di Cassazione a Roma in attesa della sentenza lo scorso gennaio
Dante De Angelis
Abbiamo atteso otto mesi per leggere le motivazioni della sentenza che la Corte di Cassazione aveva pronunciato l’8 gennaio scorso, in merito al processo per la strage di Viareggio – quando il deragliamento in stazione di una cisterna di Gpl causò 32 morti e la distruzione tra le fiamme di un intero quartiere. Una sentenza che fa arretrare di cinquant’anni la cultura giuridica in tema di sicurezza del lavoro, e non solo nelle ferrovie. Un atto di quasi seicento pagine che richiederà una lettura approfondita e sistematica ma che già presenta poche luci e moltissime ombre. Le motivazioni delle condanne confermano sostanzialmente le accuse dei primi due gradi di giudizio riguardo le responsabilità, a vario titolo, di ciascun imputato per le lacune della manutenzione e dei controlli.
Ma il fulcro della sentenza ruota intorno alla mancata applicazione delle aggravanti per la violazione
La Cassazione riconosce ingiustamente uno status speciale al settore ferroviario, sebbene esso sia ormai da oltre venti anni un ambito produttivo di natura industriale ’normale’ perché aperto al libero mercato, in cui vi sono rischi specifici così come vi sono nei settori chimico, edilizio, metalmeccanico, minerario, eccetera, per i quali in nessun procedimento penale si è mai azzardata una tale distinzione che esentasse tali imprese dal rispetto e dall’applicazione delle norme generali. La disciplina ferroviaria in vigore, di fonte comunitaria, non ha mai esentato il settore dal rispetto del Testo Unico 81/08 – che riunisce la legislazione in materia -, anch’esso di derivazione comunitaria, poiché proprio in premessa, all’articolo 3 recita che esso «si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio».
La questione sarà da valutare con grande attenzione ma la disapplicazione del Testo Unico al settore ferroviario potrebbe configurare una ipotesi di violazione della direttiva comunitaria da cui deriva e si apre lo spazio per un possibile ricorso alla Corte europea.
La negazione del «rischio lavorativo» operata da questo collegio per le attività delle imprese ferroviarie, interpretazione tanto originale quanto inaccettabile, oltre all’articolo 3, urta contro la semplice osservazione sull’origine del rischio, che ha esteso i suoi effetti micidiali oltre i confini della ‘fabbrica’, quindi oltre il convoglio e oltre la palizzata dei binari per allargarsi sulla strada, entrare nelle case e uccidere degli ignari cittadini. Proprio perché il rischio è stato generato dall’attività di impresa riguardante il trasporto di Gpl. La sorte dei macchinisti e del capostazione, salvatisi solo per un caso fortuito dal rogo che ha ucciso le 32 vittime, sta a dimostrare per logica e buon senso che il rischio creato dal sistema ferroviario è intrinsecamente un rischio lavorativo, anzi si potrebbe affermare che la sicurezza ferroviaria è un sottoinsieme della sicurezza del lavoro e che oltre alle norme speciali dedicate, essa deve rispondere a quelle generali applicabili a tutti i settori, con particolare riguardo alla prevenzione.
Una sentenza inevitabilmente lunga e complessa, che su questo specifico aspetto presenta tuttavia un linguaggio particolarmente oscuro a tratti ampolloso e quasi criptico; un gergo giuridico molto spinto che fatica comunque a motivare ragionevolmente la scelta di escludere l’aggravante.
In sintesi siamo di fronte ad una sentenza figlia di una cultura reazionaria di stampo borbonico che riconosce alle imprese ferroviarie una sorta di privilegio rispetto all’obbligo generale di valutare tutti i rischi compresi quelli specifici del trasporto, creando così situazioni di maggior pericolo e una discriminazione tra lavoratori e imprese di diversi settori a danno sia degli stessi addetti che della intera popolazione.
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