Quando i leader si vedono di notte, la fregatura è assicurata. E così è andata anche stavolta.
Il tema scottante era ancora e sempre l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che protegge i dipendenti dai licenziamenti “illegittimi”, ovvero senza “giusta causa”. Causa che, vista la casistica di 40 anni, si riduce alle situazioni di “colpa grave” del singolo lavoratore: danneggiamento volontario, malattie addotte ma non certificate, assenteismo cronico, rissa, ecc.
Il governo e Confindustria volevano invece rendere possibile il licenziamento individuale anche per “motivi economici”. Com’è noto, in Italia sono possibili un numero illimitato di licenziamenti collettivi per questa stessa ragione. L’azienda dichiara di essere in crisi, di dover perciò ridurre il personale, gli ispettori del lavoro vanno a verificare il ministero concede gli ammortizzatori sociali (co-finanziati da imprese e dipendenti, quasi tutti) e tutto procede senza intoppi.
A che diavolo serve dunque la possibilità di licenziare un solo lavoratore “per motivi economici”? Fin troppo facile la risposta: a togliersi dai piedi gli “indesiderati” con una motivazione fasulla ma “legittima”. Non necessariamente gli indesiderati debbono essere soggetti “conflittuali”; possono benissimo essere anche gli inidonei, ovvero i lavoratori che sono rimasti danneggiati nel fisico proprio dalle mansioni svolte per molti anni in condizioni inumane. Per esempio, in una fabbrica dall’età media abbastanza bassa come la Fiat di Melfi, su 5.500 dipendenti ben 2.200 sono al momenti “inidonei”. Ma non licenziabili, perché è stata loro riconosciuta una “causa di lavoro” per la loro ridotta capacità produttiva.
Cgil e Pd non potevano accettare una formulazione “automatica” - come quella proposta da Fornero & co. - che permetteva il licenziamento con questa causale senza alcuna verifica da parte del giudice e con un semplice indennizzo economico. Ma il governo non poteva rinunciare a questa “libertà” da concedere alle imprese, che si tradurrà - oltre che in un certo numero di licenziamenti – soprattutto in un silenziamento rigido dei lavoratori e della possibilità di fare davvero sindacato in azienda.
Il “compromesso” è l’orrore che ci si aspettava. Che salva le “forme” (in modo da non far perdere completamente la faccia al Pd e alla Cgil), mentre fa avanzare la sostanza.
In pratica:
a) l’azienda licenzia il lavoratore “per motivi economici”;
b) entro 7 giorni la direzione territoriale del lavoro convoca azienda e lavoratore per la “conciliazione obbligatoria”, che ha per obiettivo la determinazione di un indennizzo condiviso da entrambe le parti;
c) se non c’è l’accordo il lavoratore può ricorrere al giudice;
d) il quale dovrà però valutare se la motivazione economica sia valida (o non nasconda in realtà intenzioni “discriminatorie”) secondo una “tipizzazione” molto più rigida dell’attuale, in modo da togliergli la “libertà” di interpretare la legge;
e) se il giudice non troverà motivi per contestare la causale scelta dall’azienda, darà il via libera al licenziamento e il lavoratore – che aveva avuto l’ardire di ricorrere alla magistratura – perderà anche l’indennizzo.
Non serve essere degli esperti di diritto sindacale per capire che, con questa mannaia messa alla fine del percorso, i lavoratori saranno “disincentivati” dal ricorso alla magistratura. La domanda che si dovranno porre subito sarà infatti: “prendo questi quattro soldi sicuri o vado avanti rischiando di perdere tutto?”
Non è una nostra interpretazione malevola. Potete leggere l’articolo de Il Sole 24 Ore, quotidiano di Confindustria che ovviamente - fin dal titolo, che dà una notizia falsa, o almeno tragicamente incompleta - apprezza molto questo “compromesso” che toglie quasi ogni difesa reale al lavoratore.
Anche Repubblica falsifica intenzionalmente: "Licenziamenti economici, possibile il reintegro". Paradossalmente, è meno falsario il titolo del Corriere della Sera: "Licenziamenti economici, possibile reintegro se palesemente illegittimi". Dove il "palesemente" riduce al lumicino le "possibilità di reintegro".
Se i giornalisti che scrivono certe cose si fermassero a pensare che questa sorte potrà toccare anche a loro, un giorno o l’altro, forse sarebbero un po’ più cauti nel “benedire” certe scelte...
Dante Barontini
da contropiano
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