domenica 13 novembre 2022

pc 13 novembre - Sulle vergognose condanne al Comitato Giambellino Lorenteggio

Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant” –

Si è chiuso mercoledì 9 novembre il processo milanese a carico di nove compagni del ‘Comitato abitanti Giambellino-Lorenteggio.

I nove imputati nell’inchiesta “Robin Hood” sono stati tutti condannati in primo grado dal Tribunale di Milano. Secondo l’accusa, sono stati promotori di associazione per delinquere finalizzata all’occupazione abusiva di immobili di proprietà pubblica. Le pene, pesantissime, vanno da un anno e sette mesi a cinque anni e cinque mesi.

Di Prendocasa Torino

Nella giornata di ieri, il tribunale di Milano ha condannato nove compagnə del Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio a pene tra i quattro e i cinque anni per il reato di associazione a delinquere: un precedente giuridico inquietante, che si inserisce a pieno titolo nella traiettoria di criminalizzazione della solidarietà e dell’attività politica che, dall’utilizzo di capi d’accusa come devastazione e saccheggio alle recenti norme “anti-rave”, viene sempre più affinata per colpire ed invisibilizzare le esperienze e le pratiche di chi, in questo paese, prova ad alzare la testa. Spesso si tende a vedere la repressione come un’azione reattiva e fondamentalmente ristretta, circostanziata a casi specifici che vanno di volta in volta contestati e rispediti al mittente, perdendo così di vista la sua dimensione strutturale, preesistente al supposto reato, di campo di forza, di forma di contrasto irriducibile a ciò che mina le fondamenta del presente. La repressione non produce soltanto sconquassamenti delle vite, solitudini ed isolamenti, ma soprattutto fonda immaginari, impone letture e categorizzazioni, spunta armi: organizzarsi per avere un tetto diventa un disegno criminoso, le relazioni che si sviluppano nella solidarietà una contropartita economica, costruire qui ed ora un mondo altro un illecito mosso da bieco tornaconto personale. Un’azione collettiva che risponde a bisogni e desideri collettivi viene disarticolata in un grande complotto che si muove sui binari dell’egoismo e dell’interesse economico, in un’operazione che prova a restituire un messaggio semplice e brutale: isolati, ché ogni collettività è di per sé un crimine, accetta remissivo la tua vita, ché tanto non cambierà, combatti la tua guerra tra poveri, nella simmetria delle tue condizioni, ché ogni sguardo verso l’alto, di rabbia o di assalto al cielo, è già peccato, ogni amicizia è moneta sonante di un mercato, e raggiro. Si pensa spesso che la repressione vinca sempre, o che abbia vinto in questo caso, e mai che la forza accumulata da un’esperienza di lotta abbia già vinto in qualche misura, che abbia aperto crepe di vite altre, da allargare, da curare, da replicare. Da rompere nuovamente una volta rimarginate, una volta rimarginalizzate. 

“Hic manebimus optime”, qui vivremo bene: un sogno concreto in cui risiede tutta la nostra potenza, e tutta la loro paura. Infilandosi da un vicoletto che partiva da piazza Tirana- la piazza degli scioperi dei tramvieri, dei comizi dei “cinesi” che ruppero con il Pci, dei bar dove Jannacci cantava e Vallanzasca ordinava al tavolo- si sbucava su via Manzano, sulla Base di Solidarietà Popolare: le vecchie case popolari, gravide di muffa, amianto, umanità schiacciata ai margini, erano incorniciate dalle lamiere saldate alle finestre e alle porte dopo gli sgomberi, e da quelle che cingevano il cantiere perpetuo della nuova linea della metropolitana. In una città con più di diecimila case vuote e circa ventitremila famiglie senza casa, con una forbice spaventosa tra i flussi di denaro del centro e quelli di disperazione delle periferie, il destino del quartiere era scritto: la grande opera pronta a moltiplicare il valore degli immobili e a restituire con la sua incompiutezza un senso di precarietà di vita, gli interventi mirati dell’archistar Renzo Piano, oggi per dare lustro ai safari della sinistra bene nei quartieri (ancora per poco) popolari, e domani per fornire un argomento di conversazione ai nuovi padroni di casa, un masterplan di riqualificazione da più di un miliardo di euro, tanti finanziatori quante le teste dell’idra capitalista, la consueta tornata di arresti, sgomberi, infami, camionette ai margini delle strade. Il volto proteiforme degli assi di colonialismo, estrazione di valore e dominio, agiti dalla metropoli sui territori, e sulle vite. Eppure. Su una di quelle lamiere volto di invasore campeggiava una scritta, che accoglieva chi batteva quelle strade con il volto amico dell’oppresso, e non con quello straniero dei caschi blu. Libera Repubblica del Giambellino. 

Chiamiamo comunismo il movimento che abolisce lo stato di cose presenti, chiamiamo solidarietà la forza travolgente che ci spinge a prendere in mano la nostra vita, a rifiutare l’immagine di debolezza e vergogna che ci viene inculcata, ad aiutare chi ci sta vicino e ad organizzarci per un mondo più giusto. E come altro possiamo chiamare anni di vita altra, di relazioni che liberano e si liberano, di autorganizzazione solidale? Come altro possiamo chiamare gli ambulatori popolari, le assemblee delle donne, la costruzione qui ed ora di un modo diverso di vivere e di affrontare il presente, l’orgoglio e il riscatto di decine, centinaia di vite che si vogliono schiacciate dal lavoro, dal razzismo, dal dominio? Come altro possiamo chiamare le nostre vittorie e le nostre sconfitte, che spesso prendiamo meno sul serio di quanto faccia chi, con una toga, una divisa o un completo, vuole distruggere tutto ciò che mette a repentaglio, sia pur minimamente, sia pur in potenza, il suo privilegio, il suo potere? Quella scritta campeggia tutt’ora, adesso che le case lamierate del Giambellino sono aumentate, che il palazzo che ospitava la Base di Solidarietà popolare è stato abbattuto, che un tribunale ha rovesciato il suo carico di odio e vendetta: non è un caso. Non facciamolo essere un caso.

Solidarietà ed amore a tuttə lə compagnə condannatə. Il Giambellino è morto, evviva il Giambellino!

“Fine di una storia. La storia continua”. 

Il commento sulla sentenza dell’avvocato della difesa Eugenio Losco ai microfoni di Radio Onda d’Urto

 

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