‘Ora gli imprenditori potranno continuare a fare quello che
vogliono’, denuncia la mamma di Luana.
Anche questa infame decisione del patteggiamento per evitare il processo dimostra che è sempre più necessario presidiare i Tribunali dei padroni dove si svolgono i processi per gli omicidi sul lavoro e che l'unica giustizia è quella proletaria!
Dopo avere manomesso l’impianto di sicurezza dell’orditoio
per aumentare produttività e profitti che ha portato alla morte sul lavoro dell’operaia
apprendista Luana D'Orazio, ai padroni niente processo, viene permesso di cavarsela con il patteggiamento, con i
risarcimenti e una multa e scaricano ora la responsabilità, che è solo la loro
in quanto sono al vertice del comando organizzativo e decisionale della fabbrica, al
responsabile della manutenzione.
La giustizia di classe che ha ammazzato un’altra volta
ancora Luana, che impedirà ancora ai padroni di fare anche un solo giorno di
galera per aver violato le norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, è la
stessa che ha garantito l’impunità ai padroni assassini nei processi per gli altri omicidi sul lavoro, è la stessa che colpisce le lotte operaie, gli scioperi e
picchetti, con norme penali, con pene pesanti che arrivano fino all’arresto di
chi partecipa e organizza quelle lotte.
Ma che cosa ci potevamo aspettare dai giudici di questo Stato?
Nessuna illusione: i Tribunali dei padroni devono essere terreno di lotta, di
mobilitazione e denuncia, di scontro politico e sociale. Dobbiamo lavorare perché
sia sempre di più possibile organizzare davanti ai Tribunali la presenza di una
Rete che raccolga diverse energie, dai lavoratori e dalle loro organizzazioni,
dai famigliari e dalle loro associazioni, dagli studenti agli avvocati a tutti
coloro che si impegnano concretamente per la difesa della vita e per la
sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
La sicurezza sul lavoro passa dai rapporti di forza tra
operai e padroni ed è sempre più necessario organizzare la forza dei lavoratori
a partire dalle lotte nei luoghi di lavoro per portarle su di un piano nazionale. Dobbiamo ricostruire dal basso il potere degli Rls, non
nominati dall’alto dai confederali o dai sindacati di base nelle rsa e arrivando
a organizzarli anche nelle fabbriche con meno di 15 dipendenti. Per fare questo
ci vogliono nuove leggi, un nuovo Statuto del Lavoratori, obiettivi che
possiamo raggiungere solo con la lotta, con un movimento nazionale espressione di una Rete che unisca diverse realtà.
Luana D’Orazio: quanto vale la vita di un’operaia?
27 OTTOBRE 2022 | di Massimo Alberti radiopopolare
Un milione di euro e 10300 di multa per evitare il processo.
Il Giudice dell’udienza preliminare della procura di Prato
ha accolto la richiesta di patteggiamento per la morte di Luana D’Orazio, la
giovane operaia di 22 anni uccisa il 3 maggio 2021 in una ditta del pratese
mentre lavorava su un macchinario cui erano stati tolti i dispositivi di
sicurezza per farlo andare più veloce, produrre di più, aumentare il profitto.
La procura e i difensori degli imputati hanno patteggiato rispettivamente 2
anni e un anno e mezzo per i titolari della ditta Luana Coppini e il marito
Daniele Faggi, entrambi con sospensione della pena a condizione del pagamento
di un risarcimento di 1 milione di euro. La ditta, in qualità di persona
individuale, pagherà un’ammenda di 10300 euro. Rabbia e delusione della mamma
di Luana D’Orazio, Emma Marrazzo “Mi aspettavo più rispetto per nostra figlia”
ha commentato.
A processo andrà invece il manutentore dell’orditoio. Tutti
erano accusati di omicidio colposo e rimozione dolosa di cautele
antinfortunistiche. La madre ha ricordato la morte particolarmente atroce della
figlia.
La perizia sull’orditoio su cui Luana D’Orazio stava
lavorando è in effetti raccapricciante. Al macchinario era stato levato
deliberatamente un cancelletto di protezione che doveva evitare ciò che poi
accadde: l’operaia restò agganciata con la maglia ad una sbarra sporgente che
la trascinò dentro al motore, stritolandole il torace per 7 interminabili
secondi prima che qualcuno corresse a spegnerla.
Il primo soccorritore era infatti a circa 30 metri di
distanza. D’Orazio dunque non era vigilata, eppure era stata assunta come
apprendista, contratto meno costoso, ma che richiede la sorveglianza di un
tutor. Senza protezione il macchinario aveva aumentato la sua produzione
dell’8%.
Le modalità di lavoro a rischio della vita degli operai
erano talmente consuete, che la perizia accertò che il dispositivo di sicurezza
non era usato da così tanto tempo da esser pieno di ragnatele. Se i proprietari
della ditta se la caveranno con i soldi, andrà a giudizio il terzo imputato, il
manutentore Mario Cusimano, colui che materialmente metteva le mani sulla macchina,
ma che certo non prendeva le decisioni. La perizia parla ancora di “evidente
manomissione con altrettanto evidente nesso causale con l’infortunio”.
Ma di fronte alla richiesta comprensibile di patteggiamento
delle difese, anche con prove così schiaccianti la procura ha preferito evitare
il processo, e come spesso accade nei processi per morti sul lavoro, puntare su
pene pecuniarie che, al netto delle assicurazioni, costano relativamente poco a
imprenditori che, proprio grazie al risparmio sulla sicurezza, hanno aumentato
i profitti.
Dell’8%, in questo caso, pagati dalla vita di un’operaia di
22 anni.
Perché questo accada, ce lo eravamo chiesti all’indomani
della morte di Luana D’Orazio. A partire da una provocazione.
La morte di un* operai* conviene?
Una provocazione però fino ad un certo punto, perché serve a
provare a scoperchiare un altro pezzo del sistema che ogni giorno uccide almeno
3 lavoratrici e lavoratori e che si traduce in una parola, impunità.
La morte di un operaio può costare a un impresa anche solo
poche decine di migliaia di euro. Meno che garantire le misure di sicurezza. Le
condanne penali sono rare e complesse. Avere un controllo è un’ipotesi sempre
più remota.
“Il mondo imprenditoriale non teme il penale, ma di esser
colpito nel portafoglio“, aveva spiegato Carlo Sorgi, oggi pensione, dopo quasi
30 anni da magistrato del lavoro in cui le ha viste tutte. Perché anche la vita
di un operaio ha un valore ed un costo di rischio che si rapporta con la spesa
per garantire le misure di sicurezza. Ma quanto costa ad un’impresa la morte di
un lavoratore? relativamente poco: se va bene, anche solo poche decine di
migliaia di euro.
Da una parte c’è il penale, dove le sentenze definitive sono
rare: pesa la complessità delle indagini, la difficoltà di dimostrare la
responsabilità in processi dove la forza tra impresa e familiari è spesso
impari. E laddove con fatica si ottiene il riconoscimento della responsabilità
penale, spesso la prescrizione salva l’imputato.
Manca una cultura anche nella magistratura: “Se negli anni
80 alcune procure avevano nuclei penali formati sulla sicurezza del lavoro,
questo si è perso, e spesso i magistrati, oberati di lavoro, non escono nemmeno
più per i sopralluoghi – riflette Sorgi – secondo cui sul piano civile invece
il sistema funziona e si arriva a risarcimenti spesso anche veloci.
La cifra dipende dal caso specifico, mediamente centinaia di migliaia di euro. Che per l’impresa però sono coperte da assicurazione, e spesso, il danno si traduce nell’aumento del premio assicurativo e del versamento Inail. Se va bene, appunto, anche poche decine di migliaia di euro nel caso estremo. Un costo teorico e spesso inferiore a quello certo che comporterebbe l’applicazione rigida dei dispositivi di sicurezza, la cui regolazione è ferma al testo unico del 2008, un buon impianto legislativo che nelle rapidità dei cambiamenti andrebbe aggiornato. E sì che le imprese un bel risparmio lo hanno già avuto grazie al regalo del governo Conte-bis, che aveva tagliato i loro contributi all’Inail, lasciato letteralmente in mutande, con 631 milioni di euro in meno di entrate mai compensate da altri stanziamenti. Poco conta che il 90% delle aziende che i circa 300 ispettori riescono a controllare non sia in regola. Nel 2019 le ispezioni erano state poco più di 15000, a fronte di 3.300.000 imprese registrate. Lo 0,46%. Più facile vincere al gratta e vinci che avere un controllo. In una parola: impunità.
Le aziende, come dicevamo tolgono i dispositivi di sicurezza
dalle macchine perché fa perdere tempo, rallenta la produzione, rischi che il
macchinario si fermi sospendendo l’attività. Fa niente se così chi ci lavora
rischia di perdere una mano, o peggio, come accaduto a Luana D’Orazio.
La crisi non è una scusa: i numeri pre e post pandemia sono
simili. Mancano gli ispettori, i controlli non si fanno, le aziende non
rinnovano i macchinari. Si resta al lavoro di più, e si arriva senza
formazione. E nel recovery plan non si è trovato un euro da investire sulla
sicurezza. Un disinteresse che uccide.
Da alcuni anni, gli ispettori del lavoro periodicamente
scioperano e protestano per i tagli alla loro categoria. Il jobs act nelle
intenzioni ha unificato i diversi ispettorati, senza mai però finanziamenti
adeguati. L’ultimo taglio è del governo Conte che nel 2019, per tagliare le
tariffe Inail alle imprese, ha ridotto le risorse ai piani di investimento su
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, nell’unico paese d’Europa che un piano
nazionale per la sicurezza sul lavoro non ce l’ha. E così l’Ispettorato
nazionale ha 4.500 dipendenti invece di 6.500, l’ Asl 2mila, ma erano 5000 10
anni fa, mentre all’Inail di ispettori ne sono rimasti 250. In Italia le
imprese registrate sono oltre 6 milioni. Ogni anno un ispettore dovrebbe
controllare 1000 imprese, 3 al giorno. Se l’azienda di Luana D’Orazio avesse
ricevuto un controllo, forse la ragazza si sarebbe salvata. Nella sola edilizia,
l’80% delle sole 10000 aziende controllate l’anno scorso ha riscontrato
irregolarità: Due dati che la dicono lunga sul disinteresse dello stato e delle
imprese per la sicurezza.
L imprese godono di sgravi e bonus per rinnovare i
macchinari, ma preferiscono spendere in altro. E’ il caso ad esempio
dell’agricoltura, che insieme all’edilizia fa alzare i dati. Proprio in
edilizia si rileva l’età media molto alta dei morti, segno che si resta al
lavoro troppo dopo gli aumenti di età pensionabile. E quando si arriva giovani,
magari con contratti a precari e stipendi bassi, spesso è senza formazione,
altro campo in cui le imprese hanno smesso di investire. Tante cause, dunque:
dai controlli che non ci sono, alle imprese che non spendono, alle riforme di
lavoro e previdenza che hanno cambiato il contesto. Ma un cambio di passo non
si vede, il disinteresse continua.
Nel Recovery Plan, La parola sicurezza è scritta 93 volte,
mai legata al lavoro. Per la sicurezza sul lavoro, negli oltre 200 miliardi del
fondo, non si è trovato un euro. Vite che non valgono nulla. Non servono
dichiarazioni o commissioni d’inchiesta. Serve che lo stato metta i soldi che
deve, e costringa le imprese a fare altrettanto.
E poi c’è l’ultimo capitolo: la guerra che le azienda fanno ai delegati alla sicurezza.
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