“Italiano, vattene via di qui”
Così a Prato è tornata l’omertà
Gli operai cinesi lavorano a ritmi folli e senza diritti
A due mesi dalla tragedia non è cambiato nulla
A due mesi dalla tragedia non è cambiato nulla
Nei laboratori clandestini non si rispetta alcuna regola. Per poche centinaia di euro al mese si lavora senza sosta
Due mesi dopo, tutto quello che sappiamo di Dong
Wenqiu è che viveva in un loculo di cartongesso ed è morto cercando di
scappare dalle fiamme. Confezionava pronto moda. Guadagnava 700 euro per
diciotto ore di lavoro al giorno. La sua stanza da letto erano due
metri quadrati senza finestre, ricavati sul retro del laboratorio,
dietro l’ennesima porta segreta di Prato. La moglie Lin ha voluto rose
bianche per il funerale. I suoi resti sono stati spediti in Cina il 21
gennaio. Da Firenze a Francoforte, per Shanghai, poi Wenzhou, fino a un
paese talmente piccolo e remoto, da non essere neppure segnato sui
documenti di viaggio. Davanti al laboratorio distrutto dall’incendio,
restano bottoni, attaccapanni e orchidee marce. Nessuna certezza che la
tragedia del 1° dicembre 2013 - quando al Macrolotto con Dong Wenqiu
morirono altri sei operai ancora in attesa di sepoltura - possa servire
da lezione. «Purtroppo potrebbe capitare un’altra volta questa notte
stessa», dice il procuratore capo di Prato Piero Tony.
Al terzo piano di un piccolo Palazzo di Giustizia, ha un ufficio con vista sulla trasformazione. Quello che una volta era un tranquillo sobborgo di Firenze, da dieci anni è il primo polo tessile italiano. Qui, 4830 imprese cinesi producono vestiti per un valore di 2,3 miliardi all’anno. Diciottomila addetti ufficiali, più migliaia di clandestini nascosti come topi, in pericolo come Dong Wenqiu. Ora si sa. «Finalmente registriamo una presa d’atto del problema - dice il procuratore Tony - ma purtroppo non è ancora scattata la fase operativa. Continuano a mancare uomini e mezzi. Siamo sempre a due ispettori del lavoro per questa selva di capannoni, cioè siamo a zero».
Non contano i cancelli sormontati dal filo spinato, i campionari allineati sulle grucce, nelle grandi stanze d’ingresso. Bisogna andare sul retro per capire. Dove piccoli furgoni bianchi caricano e scaricano in continuazione, in un rumore di scotch da imballaggio. Non sarete i benvenuti. La Prato cinese è una città con il doppio fondo. Molti laboratori hanno un dormitorio segreto: scale di compensato, odore di spaghetti nel bollitore, macchine da cucire di marca Juki. Ecco perché adesso scappano e urlano, con facce sbigottite. In quarantasei tentativi di parlare dell’incendio con qualcuno, sempre la stessa risposta: «Andate via! No italiano».
Nella zona di via Pistoiesi, dove sul marciapiede si vendono gamberi ancora vivi, di sera non c’è più nessuno. I ritmi del lavoro Made in China sono invertiti. Il picco è fra le 18 e le 22. Dentro ogni cortile, si produce e si brucia denaro. In via Zipoli c’è una bisca clandestina con 60 uomini al tavolo. Nella strada parallela, in un cortile interno, un capannone ha la porta stranamente aperta. Entriamo: luci fioche, arance sul pavimento, pannolini da neonati, ritagli di stoffa. Un decrepito televisore è agganciato in alto, fra cavi elettrici che corrono sulle pareti. I macchinari per la tessitura sono fermi. Non c’è nessuno. Ma all’improvviso, con uno stridore di legno e giunture, una finta parete carica di rocchetti di filo, si scosta. Da una scala posticcia, scendono ragazzi e ragazze in pigiama, hanno la faccia impastata di sonno. Sono le cinque di pomeriggio. Non dovremmo essere qui. Il proprietario entra di corsa, urlando e minacciando: «Via, via!». Anche il vicino italiano è furioso: «Lasciateli lavorare in pace!». Non bisogna disturbare. In molti fanno parte dell’indotto. Proliferano filiali bancarie e money transfer. Secondo i dati della Banca d’Italia, le rimesse da Prato erano 20 milioni nel 2005, 464 milioni nel 2009, 187 milioni nel 2012. Significa che anche oggi, nell’anno di crisi 2013/2014, ogni giorno 500 mila euro partono per la Cina.
L’inchiesta sulla tragedia del 1° dicembre è estremamente complessa. Ci sono sei indagati per omicidio colposo plurimo, disastro e sfruttamento della mano d’opera clandestina. Sono quattro cittadini cinesi e due italiani. Il pm Lorenzo Gestri dice: «È un’indagine paradigmatica. Ci racconta Prato. Siamo di fronte a una giungla di prestanomi. Proprietari e titolari che cambiano in continuazione. Il capannone distrutto dall’incendio era dato in affitto da due imprenditori italiani per 1500 euro al mese: ma era il prezzo reale? E ancora: i proprietari erano consapevoli dell’abuso edilizio commesso dagli affittuari cinesi? Cioè di quei loculi, al fondo, sulla destra, dove dormivano gli operai clandestini? Su questo stiamo lavorando». È stata una stufetta elettrica difettosa a innescare le fiamme. Fa ancora molto freddo a Prato.
Eppure forse qualcosa sta cambiando. Lo dimostra la protesta dei parenti delle vittime, che vagano come fantasmi in cerca di giustizia. Lo dimostra il coraggio di un operaio che adesso vive in località protetta, aiutato dal Comune. Per due anni è stato tenuto chiuso a chiave dentro un laboratorio tessile. Dormiva fra gli scarafaggi, in un loculo di compensato. Ha perso una mano nei macchinari, ma non ha potuto sporgere denuncia. Il 4 dicembre 2013 il suo titolare è stato condannato in primo grado per sequestro di persona. È questa la notizia più importante che arriva da Prato. La prima voce di rivolta nel silenzio operoso di Chinatown.
Al terzo piano di un piccolo Palazzo di Giustizia, ha un ufficio con vista sulla trasformazione. Quello che una volta era un tranquillo sobborgo di Firenze, da dieci anni è il primo polo tessile italiano. Qui, 4830 imprese cinesi producono vestiti per un valore di 2,3 miliardi all’anno. Diciottomila addetti ufficiali, più migliaia di clandestini nascosti come topi, in pericolo come Dong Wenqiu. Ora si sa. «Finalmente registriamo una presa d’atto del problema - dice il procuratore Tony - ma purtroppo non è ancora scattata la fase operativa. Continuano a mancare uomini e mezzi. Siamo sempre a due ispettori del lavoro per questa selva di capannoni, cioè siamo a zero».
Non contano i cancelli sormontati dal filo spinato, i campionari allineati sulle grucce, nelle grandi stanze d’ingresso. Bisogna andare sul retro per capire. Dove piccoli furgoni bianchi caricano e scaricano in continuazione, in un rumore di scotch da imballaggio. Non sarete i benvenuti. La Prato cinese è una città con il doppio fondo. Molti laboratori hanno un dormitorio segreto: scale di compensato, odore di spaghetti nel bollitore, macchine da cucire di marca Juki. Ecco perché adesso scappano e urlano, con facce sbigottite. In quarantasei tentativi di parlare dell’incendio con qualcuno, sempre la stessa risposta: «Andate via! No italiano».
Nella zona di via Pistoiesi, dove sul marciapiede si vendono gamberi ancora vivi, di sera non c’è più nessuno. I ritmi del lavoro Made in China sono invertiti. Il picco è fra le 18 e le 22. Dentro ogni cortile, si produce e si brucia denaro. In via Zipoli c’è una bisca clandestina con 60 uomini al tavolo. Nella strada parallela, in un cortile interno, un capannone ha la porta stranamente aperta. Entriamo: luci fioche, arance sul pavimento, pannolini da neonati, ritagli di stoffa. Un decrepito televisore è agganciato in alto, fra cavi elettrici che corrono sulle pareti. I macchinari per la tessitura sono fermi. Non c’è nessuno. Ma all’improvviso, con uno stridore di legno e giunture, una finta parete carica di rocchetti di filo, si scosta. Da una scala posticcia, scendono ragazzi e ragazze in pigiama, hanno la faccia impastata di sonno. Sono le cinque di pomeriggio. Non dovremmo essere qui. Il proprietario entra di corsa, urlando e minacciando: «Via, via!». Anche il vicino italiano è furioso: «Lasciateli lavorare in pace!». Non bisogna disturbare. In molti fanno parte dell’indotto. Proliferano filiali bancarie e money transfer. Secondo i dati della Banca d’Italia, le rimesse da Prato erano 20 milioni nel 2005, 464 milioni nel 2009, 187 milioni nel 2012. Significa che anche oggi, nell’anno di crisi 2013/2014, ogni giorno 500 mila euro partono per la Cina.
L’inchiesta sulla tragedia del 1° dicembre è estremamente complessa. Ci sono sei indagati per omicidio colposo plurimo, disastro e sfruttamento della mano d’opera clandestina. Sono quattro cittadini cinesi e due italiani. Il pm Lorenzo Gestri dice: «È un’indagine paradigmatica. Ci racconta Prato. Siamo di fronte a una giungla di prestanomi. Proprietari e titolari che cambiano in continuazione. Il capannone distrutto dall’incendio era dato in affitto da due imprenditori italiani per 1500 euro al mese: ma era il prezzo reale? E ancora: i proprietari erano consapevoli dell’abuso edilizio commesso dagli affittuari cinesi? Cioè di quei loculi, al fondo, sulla destra, dove dormivano gli operai clandestini? Su questo stiamo lavorando». È stata una stufetta elettrica difettosa a innescare le fiamme. Fa ancora molto freddo a Prato.
Eppure forse qualcosa sta cambiando. Lo dimostra la protesta dei parenti delle vittime, che vagano come fantasmi in cerca di giustizia. Lo dimostra il coraggio di un operaio che adesso vive in località protetta, aiutato dal Comune. Per due anni è stato tenuto chiuso a chiave dentro un laboratorio tessile. Dormiva fra gli scarafaggi, in un loculo di compensato. Ha perso una mano nei macchinari, ma non ha potuto sporgere denuncia. Il 4 dicembre 2013 il suo titolare è stato condannato in primo grado per sequestro di persona. È questa la notizia più importante che arriva da Prato. La prima voce di rivolta nel silenzio operoso di Chinatown.
Nessun commento:
Posta un commento