domenica 21 dicembre 2025

pc 21 dicembre - Ancora sul processo italiano alla resistenza palestinese. Info SRP


Il 16 gennaio 2026 la Corte d’Assise di L’Aquila stabilirà se sia legittima o meno la resistenza armata ad un paese occupante e se si possano considerare civili dei coloni armati che prendono possesso di territori altrui, con il sostegno e l’impunità dell’esercito dell’occupazione.

Nell’ultima udienza finalmente sono emerse, anche nelle dichiarazioni di Ali e Mansour, le ragioni che hanno portato Anan a scegliere di combattere per la libertà della sua terra e del suo popolo. Ragioni che sin dall’inizio sono state escluse dal processo, epurandolo da tutti gli elementi di contesto: violenze continue, storie di famiglie devastate dal colonialismo di insediamento israeliano, di amici e parenti in detenzione amministrativa senza aver commesso reati, di palestinesi torturati da esercito e servizi segreti.

Particolarmente lungo e sofferto è stato il racconto di Ali, di cui pubblichiamo stralci, per fare giustizia di un popolo, oggi sotto processo a L’Aquila, per “aver voluto inseguire un sogno: vivere in pace, in un paese non macchiato ogni giorno dal sangue del suo corpo“:

Mi chiamo Ali Irar, sono nato nel 1994 a Ramallah, in Palestina.

Mentre mia madre partoriva, mio padre era in carcere in detenzione amministrativa, senza prove e senza imputazione. È stata solo una delle quattro volte in cui ci è finito, sempre in detenzione amministrativa, senza che fosse mai formulata un’accusa a suo carico.

Solo l’anno prima suo fratello era stato ucciso dall’esercito israeliano all’età di 19 anni, mentre lavorava in un cantiere, ucciso per sbaglio durante l’intervento dell’esercito nel suo villaggio.

Era rimasto a terra sanguinante per svariate ore. L’esercito aveva impedito che i soccorritori potessero avvicinarsi all’area interessata dall’azione finché non è morto dissanguato.

Sono cresciuto a Qarawat Bani Zeid, un villaggio a nord di Ramallah. Mio padre ha svolto diversi lavori. Per molti anni ha lavorato in un bar a Giaffa. Negli anni 2000 però con la costruzione del muro, che divide la Cisgiordania dai territori occupati nel ’48 da Israele, spostarsi è diventato impossibile per lui. È tornato quindi a lavorare a Ramallah, aprendo una ditta edile. Lì ho vissuto e ho frequentato le scuole.

La morte e la detenzione delle persone che conoscevo hanno attraversato tutta la mia vita, fin dal giorno in cui sono nato.

Avevo 9 anni quando nel 2003 il figlio appena dodicenne del cugino di mio padre è stato ucciso dall’esercito israeliano. Anche lui per sbaglio, uno dei tanti effetti collaterali delle incursioni militari israeliane. L’hanno ammazzato davanti a casa mia. Mio padre si è precipitato in ospedale con lui, ma non c’è stato niente da fare. È morto durante il tragitto.

In quello stesso anno è nato mio fratello a cui miei genitori hanno deciso di dare lo stesso nome del bambino morto poco prima. Oltre a lui ho una sorella più grande e un altro fratello più piccolo.

Nel 2004 altri membri della mia famiglia sono stati uccisi durante le incursioni dei militari israliani. Tra loro c’è anche mio cugino, R.I, di 17 anni e Ra.I, madre di sette figlie.

Anche la casa dei miei genitori è stata perquisita con certe operazioni dell’esercito.

Erano le 2:00 di notte, nei primi giorni di gennaio del 2005. Ci hanno costretti a uscire in strada dove siamo rimasti fino alle 11 del mattino. Hanno distrutto tutto, hanno ribaltato ogni oggetto presente. L’evento è stato documentato anche dalla Croce Rossa.

Dopo pochi giorni l’esercito israeliano è tornato in città. L’esercito ha lanciato nelle strade numerose granate stordenti. Hanno fatto uscire numerose famiglie dal loro appartamento. Questi fatti sono stati raccontati anche dal giornale palestinese Al-Hayat Al-Jadida.

Hanno diviso le donne dagli uomini, hanno fatto lo stesso con la famiglia di mio zio.

Ricordo che sentivo colpi di arma da fuoco … Seppi successivamente che a seguito dell’incursione dell’esercito israeliano nel villaggio, alcuni palestinesi si erano attivati in difesa della popolazione.

L’operazione militare si è conclusa con l’uccisione di due giovani e l’arresto di molti uomini del villaggio. Presero anche mio padre e mio zio, senza dirci dove li avrebbero portati.

Passarono settimane prima di sapere che erano stati portati al carcere Al-Moskobiya a Gerusalemme.

Vennero interrogati e torturati, oltre che costretti a firmare un foglio in cui rinunciavano all’assistenza legale.

Per fare pressione a mio padre gli infilarono biglietti sotto la porta della cella, in cui gli scrivevano che ci avevano uccisi tutti.

Quando è uscito, dopo 87 giorni, aveva la barba lunga e aveva perso innumerevoli kg. Inizialmente non siamo riusciti neanche a riconoscerlo.

Nel 2010 sono stati arrestati altri studenti che conoscevo a scuola, tra cui anche un mio cugino.

Una volta conclusa la scuola ho iniziato a studiare legge a Ramallah. Mentre frequentavo l’università lavoravo come barman e fotografo per alcune piccole testate come Ramallah Mix e Radio Betlemme, alle quali mandavo foto in cui documentavo le violenze dell’esercito di occupazione israeliana.

Le intimidazioni nei miei confronti a causa dell’appartenenza ad una famiglia ritenuta favoreggiatrice della resistenza continuavano incessantemente nelle strade che percorrevo, nei controlli e blocchi dell’esercito israeliano che trasformavano i percorsi quotidiani in ore di viaggio, perquisizioni e umiliazioni.

27 km dividevano casa mia dall’Università, ma il percorso poteva durare anche 4 ore.

Era luglio del 2014. Nello stesso periodo avveniva l’attacco israeliano su Gaza, nel corso del quale gli israeliani ammazzarono più di 2000 persone, di cui molte bambini e bambine. Quando mi fermarono al checkpoint di Hallamish, la situazione era ancora più tesa del solito. Lì vicino c’era una manifestazione di protesta della popolazione palestinese. I militari sparavano lacrimogeni e proiettili da tutte le parti. Un lacrimogeno colpì la macchina dove ero seduto e il sedile prese fuoco. Venni ricoverato tre mesi all’ospedale con ustioni di secondo grado sulla schiena. Se volete posso mostrarvi i segni delle ustioni.

Nel 2015, durante una nuova campagna di arresti e posti di blocco nella città, venne nuovamente arrestato mio padre per 6 mesi. Questa volta è stato rinchiuso nel carcere di Ofer, situato dentro un insediamento di coloni israeliani vicino a Ramallah. È in questo momento che ho cominciato a pensare di voler andare via dalla Palestina, perché quando esci di casa non sai se tornerai vivo o morto, perché la vita lì era diventata impossibile…

Sono partito il 9 settembre del 2017, ho passato il blocco di frontiere israeliane, palestinesi e Giordane, quindi sono arrivato a Roma il 10 settembre.

Ho aspettato giorni prima di entrare in Questura. La fila era interminabile, dormendo lì davanti per non perdere il mio turno, ottenendo un appuntamento per dicembre, quindi tre mesi dopo. Ho conosciuto dei ragazzi arabi in fila, i quali mi consigliarono di andare a richiedere l’asilo in un’altra città italiana, a L’Aquila, una città vicino Roma, ma più piccola, dove quindi non c’erano le stesse lunghe file in questura e la possibilità di trovare un posto e le strutture d’accoglienza erano più alte.

Il 16 ottobre 2017 andai alla stazione Tiburtina per prendere il bus verso L’Aquila e lì incontrai per la prima volta anche Anan. Abbiamo raggiunto L’Aquila e la prima notte abbiamo dormito al Terminal di Collemaggio. Il giorno dopo siamo andati in questura a fare entrambi la richiesta d’asilo. In questura, in attesa di richiedere l’asilo politico, c’erano altri due ragazzi, un iracheno e un giordano. Ci sistemarono tutti e quattro in un appartamento all’interno del circuito dell’accoglienza.

Abbiamo vissuto insieme, abbiamo cominciato a uscire, a fare le lezioni d’italiano, a chiacchierare. Abbiamo parlato come qualunque nostro compaesano di Palestina e di tutto ciò che succedeva nella nostra terra sotto occupazione da 70 anni, in cui non c’è mai stato un giorno di pace.

Abbiamo vissuto insieme noi quattro fino all’aprile del 2018, quando una mattina ci siamo svegliati con la polizia e con i cani alla porta del nostro appartamento. Ci presero il telefono e con Anan ci portarono in questura.

Hanno interrogato Anan per più di 4 ore, mentre a me solo una domanda. Mi hanno chiesto se lo avevo conosciuto in Italia o all’estero…

Nell’aprile del 2023 Anan è tornato all’Aquila da Mestre per incontrare la sua compagna che aveva conosciuto qui nel 2021. Insieme avevano in programma di partire per Amman, per ufficializzare il loro fidanzamento alla presenza dei genitori di lei e dei fratelli di lui.

Il suo ritorno era previsto per il 2 di giugno, ma quel giorno non avuto più sue notizie…ho sentito la sua compagna e mi ha detto che neanche lei sapeva niente di lui. La sera prima, poco dopo cena, Anan era sparito […]

Il 7 settembre del 2023 sulla stampa uscì un articolo in cui si affermava che Anan Yaeesh era morto in carcere…i fratelli di Anan hanno provato a capire se fosse vero, ma nessuno sapeva nulla. In quel periodo ho affittato una casa in Via del Bargello, adatta a poter ospitare anche mia madre e mia zia, che volevano venire a trovarmi, ma a causa della situazione in Palestina, non riuscirono a partire.

Il 22 novembre del 2023 Anan è uscito dal carcere. Sua sorella mi ha mandato una sua foto, e io neanche l’ho riconosciuto. Era appena uscito dal carcere e io gli ho preso il biglietto per tornare in Italia. Mi ha chiesto di condividere l’appartamento con lui finché non ne avesse trovato un altro, in attesa anche dell’arrivo della sua compagna in Italia.

Il matrimonio di Anan era previsto per febbraio del 2024 a L’Aquila. Poi però è arrivato il gennaio 2024 con l’irruzione dell’antiterrorismo a casa mia per arrestare Anan, segnando così l’inizio di tutta questa assurda vicenda. La mia amicizia con Anan è stata forte e sincera, ma ognuno di noi ha sempre avuto la propria vita…

E quando chiedete se noi palestinesi parliamo di Palestina, la mia risposta è certo che parliamo di Palestina! Così come voi dopo l’evento traumatico del terremoto avrete certamente parlato a lungo di ciò che succedeva nella vostra città. Anche noi, soprattutto nel momento in cui Israele sta compiendo un genocidio contro uomini, donne, bambini e anziani palestinesi, parliamo di Palestina. Solo da gennaio 2023, fino al 6 ottobre 23 Israele ha ucciso 198 giovani disarmati in Cisgiordania. Durante il genocidio a Gaza Israele ha ucciso 1001 persone in Cisgiordania. Il 6 ottobre 2023 le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali hanno dichiarato che quell’anno è stato il più sanguinoso per i bambini palestinesi in Cisgiordania…

Oggi, mentre stiamo sotto processo qui in Italia, i coloni presenti illegalmente in Cisgiordania vengono armati e protetti dall’esercito, continuando una politica di pulizia etnica iniziata nel ’67…

In conclusione, dopo più di 20 anni di studio sotto occupazione militare, violenza e intimidazione, con la morte negli occhi e familiari incarcerati, mi sono deciso a lasciare la mia terra. Ora mi ritrovo in un tribunale italiano con l’assurda accusa di essere un terrorista, ma sappiate che se ho una colpa è soltanto quella di aver voluto inseguire un sogno, vivere in pace, in un paese non macchiato ogni giorno dal sangue del suo corpo.

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