli del gruppo dei falsi e delle calunnie, per loro la prescrizione deve ancora arrivare».

La clessidra non si ferma e la prescrizione ha già graziato uno dei vecchi sottoposti di Canterini, Pietro Stranieri. Condannato in secondo grado a quattro anni per lesioni, Stranieri ha cambiato il suo domicilio il 12 ottobre 2010, comunicandolo all’ «ufficio ruolo» di Genova. Siccome la burocrazia non va alla velocità della luce, e gli addetti ai lavori lo sanno benissimo, gli impiegati che materialmente dovevano spedirgli gli atti, lavorando all’«ufficio ricorsi» cioè una sezione diversa, lo hanno saputo solo il 16 dicembre. Peccato che nel frattempo gli avessero notificato documentazione assortita al vecchio indirizzo, che ormai non andava più bene. E così s’è dovuto rifare tutto daccapo, con il cambio in corsa (lecito) che ha infine determinato un ritardo di tre mesi.

QUEL RICORSO “PER PRINCIPIO”PAGATO A PESO D’ORO

Da manuale è il caso di Luigi Fazio; un cortocircuito - inclusivo di misteriose dimenticanze - che in concreto produce uno stallo di sei mesi. Chi è Luigi Fazio? È uno degli imputati minori; uno che - punito in primo grado con un mese per percosse - ha già visto la sua micro-condanna prescritta in Appello. È ormai in pensione, Fazio, non c’è più pericolo che lo condannino e può dormire sonni tranquilli. Ma tant’è. Decide pure lui di pagarsi un fior di consulente, di fare ricorso e si trasforma in un granello che inceppa, parecchio, un meccanismo già abbastanza perverso. Facendo trottare verso la prescrizione la spada di Damocle che incombe su (ex) colleghi ben più blasonati, e necessariamente interessati.

Accade infatti che il 28 agosto 2010, da Genova, spediscano il cosiddetto «estratto contumaciale di sentenza» al “prescritto” Fazio. In poche parole, gli devono notificare il giudizio che lo riguarda. E dal giorno in cui riceve quel documento, lui come tutti ha un mese e mezzo per rivolgersi alla Cassazione. Quando il plico raggiunge la capitale, finisce nelle mani degli ufficiali giudiziari. I quali lo dovrebbero consegnare all’indirizzo che Fazio ha dichiarato come luogo in cui recapitare ogni corrispondenza, ovvero quello di casa sua. I funzionari però rimandano tutto a Genova, per «omessa notifica». Risulta cioè impossibile recapitare. Perché? La via sarebbe «inesistente» sul territorio di loro competenza, e semmai dovrebbero provvedere i colleghi di Velletri. Le carte ri-approdano quindi nel capoluogo ligure, che le re-invia a Velletri. Ce la fanno? Assolutamente no. Altra «omessa notifica».

I DOCUMENTI SPARITIIN POCHE CENTINAIA DI METRI

La via fantasma di sicuro non è nella giurisdizione di Velletri, rispondono da lì, e il pacco riprende mestamente il cammino per la Liguria. A questo punto la legge, lo abbiamo visto con Canterini, dà la possibilità di notificare ai difensori, ovunque essi siano. Quelli di Fazio risultano uno a Genova (Gianfranco Pagano, e ce la si fa il 5 gennaio), l’altro a Roma. Si chiama Giovanni Destito ed è nel suo studio che gli ufficiali giudiziari romani dovrebbero consegnare l’ormai leggendaria sentenza. Ci riescono? Proprio no. Perché ritornano per errore all’indirizzo fantasma, e un’altra volta il carteggio rimbalza all’ombra della Lanterna. Al quarto tentativo (la busta era partita, lo ricordiamo, il 28 agosto) Fazio è «ufficialmente» informato. Ma nel frattempo siamo arrivati al 3 febbraio 2011 e la prescrizione incombe.

Non è finita, poiché ancora Fazio ha 45 giorni per appellarsi alla Cassazione. E finché il suo ricorso, come tutti gli altri, non sarà notificato a ognuna delle parti coinvolte (circa 180), il processo di terzo grado, l’ultimo capitolo che dovrà stabilire se i mostri sacri della polizia possono tenersi addosso la divisa, non può cominciare. L’istanza pro-Fazio è presentata addirittura da un docente universitario di diritto penale, Leonardo Mazza. Il quale lo deposita a Genova (da qui lo spediranno in Cassazione) il 24 febbraio scorso. La regola vuole che, contestualmente all’ “originale”, si consegnino tutte le copie per le altre parti. In modo che vengano notificate subito e i tempi accelerino. Ma siccome quelle copie non ci sono - il difensore ha dimenticato di allegarle - si blocca tutto. La cancelleria genovese, risulta dallo screening di cui diamo conto oggi, sollecita tre volte Mazza: «In due occasioni telefonicamente, una per iscritto». Ostruzionismo? Banale dimenticanza? Al terzo richiamo le benedette copie compaiono e così la macchina, dopo la battuta d’arresto, riparte. Intanto s’è fatto il 28 aprile, un salto in avanti di altri due mesetti. «Non c’è nulla di anomalo – spiega l’avvocato Destito, che con Mazza ha preparato il carteggio per la Cassazione – solo servivano molti duplicati...».Proprio nulla di strumentale, nel fatto che un pensionato, con mini-condanna prescritta e nessun possibile contraccolpo dalla Cassazione, decida di fare un mastodontico ricorso su quesitoni di puro principio, assoldando addirittura un professore della Sapienza? Gianfranco Pagano è il legale genovese che ha assistito Fazio in Appello: «Parlando con il collega di Roma – dice oggi – si convenne che rivolgersi alla Suprema Corte sarebbe stato tanto inutile quanto faticoso (e costoso). Perciò si decise di evitare. Non sapevo fosse stata adottata infine una scelta diversa, appoggiandosi perdipiù a un terzo legale.

L’ultima défaillance su cui s’appunta l’attenzione dei giudici riguarda 13 notifiche da trasferire all’avvocato Laura Tartarini, assistente di altrettante parti civili. La quale firma l’avvenuta consegna e quelle ricevute devono tornare al palazzo di giustizia di Genova. Il problema è che scompaiono. Dove sono finite? Gli ufficiali giudiziari, lo scriveranno in una comunicazione al tribunale, ammettono che «con ogni probabilità si sono smarrite» durante il (breve) tragitto di ritorno. E allora bisogna ri-procedere, perdendo due mesi.

Perché sono successe queste cose? C’è un filo che lega la catena di ritardi da cui rischia d’essere vanificato forse il più importante giudizio sull’operato della polizia italiana negli ultimi anni? O si tratta solo di coincidenze? Soprattutto: capita sempre così, nei processi un po’ corposi, o l’affare Diaz rappresenta un’anomalia?

Il meccanismo delle notifiche impossibili non è una novità nella storia giudiziaria italiana, ma non può valere il principio del mal comune mezzo gaudio. Perché nel mare magnum dei ritardi biblici sguazzano statisticamente gli esponenti della criminalità organizzata in fuga dai processi, che tra l’altro molti degli accusati per il massacro del G8 hanno contribuito ad arrestare fregiandosi tuttora di quegli allori. E ancora. L’ostruzionismo della polizia di Stato di fronte all’incedere delle accuse è un elemento che ha contraddistinto l’intera storia delle inchieste prima, e delle udienze poi, per il disastro del 2001, almeno quelle sulle responsabilità delle forze dell’ordine.

Iniziarono i giudici di primo grado, che pure non calcarono la mano, a stigmatizzare «l’omertà» di ufficiali e sottufficiali nei momenti chiave della ricerca della verità e delle singole responsabilità. Non furono consegnati gli elenchi degli agenti schierati sul campo la notte del raid. Nemmeno la pattuglia che s’inventò la presunta sassaiola da cui l’operazione avrebbe avuto origine (circostanza poi smentita) fu identificata. Non sono stati individuati i celerini che ridussero in fin di vita il giornalista inglese Mark Covell, vittima d’un tentato omicidio, conseguenza «di condotte violente sadicamente ripetute fino alla perdita dei sensi», a qualche decina di metri dall’istituto. E così non è mai saltato fuori l’autore della quindicesima firma sul verbale con cui venivano sequestrate le famigerate molotov, trovate in un’aiuola dall’altra parte della città e posizionate nel cortile della scuola per incastrare i dimostranti. Quelle bottiglie comparvero al mattino sul tavolo della conferenza stampa in questura, con cui si dava lustro agli arresti che avrebbero dovuto coprire i pestaggi. E le “bombe”, simbolo dell’intera storia, sono sparite dall’armadietto dei corpi di reato a processo in corso, ufficialmente distrutte per errore, forse portate via da due uomini della Digos genovese rimasti senza un nome: «Mi hanno messo in bocca i cavalli» ripeteva in dialetto sardo, intercettato al telefono con il fratello, l’artificiere Marcellino Melis incaricato di custodirle. Come a dire che aveva dovuto mentire per spiegarne la sparizione. Le bottiglie sono diventate l’emblema della nebbia fatta calare ad arte sulle indagini del G8, e la pietra dello scandalo che ha trascinato verso la condanna (anch’essa in attesa della Cassazione) a un anno e mezzo nientemeno che l’ex capo della polizia De Gennaro, lo squalo ora al comando dei servizi segreti con sostegno bipartisan. Secondo i giudici fu lui a ispirare il dietrofront del testimone Francesco Colucci, il questore di Genova nei giorni della guerriglia, chiamato in udienza a confermare che tutto quanto avvenne era legittimato dalle decisioni dei vertici. In aula Colucci ribaltò la propria versione, finendo indagato per falsa testimonianza. E dalle intercettazioni disposte per scoprire dov’erano finite le famose molotov, si scoprì incidentalmente come e perché lo fece, ispirato parecchio dall’alto.

NEUTRALIZZARE LA VERITA’ SULLE PROVE “FABBRICATE”

Gli accertamenti condotti da due pubblici ministeri genovesi scomodi e isolati all’interno del loro ufficio, Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, e poi i processi avevano in teoria scolpito nell’ultima sentenza i fatti. Si era arrivati alla condanna, insieme ai picchiatori, dell’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini a 5 anni; dell’attuale capo dell’anticrimine (l’Fbi italiano) Francesco Gratteri, e dell’ex vicedirettore dell’Ucigos (ancora in carica come super-analista della nostra intelligence) Giovanni Luperi, a 4 anni ciascuno; dell’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (divenuto nel frattempo questore) e dell’ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi (il superfunzionario che coordina i pool d’indagine sui delitti più misteriosi) entrambi a 3 anni e 8 mesi; e del dirigente Pietro Troiani, promosso mentre l’accusavano di aver materialmente introdotto le molotov nell’istituto, a 3 anni e 9 mesi.

La polizia, avrebbero stabilito i giudici, doveva riscattare il fallimento dell’ordine pubblico durante le manifestazioni di piazza. E allora decise di fare irruzione nella sede del Genoa social forum per portare via tutti, ci fossero o meno i black bloc non importava. Quello che avvenne fu un massacro. Ma è ciò che fu fatto dopo per giustificarlo a lasciare ancora senza parole. La fabbricazione di prove farlocche in primis, mentre il sangue sparso nel dormitorio, secondo le forze dell’ordine, era il frutto di «ferite pregresse» subite durante gli scontri di piazza. La conferenza stampa a poche ore dall’irruzione si rivelò una messinscena imbarazzante: nessuna domanda, la verità preconfezionata era contenuta nel comunicato letto in mondovisione da un funzionario locale, nessun “big” a metterci la faccia. La vera verità sarebbe venuta fuori dopo, nel corso delle indagini. Ed è per neutralizzare questa realtà inconfessabile che le udienze contro la polizia devono essere fermate prima che si scriva il capitolo finale. Ma è davvero legale il sistema delle notifiche impossibili? Quando le garanzie per un giusto processo diventano strumento per pratiche ostruzionistiche votate alla ricerca della prescrizione? E perché, davanti alla riottosità della polizia stessa nel farsi giudicare, lo Stato non ha saputo adottare adeguate contromisure, far sì che i tempi delle notifiche e infine della Cassazione fossero più ragionevoli, mettendoci al riparo da un inaccettabile nulla di fatto? Sulla carta la melina parrebbe lecita. Ma una sentenza della Suprema Corte pronunciata a sezioni unite il 1° giugno scorso (presidente Giuseppe Cosentino) fa chiarezza sugli «obblighi di lealtà e correttezza» imposti agli imputati e ai loro difensori. A maggior ragione, verrebbe da dire, se sono tutori dell’ordine, dello Stato e in definitiva di noi tutti. Si parla del caso d’un rapinatore che chiede la nullità della condanna a due anni e due mesi, perché in appello non potè partecipare, non avvisato, uno dei suoi due avvocati. I magistrati sono lapidari quando parlano del «dovere di collaborazione dei difensori al regolare svolgimento del processo». E non lesinano stoccate: «Una norma processuale non può essere utilizzata, e quindi anche interpretata, per raggiungere finalità diverse da quelle per le quali è stata dettata, con il risultato non solo di tutelare interessi non meritevoli di protezione, ma anche di ledere interessi costituzionalmente protetti».

COSI’ LA CASSAZIONE CONTESTA L’OSTRUZIONISMO

Gli obiettivi fondamentali devono essere insomma lo svolgimento concreto del processo e la verità, non la perdita di tempo. «La lealtà - prosegue la Cassazione - non implica collaborazione con l’autorità giudiziaria per il raggiungimento d’uno scopo comune, ma certamente comporta che anche l’attività della difesa debba convergere verso la finalità d’un procedimento di ragionevole durata». Significa che accusatori e accusati sono contrapposti, e va bene. Ma pure i secondi devono fare in modo che il processo si faccia, non che slitti. Assodata la scarsa collaborazione degli imputati (tutti servitori, o ex, del nostro Paese), perché la Giustizia non è riuscita a contenere la perdita di tempo? Davvero quel ginepraio di notifiche partite da Genova era necessario? La Corte d’Appello del capoluogo ligure (sulle incredibili lungaggini del terzo grado Diaz intervenne, stigmatizzandole, pure il procuratore generale Luciano Di Noto) poteva attivarsi maggiormente e contenere di più lo stillicidio di ritardi? Lo abbiamo chiesto a Mario Torti, che dell’Appello a Genova è il presidente e avrebbe tutto l’interesse affinché il verdetto scritto dai “suoi” giudici sia sottoposto all’ultimo vaglio: «Sapevo di alcuni intoppi - spiega - ho girato alle cancellerie la sollecitazione del procuratore generale. Poi non ho ricevuto altre informazioni. Il terzo grado non è stato ancora fissato? Chiederò cosa sta accadendo....».

L’ITALIA PUNITA DALL’EUROPA PER ABUSO DI PRESCRIZIONE

C’è un ultimo dato, importantissimo, da sottolineare, sebbene sia passato molto sotto silenzio negli ultimi mesi. Mentre fior di poliziotti italiani tergiversano per scampare al giudizio più imbarazzante (la Diaz), l’Europa ha già condannato l’Italia per l’abuso della prescrizione, in particolare nei processi sulle forze dell’ordine. E lo ha fatto con autentiche sentenze, emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha multato per centinaia di migliaia di euro. L’ultimo caso risale alla primavera scorsa, con l’imposizione d’un risarcimento ai familiari di un albanese ucciso nel 1997 da un poliziotto a Milano, “graziato” in Italia dai tempi lunghi e il cui processo non è mai finito. I pronunciamenti europei rappresentano uno dei pilastri sui quali si sono incardinati i ricorsi della Procura sia sui fatti della Diaz che sui pestaggi nella caserma di Bolzaneto. Strasburgo ribadisce che la scadenza dei termini impedisce in molti casi di rendere «giustizia» alle vittime. E rimarca come nel caso di reati compiuti da uomini in divisa, la prescrizione sia un ostacolo gravissimo all’adozione di provvedimenti disciplinari (esattamente quel che sta accadendo per la Diaz). Per questo, proprio per questo, abbiamo già subito delle sanzioni. E allora. La Cassazione dice che gli imputati non devono mestare nel torbido, approfittando dei buchi del sistema per dilatare i tempi, ottenendo così che non s’arrivi mai a una sentenza. L’Europa ha condannato l’Italia a pagare per l’“abuso” della prescrizione. E il codice del nostro Paese prevede che, in uno slancio di trasparenza, gli imputati possano addirittura rinunciare al bonus. Le forze dell’ordine italiane, nel caso Diaz, scappano invece dal processo e dal verdetto, rincorrendo l’agognata prescrizione con i sistemi svelati da questo dossier. E le promesse di «punire i responsabili», sbandierate dieci anni fa e ribadite di recente dal nuovo capo della polizia Antonio Manganelli, suonano semplicemente come una violentissima presa in giro

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