Imperialismo e gendarmi sociali.
di Ernesto Screpanti
Nel suo libro sulla globalizzazione [L’imperialismo globale e la grande crisi: L’incerto futuro del capitalismo, Roma 2014; Global Imperialism and the Great Crisis: The Uncertain Future of Capitalism, Monthly Review Press, New York 2014] lei riprende il concetto leninista di “imperialismo” affermando che la natura del capitalismo contemporaneo si basa sul suo carattere multinazionale e liberoscambista, e che in esso le nazioni ricoprono un ruolo di “gendarmi sociali”. Considera questa fase del capitalismo come il suo stadio ultimo, il risultato della natura cosmopolita della produzione che cresce con l’estensione del mercato per mano della borghesia? Vorrei chiederle anche come si confronta con i teorici della Teoria della Dipendenza come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e la loro ricostruzione del sistema-mondo capitalista?
Il concetto di “imperialismo” elaborato da Lenin, Rosa Luxemburg e altri marxisti della seconda e della terza Internazionale era appropriato per l’imperialismo coloniale della fine dell’Ottocento e l’inizio Novecento, un capitalismo con tendenze al monopolio e al protezionismo in cui l’accumulazione internazionale si svolgeva prevalentemente (con la parziale eccezione della Gran Bretagna) entro i confini dell’impero nazionale. La storia ha dimostrato che non era la “fase suprema del capitalismo”. La teoria della dipendenza sviluppata nella seconda metà del Novecento aveva colto le conseguenze del superamento dell’imperialismo coloniale e aveva capito che il dominio e lo sfruttamento imperialista si articolano più in forza della dipendenza economica che dell’assoggettamento politico. Ma i tempi non erano ancora maturi per capire il cambiamento dei ruoli tra Stato e imprese che si sarebbe verificato con la globalizzazione. Sia quella dell’imperialismo coloniale che quella dell’imperialismo post-coloniale erano solo fasi di transizione verso una forma d’accumulazione ancora più cosmopolita, come quella che era stata prevista da Marx. Il capitale si accumula sul “mercato mondiale” travalicando i confini degli Stati e degli
imperi nazionali, e favorisce il libero scambio invece che il protezionismo. I soggetti dell’espansione sono direttamente le imprese multinazionali. Perciò lo chiamo “imperialismo globale delle multinazionali”. In questo sistema i grandi capitalisti non si limitano a dare ordini alle classi politiche della propria nazione, ma cercano di condizionare tutti gli Stati, con le lobby internazionali e i ricatti attivabili con la minaccia delle delocalizzazioni. In forza del libero movimento dei capitali, la competizione oligopolistica tra le imprese determina una competizione politica al ribasso tra gli Stati nazionali. I governi sono spinti ad attuare politiche di dumping sociale, fiscale, normativo e ambientale: ridurre il costo del lavoro, ridurre le tasse alle imprese redistribuendo il carico fiscale sui ceti meno abbienti, privatizzare le imprese pubbliche, tollerare le produzioni inquinanti etc. Gli Stati che non si adeguano sono puniti con rallentamenti della crescita, e quelli che lo fanno devono svolgere al proprio interno una funzione di gendarme sociale. Devono reprimere i movimenti di protesta e rivolta scatenati dalle politiche economiche messe in atto dai governi sotto il ricatto delle multinazionali. Non è vero che non esiste più conflittualità politica tra le nazioni. Ciò che esiste è “un’armonia” del mercato basata su una competizione tra Stati che non è meno spietata (verso le classi sfruttate) di quella economica tra le imprese. Bisogna aggiungere che, al livello globale, gli Stati più grandi (ma ancora soprattutto gli Stati Uniti) svolgono le funzioni di banchiere mondiale e sceriffo mondiale, cioè producono la moneta internazionale e disciplinano militarmente gli “Stati canaglia” che non accettano le leggi del mercato. Gli Stati Uniti, con delle politiche fiscali e monetarie espansive, dovrebbero svolgere anche la funzione di motore dell’accumulazione mondiale, ma hanno cessato di farlo almeno dalla crisi del 2007-9.
2. Oggi sembra che la globalizzazione sia entrata in crisi. Da un lato sta uccidendo la classe media occidentale e dall’altro ha portato all’ascesa dell’Asia, che sta tornando a essere il cuore pulsante del sistema-mondo. Tra una Cina che con la BRI propone la via cinese alla globalizzazione, l’UE che si ristruttura come polo imperialista indipendente e gli USA di Trump, sembra riemergere lo Stato in tutta la sua importanza. Stiamo tornando a una fase policentrica di competizione inter-imperialista in cui lo Stato nazionale giocherà un ruolo chiave?
La crescita economica della Cina è un fenomeno di vecchia data. Oggi continua, ma a ritmi più blandi che nel periodo pre-crisi. Lo stesso discorso vale per la Germania (con l’appendice UE). Dato il loro volume di produzione e l’ampiezza dei loro mercati interni, queste due aree economiche potrebbero rilevare dagli Stati Uniti la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Però non possono farlo perché le loro economie sono fortemente orientate alle esportazioni. Per assolvere quella funzione dovrebbero azzerare i loro surplus commerciali e fare politiche monetarie e fiscali fortemente espansive, cosa che oggi come oggi non sembra plausibile. Né possono svolgere la funzione di banchiere mondiale, visto che gli Stati Uniti lotteranno fino all’ultimo sangue per conservare il Dollar Standard nel sistema dei pagamenti internazionali. Quanto alla funzione di sceriffo mondiale, Macron, il cagnolino della Merkel, continua a provarci come da tradizione gollista, ma solo per rendersi ridicolo. Per di più, le politiche commerciali di Trump stanno avendo successo, quanto meno nel senso di mettere in ginocchio Cina e Germania. Queste politiche configurano un ritorno al mercantilismo statale? Sì, ma è un processo iniziato già all’indomani della crisi. E non sono stati solo gli Stati Uniti a praticare svalutazioni e protezionismo competitivi. L’hanno fatto quasi tutti i grandi paesi, con la conseguenza che il tasso di crescita del PIL mondiale è diminuito. Come strumenti di rilancio della produzione, queste politiche sono controproducenti se le fanno quasi tutti: le importazioni mondiali rallentano e quindi rallentano anche le esportazioni. Ciò significa che la globalizzazione è entrata in crisi? No. Dopo l’avvento di Trump, il pensiero neoliberista ha cominciato il pianto greco prevedendo la fine delle “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione. I nazionalisti invece (di destra e di sinistra) hanno intonato un peana per il ritorno dello Stato alla sua funzione direttiva. Ma l’idea della fine della globalizzazione è un abbaglio. Dal 2008 si è verificato un rallentamento solo della globalizzazione commerciale. Se per globalizzazione s’intende estensione del movimento delle merci, i teorici della fine della globalizzazione hanno in parte ragione (in parte, perché stiamo parlando di rallentamento, non di regresso). Tuttavia, se la globalizzazione è intesa come un processo di crescita dell’imperialismo globale delle multinazionali, si può dire che non c’è stato nessun rallentamento, semmai un’accelerazione. È accaduto che le imprese hanno reagito all’innalzamento delle barriere protezionistiche intensificando i processi d’internazionalizzazione. Oggi le multinazionali si espandono globalmente con le fusioni e le acquisizioni transfrontaliere, la creazione di catene internazionali del valore e lo sviluppo di movimenti di capitale che portano alla continua crescita del numero delle multinazionali stesse. Questa è la globalizzazione produttiva. La crescita degli investimenti esteri di portafoglio invece configura la globalizzazione finanziaria. Ebbene entrambi questi tipi di globalizzazione sono aumentati in modo impressionante dalla crisi del 2007-9. Il tasso di crescita medio annuo del numero delle imprese multinazionali è stato del 2,8% tra il 2000 e il 2005, del 5,3% tra il 2005 e il 2010, ed è saltato alla strabiliante cifra di 43,2% tra il 2010 e il 2015 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati). Nel 1976 le multinazionali erano 11.000, nel 2015 erano diventate 320.000. Ciò è avvenuto nonostante l’aumento del numero di fusioni e acquisizioni transfrontaliere, che è passato da 2.094 nel 1990 a 6.821 nel 2018. Anche gli investimenti diretti esteri e gli investimenti esteri di portafoglio hanno esibito un trend crescente, sebbene con delle diminuzioni negli anni di crisi. Un effetto interessante delle politiche di Trump è stato la flessione temporanea degli investimenti diretti esteri nel periodo 2016-18 come conseguenza dei rimpatri degli utili delle multinazionali americane, un fenomeno che ha contribuito, insieme alle politiche protezionistiche, a innescare l’attuale rallentamento dello sviluppo. Il tasso di crescita del PIL globale, che era del 4,38% nel 2004, è passato a 3,16% nel 2017 e a 3,04% nel 2018. Gli stessi Stati Uniti hanno risentito di questo rallentamento, il tasso di crescita annuo del loro PIL essendo passato dal 3,80% del 2004 al 2,22% del 2017 e all’1,9% del 2018-9. In conclusione, dopo la crisi del 2007-9 c’è stato un risveglio dell’interventismo economico statale, il quale però con le politiche commerciali mercantiliste ha prodotto effetti opposti a quelli che auspicavano i loro fautori, cioè una decelerazione della crescita del commercio estero e del PIL. La globalizzazione commerciale ha rallentato, e le imprese capitalistiche hanno reagito con un soprassalto d’internazionalizzazione che ha fatto aumentare la globalizzazione produttiva e quella finanziaria. La reazione delle multinazionali al nuovo interventismo statale ha generato un effetto sistemico che si è risolto in una punizione per i governi. Il capitale ha bisogno che gli Stati lavorino al suo servizio. Vanno bene quindi i salvataggi delle imprese con i soldi dei contribuenti, le privatizzazioni, le riduzioni del costo del lavoro e delle tasse sulle imprese. Ma se i governi osano ostacolare la “libertà” economica, le decisioni individuali e non coordinate di centinaia di migliaia d’imprese riescono ad attivare la funzione disciplinare che i “mercati” esercitano sui governi. Infine, è vero che stiamo tornando a una fase di competizione imperialistica policentrica? No, semplicemente perché non ce ne siamo mai allontanati. C’era già prima della crisi 2007-9. “L’armonia” dei mercati globali che s’instaura attraverso la competizione oligopolistica delle multinazionali non implica l’armonia delle politiche degli Stati. Conflitti interstatali continueranno a esistere per motivi geopolitici, che sono l’ossessione delle classi politiche nazionali. Ai manager delle multinazionali non gliene frega niente, purché i governi continuino a competere tra loro con le politiche di dumping e a svolgere la funzione di gendarme sociale.
3. Abbiamo detto che la Cina propone la sua via alla globalizzazione con la BRI mentre con altre istituzioni come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e i paesi BRICS piccona l’egemonia del Dollaro e quindi l’ordine mondiale americano. Ritiene possibile nel medio periodo l’entrata ufficiale nel secolo cinese, come pensavano Samir Amin e Giovanni Arrighi, a seguito anche del cambio di modello di sviluppo intrapreso dal PCC, da uno basato sul plusvalore assoluto ad uno centrato sul plusvalore relativo, come dimostra il piano “Made in China 2025”?
L’ascesa della Cina a potenza economica globale è facile da prevedere. Già nel 1903 era stata prevista da John Hobson, il primo grande teorico dell’imperialismo. Oggi tutta l’Asia orientale è diventata una zona di sviluppo economico molto più dinamica dell’area atlantica. E il PIL statunitense misurato in Dollari sarà presto superato da quello Cinese (quello misurato in Parità di Potere d’Acquisto è già stato superato). Quanto all’innovazione tecnologica, attualmente la Cina sta contendendo agli Stati Uniti la posizione di primo paese al mondo per valore delle spese in Ricerca e Sviluppo. Con il piano “Made in China 2025” si propone di acquisire la leadership mondiale nell’innovazione tecnologica e di modernizzare il proprio apparato produttivo sviluppando l’industria 4.0 soprattutto nei settori che producono energie alternative, componenti high tech, robot industriali, strumenti medici avanzati, chip per cellulari, aerei a fusoliera larga, grandi trattori e seminatrici. E non c’è dubbio che abbia la capacità di raggiungere questi obiettivi. Inoltre, con la cosiddetta “Nuova via della seta”, la Cina mira a costruire una rete d’infrastrutture produttive, logistiche e commerciali che la collegano con l’Europa, l’Asia e l’Africa. L’Europa fa gola alla Cina sia perché è un grande mercato di sbocco e sia perché è dotata d’imprese ad alto sviluppo tecnologico in cui le multinazionali cinesi vogliono mettere le mani. In realtà ce le stanno mettendo da tempo: L’Europa è l’area dove si riversa la maggiore quantità degli investimenti diretti esteri cinesi. E sono prevalentemente investimenti del tipo brownfield, cioè quelli che mirano all’acquisizione di quote di proprietà nelle imprese esistenti. Quando questi due progetti saranno stati realizzati, gli Stati Uniti saranno ridotti a una potenza economica marginale, sebbene non nell’innovazione tecnologica. Ci sono comunque due campi in cui la loro egemonia difficilmente potrà essere superata in un futuro prevedibile. Quello militare e quello monetario. Sull’egemonia militare c’è poco da dire. Nessuna potenza nazionale può sfidare militarmente gli Stati Uniti e soppiantarli nella posizione di sceriffo mondiale, almeno per molti decenni avvenire. Su quello monetario, bisogna ricordare che all’indomani della crisi 2007-9 la Cina aveva proposto di sostituire il Dollar standard con una moneta di riserva creata del Fondo Monetario Internazionale, ricevendo delle eleganti pernacchie dagli Stati Uniti e da vari paesi europei. Oggi il principale concorrente del Dollaro come moneta di pagamento e di riserva internazionale è l’Euro, il quale copre poco più di un terzo dei pagamenti internazionali, mentre il Dollaro copre circa il 40%. Inoltre nel 2018 l’Euro costituiva il 20% delle riserve valutarie mondiali, mentre il Dollaro costituiva il 62%. Lo Yen giapponese era al 5,2%, la Sterlina al 4,4, lo Yuan all’1,9%. Quindi tutte le chiacchiere che si stanno facendo sullo Yuan come temibile concorrente del Dollaro sono basate su pure e semplici fantasie. Certo, alla fine le cose potrebbero cambiare, forse con la creazione di una moneta composita in cui sarà più rilevante il peso dell’Euro e meno quello del Dollaro, ma comunque piccolo quello dello Yuan. Potrebbe essere letta anche in questa chiave – diciamo, nella chiave di un’alleanza monetaria anti-dollaro – la crescente attenzione che i cinesi riservano all’Europa.
4. Ad essere messo in discussione ora è anche il modello mercantilista tedesco che ha rovinato il nostro paese. Ritiene possibile un cambio di politica economica da parte tedesca o ci sarà la caccia agli asset dei “fratelli europei” come sembra farci intuire la riforma del MES?
La crisi del modello tedesco di sviluppo trainato dalle esportazioni è uno dei successi di Trump. È stata causata dal rallentamento del commercio mondiale innescato dalle politiche protezioniste americane. Potrebbe essere l’occasione per un cambio dell’orientamento di politica economica del governo tedesco? Se questo si decidesse ad adottare una politica keynesiana di espansione trainata dai consumi interni e dagli aumenti salariali, azzerando il surplus commerciale e mirando alla piena occupazione vera, la locomotiva tedesca potrebbe trainare verso la crescita sostenuta tutta l’Europa, così contribuendo anche a ridimensionare l’ossessione dei debiti pubblici crescenti. Inoltre, contribuirebbe ad aumentare il peso dell’Euro come moneta di pagamento e di riserva internazionale. Il che tra l’altro consentirebbe di mantenere un deficit commerciale. In questo modo l’Europa potrebbe affiancare gli Stati Uniti nel ruolo di banchiere del mondo e sostituirli nel ruolo di motore dell’accumulazione mondiale. Potrebbe farlo insieme alla Cina se anche il governo di questo paese si muovesse decisamente nella direzione delle politiche keynesiane centrate sulla domanda interna (cosa che in parte sta facendo). È uno scenario credibile? Credo di no, e non tanto perché i politici tedeschi di destra e di “sinistra” hanno la mente devastata da ideologie ultra-liberiste. Il punto è che quel tipo di politica non è nell’interesse del grande capitale tedesco ed europeo. L’avvicinamento alla piena occupazione darebbe forza al movimento operaio e riaprirebbe una fase di conflittualità sociale che non solo farebbe aumentare il costo del lavoro togliendo competitività all’industria, ma potrebbe mettere in crisi l’ordine sociale e il dominio politico del capitale, un ordine e un dominio costruiti faticosamente con un ventennio (1975-95) di terrorismo politico, ideologico ed economico. Quanto alla caccia degli asset dei “fratelli europei”, è un processo che va avanti da tempo. Lo stock d’investimenti diretti esteri tedeschi verso l’Europa è più alto di quello verso l’America e di quello verso la Cina. E in buona parte anche questi sono investimenti brownfield. Il capitale tedesco ha approfittato delle difficoltà che le politiche macroeconomiche della Germania hanno causato alle imprese italiane, per fare shopping di controllo societario. E non c’è dubbio che continuerà a farlo. Personalmente tendo a incazzarmi un po’, quasi quanto con Germania-Italia 4-1, quando vengo a sapere che glorie produttive come la Ducati e la Lamborghini sono di proprietà tedesca, e capisco il ritorno di sentimenti nazionalisti perfino a sinistra, anche se non lo condivido. Ora veniamo alla riforma del MES. Non è una buona cosa, innanzitutto perché sarebbe attuata senza che i cittadini siano stati correttamente informati e consultati. Perfino il Parlamento non è stato correttamente informato, e ora è sotto ricatto da parte di un governo che pretende la ratifica di decisioni già prese altrove. E poi ci sono alcuni problemi specifici, che qui posso solo accennare brevemente. 1) Se il governo italiano dovesse far ricorso all’assistenza del MES, limiterebbe la propria capacità di ristrutturare autonomamente il proprio debito con un’operazione di buy out (che farebbe ricadere i costi sugli speculatori). 2) La riforma prevede che un’eventuale ristrutturazione potrebbe essere concessa dalle autorità europee, ma in tal caso è ovvio che le perdite verrebbero messe a carico dei cittadini italiani, magari con un bail in che attinga ai soldi dei risparmiatori. 3) Si prevede come condizione per il salvataggio che il debito sia giudicato sostenibile, il che è molto improbabile per quello italiano. 4) Per renderlo sostenibile potrebbero essere imposte delle politiche fiscali restrittive con aumenti delle tasse, riduzioni della spesa pubblica e privatizzazioni. 5) Il fondo potrebbe finanziare solo una parte del debito e quindi non ridurrebbe la percezione del rischio degli speculatori; semmai, un’eventuale richiesta di assistenza da parte dell’Italia l’aumenterebbe. 6) Infine, per facilitare le contrattazioni ai fini di una ristrutturazione, si prevede un indebolimento delle Clausole di Azione Collettiva che proteggono i creditori da un eventuale default o ridenominazione del debito; questa di per sé sarebbe una cosa positiva in vista di un’eventuale uscita dell’Italia dall’Unione, ma ha l’effetto di aumentare l’incertezza e l’instabilità finanziaria. Sia per questo motivo, sia per quelli accennati nei punti 3-5, il debito pubblico italiano sarebbe percepito dai mercati come più rischioso, con possibile aumento dello spread e della vulnerabilità alla speculazione. Qual è l’interesse della Germania? Molti in quel paese sono contrari all’idea che i debiti pubblici degli altri debbano essere finanziati dai cittadini tedeschi. In realtà il governo Merkel teme che un’eventuale default o l’uscita dall’Unione di un paese fortemente indebitato metta in crisi le banche tedesche (che in questo periodo sono in gravi difficoltà). Allora, se ristrutturazione ci deve essere, meglio che sia pilotata dal MES così che i suoi costi ricadano sui cittadini del paese indebitato. Questo deve essere chiaro: il MES non è nell’interesse dei cittadini della Germania, ma lo è del suo settore finanziario, un’ulteriore conferma del fatto che il governo del paese dominante in Europa lavora al servizio del capitale.
5. Sulla questione europea si è diviso il movimento comunista: tra chi propone una sua riforma come Varoufakis, chi l’uscita dall’UE e il ritorno allo Stato nazionale con la sua sovranità, e chi infine avanza proposte più innovative come l’ALBA euromediterranea di Vasapollo. Lei come si posiziona da comunista in questo dibattito?
Io faccio parte di Eurostop, un gruppo politico che ha individuato nell’Unione Europea uno strumento del nemico di classe dei lavoratori europei. La mia tesi è che l’UE si abbatte e non si cambia. Non può essere riformata in meglio. In peggio sì, ad esempio con la costruzione di un esercito europeo e una politica militarista guidata dalla Francia e dalla Germania. Come strumento di oppressione di classe l’UE funziona molto bene perché è in grado di attuare politiche economiche restrittive senza dover rendere conto a un vero parlamento, mentre non è in grado di recepire istanze sociali provenienti dalla volontà popolare. La proposta di un ALBA mediterranea è stata discussa in Eurostop, di cui fa parte anche Vasapollo. Personalmente la condivido in buona parte. Un’ALBA mediterranea si configurerebbe come un insieme di accordi bilaterali e multilaterali fra le varie nazioni sud-europee, nord-africane e medio-orientali, diciamo, sul tipo di un Mercato Comune arricchito con avanzati obiettivi sociali. Comunque la mia proposta personale è che, se si riuscisse ad abbattere l’UE, si dovrebbe ripartire subito con la creazione di una vera Federazione Europea (con una vera costituzione, un vero parlamento, un vero governo federale e una Banca Centrale responsabile verso il governo) che coinvolgesse inizialmente solo i paesi dell’Europa meridionale. Questa Federazione poi dovrebbe avviare accordi di collaborazione economica, sociale e politica con gli altri paesi mediterranei. Il problema è: come si abbatte l’UE? Non sono dogmatico su questo punto. Qualsiasi occasione, anche una crisi del debito, potrebbe fornire l’innesco di un disfacimento dell’UE, magari con l’uscita di un paese del Nord che non volesse pagare i debiti degli scialacquatori. Oppure l’uscita unilaterale di un paese importante come l’Italia potrebbe costringere all’uscita i suoi principali concorrenti economici innescando il disfacimento. È una visione utopistica? Forse, ma non più di quella che punta a una riforma democratica dell’Unione. Di una cosa comunque sono certo: che nessuna crisi economica può portare all’abbattimento del nemico di classe eurocratico se non c’è il risveglio di un grande movimento anti-capitalista continentale.
6. Lei pubblicò qualche anno fa un libro sul comunismo libertario in cui mette in evidenza la matrice libertaria dei due padri teorici del comunismo [Comunismo libertario: Marx Engels e l’economia politica della liberazione, Manifestolibri, Roma 2007; gratuito su Libertarian Communism: Marx Engels and Political Economy of Freedom, Palgrave Macmillan, Londra 2007]. Che rapporto ha questa matrice teorica con Lenin e il pensiero leninista, da una parte, e dall’altra con quelle correnti marxiste libertarie, penso a Rosa Luxemburg, Paul Mattick e Karl Korsch, che sin dall’inizio dell’esperienza sovietica evidenziarono i limiti dell’azione politica dei bolscevichi?
Rosa Luxemburg individuò quei limiti subito dopo la pubblicazione del Che fare?, e per questo entrò in polemica con Lenin. Comunque, a leggere Stato e Rivoluzione si direbbe che la componente libertaria era presente anche nel marxismo del leader bolscevico. Nel mio libro sostengo che Marx vedeva la rivoluzione proletaria come un processo di liberazione. Peraltro l’interpretazione della storia come un lungo processo di liberazione era presente già in Hegel. In quest’ottica la dittatura del proletariato è intesa come il rovesciamento della dittatura esercitata dalla minoranza borghese negli Stati liberali. Con il suffragio universale la maggioranza degli elettori, costituita da proletari e altre categorie di sfruttati (oggi, un ruolo preminente lo assumono le donne) potrebbe dar vita a un parlamento e un governo che siano espressione della volontà popolare e instaurino una “dittatura della maggioranza” proletaria sulla minoranza borghese. In tal senso, “dittatura del proletariato” non significa altro che applicazione della regola della maggioranza nelle decisioni pubbliche. Tale dittatura, secondo Marx ed Engles, è la “vera democrazia”, e implica: suffragio universale, garanzia di tutte le libertà civili e politiche, votazioni con vincolo di mandato, diritto di revoca del mandato, eutanasia dei politici di professione. Nel mio libro dimostro la validità di questa interpretazione ricostruendo con scrupolosità filologica le teorie di Marx ed Engels. Quanto all’esperienza sovietica, purtroppo non abbiamo avuto l’opportunità di vedere come si sarebbe sviluppata sotto la guida di Lenin, Trockij e altri rivoluzionari comunisti. La presa del potere da parte di Stalin ha trasformato la struttura economia di quel paese in un sistema di capitalismo di Stato che sfruttava e opprimeva gli operai e i contadini ancora più ferocemente dei sistemi a economia di mercato, e la struttura politica in un sistema autocratico e autoritario che è riuscito ad affermarsi solo con l’uccisione di tutti i dirigenti che avevano fatto la rivoluzione. La dottrina ortodossa dello Stato sovietico si chiamava “marxismo-leninismo”, e fu inventata da Stalin (o da un suo ghostwriter) non da Lenin. Questa dottrina ha trasformato la concezione marxiana della dittatura democratica del proletariato in una copertura ideologica della dittatura totalitaria sul proletariato nella forma del dominio di un autoproclamato partito unico del proletariato.
7. Nel libro sembra condividere l’analisi dell’autogestione operaia di Bruno Jossa. Ritengo il suo lavoro estremamente interessante, tuttavia c’è un dubbio che mi fa sorgere l’ipotesi dell’autogestione. Tutto questo discorso a mio avviso rimane ancorato a una fase difensiva, al massimo permette a un gruppo di lavoratori di assumere la proprietà giuridica dei mezzi di produzione della propria fabbrica, ma divide la classe operaia in tante unità quante sono le fabbriche autogestite, collegate attraverso il mercato. L’uso dei mezzi di produzione è quindi ancora dominato da rapporti di mercato che giocoforza influenzano il funzionamento della fabbrica autogestita in termini di lavoro e obiettivi, per esempio, riproducendo la divisione sociale e tecnica del lavoro per mezzo dell’elezione di dirigenti, che automaticamente diventano i direttori della fabbrica. C’è il rischio di rinchiudere l’orizzonte dell’operaio alla sua singola azienda invece di estendere la lotta per un radicale superamento dei rapporti di mercato. Questa riflessione si richiama alle critiche mosse al modello autogestionario da Charles Bettelheim. Lei come risolverebbe la contraddizione?
Viviamo in un mondo in cui le risorse sono scarse. E questo è un dato storico ineliminabile. Anche in un futuro lontano in cui gran parte del lavoro sarebbe svolto dai robot, ci sarà scarsità delle risorse, se non altro perché il progresso tecnico fa aumentare i desideri degli individui insieme alla capacità di soddisfarli, un fenomeno che Marx giudicava positivamente. Se non ci fosse scarsità, se vivessimo nel paese di Cuccagna, non ci sarebbe bisogno della rivoluzione. Il comunismo, inteso come capacità di soddisfare i bisogni di tutti indipendentemente dalle capacità lavorative di ognuno, sarebbe un fatto naturale. In un’economia di scarsità i beni prodotti costano, e chi li produce deve ricevere un reddito che lo metta in condizione di produrre. Possono essere offerti sul mercato o distribuiti da un organismo centralizzato. La teoria economica ci ha insegnato che il mercato costituisce il miglior sistema di diffusione delle informazioni sui beni privati. Questa tesi fu proposta da Hayek, un ultra-liberale che ha prodotto una grande quantità di scemenze ma anche un’idea valida, quella appunto del ruolo informativo dei mercati. Tuttavia il mercato non funziona, né come sistema di allocazione soddisfacente delle risorse né come sistema di diffusione efficiente delle informazioni, per una gran quantità di beni: i beni pubblici (e.g. le strade), le risorse comuni (e.g. i boschi), i beni meritori (e.g. l’istruzione) e i beni prodotti in condizioni di monopolio naturale (e.g. la distribuzione dell’acqua). Questi beni vanno prodotti pubblicamente, distribuiti gratis (o a prezzo politico) “a ciascuno secondo i suoi bisogni” e finanziati in base al principio “da ciascuno secondo la sua capacità”. I beni privati invece (e.g. le scarpe) non possono essere allocati efficientemente dal settore pubblico, come ha dimostrato l’Unione Sovietica. Peraltro il comunismo, secondo un’altra definizione di Marx, è “l’autogoverno dei produttori” ovvero “lavoro libero e associato”. Si può costruire con l’autogestione. Le cooperative di produzione sono governate dai lavoratori. Quelle più grandi sono amministrate da manager responsabili verso i lavoratori e da essi nominati e controllati. E operano sul mercato. Ovviamente poi bisogna che il parlamento emani leggi che regolino il funzionamento del mercato, in modo da evitare che alcune imprese sfruttino i consumatori o i lavoratori di altre imprese instaurando rapporti di potere oligopolistico. Ci sono altri sistemi distributivi, oltre allo Stato e il mercato? Sì, c’è l’economia del dono, che produce beneficenza. Già nei sistemi capitalistici questo tipo di economia è attivo nel cosiddetto “terzo settore”. Può funzionare se esiste un sovrappiù di tempo libero, di modo che alcuni individui possano dedicare del lavoro volontario alla beneficenza. Con il progresso tecnico questo sovrappiù potrebbe tendere ad aumentare. Quindi un sistema economico comunista dovrebbe essere basato su tre settori, Stato, mercato e terzo settore, in proporzioni dipendenti dal progresso tecnico e dalle scelte pubbliche. Quale sarebbe la differenza di questo sistema con uno capitalistico avanzato? Semplice: nel comunismo si realizza “l’autogoverno dei produttori”, e si elimina il lavoro salariato, lo sfruttamento economico e l’oppressione politica.
8. Dunque anche lei ritiene inevitabile l’uso del mercato come strumento di calcolo economico? E come si confronta con i teorici del socialismo di mercato come Oskar Lange o con il modello dell’autogestione operaia implementato in Jugoslavia da Tito?
I modelli di socialismo di mercato alla Lange-Lerner sono piuttosto deboli dal punto di vista teorico, poiché sono basati su una teoria economica fasulla come quella marginalista. Deve essere chiaro che il mercato non è mai in equilibrio e non è un sistema di allocazione efficiente delle risorse come secondo i modelli di equilibrio economico generale, e quindi non è una base solida per l’efficienza del “calcolo economico”. Al più può essere un sistema allocativo soddisfacente, e comunque, nella produzione dei beni privati, sarà più soddisfacente della pianificazione centralizzata. Ho già accennato al fatto che la superiorità del mercato risiede nella sua capacità di diffondere le informazioni. Il reazionario Hayek, su questo punto, ha avuto la vista più lunga dei socialisti Lange e Lerner. Quanto all’autogestione di tipo jugoslavo, non ha funzionato principalmente perché la collettività dei lavoratori di un’impresa non era proprietaria dei mezzi di produzione (appartenenti allo Stato), e ciò ha determinato l’attivazione di asimmetrie informative che ha indotto i lavoratori a usare il capitale tecnico in modo opportunistico. Per evitare questa difficoltà bisogna che la struttura proprietaria sia articolata, che ci sia una componente pubblica ma anche una componente di proprietà comune detenuta dal collettivo dei soci lavoratori.
9. Nel suo ultimo libro, dedicato alla ricostruzione della teoria marxiana del valore, lei fa il punto sui più recenti contributi scientifici fornendo un’interpretazione originale della teoria dello sfruttamento [Labour and Value: Rethinking Marx’s Theory of Exploitation, Open Book Publishers, Cambridge 2019]. Quali sono le novità più rilevanti emerse nei dibattiti contemporanei?
Sulla teoria del valore, l’unica novità interessante emersa negli ultimi quarant’anni è la cosiddetta New Interpretation, avanzata da Duménil, Foley e altri. Consiste nella proposta di un particolare numerario per i prezzi di produzione. Se questi sono misurati in unità di prodotto medio per addetto, risulta che il reddito nazionale sarà uguale al livello dell’occupazione, cosicché la sua distribuzione in profitti e salari può essere espressa in termini di divisione in pluslavoro e lavoro necessario, e il saggio di sfruttamento può esistere misurato come rapporto tra queste due quantità di lavoro. Si tratta di un valido approccio single system, nel senso che è basato sull’unico sistema di valutazione corretto, quello costituito dai prezzi di produzione, e fa a meno del sistema basato sul lavoro contenuto. Questa semplice “innovazione”, che peraltro era stata sia pur ellitticamente proposta da Sraffa nel 1960, ha permesso ai marxisti di continuare a parlare di sfruttamento anche dopo aver rinunciato alla teoria del valore-lavoro. Nel mio libro affronto anche la questione della definizione del lavoro astratto, e dimostro l’erroneità delle interpretazioni che lo riducono a una grandezza “naturale”. In Marx il lavoro astratto è una realtà oggettiva determinata dai rapporti sociali, ed è storicamente determinata. Per la precisione, il lavoro astratto emerge in seguito alla costituzione del lavoro salariato in forza di un contratto di lavoro con cui l’operaio assume un obbligo di obbedienza verso il datore. Con tale rapporto sociale si istituisce la subordinazione del lavoratore al capitalista e la sussunzione delle sue capacità lavorative sotto il capitale. Il lavoro astratto non è altro che il tempo di lavoro sotto il comando del capitalista. La mia rilettura parte da un rifiuto dell’approccio normativo alla teoria dello sfruttamento. Marx non mira a impartire una condanna morale al capitalismo e sostiene, contro i socialisti utopisti, che il salario “giusto” in un’economia capitalistica è quello determinato nel mercato competitivo in condizioni di scambio uguale. Marx mira a spiegare scientificamente lo sfruttamento sulla base dalla conoscenza delle condizioni sociali di produzione: il potere di comando nel processo produttivo, potere che la subordinazione e la sussunzione del lavoro assegnano al capitalista, è la leva che lo mette in grado di costringere i lavoratori a erogare il pluslavoro da cui deriva il profitto.
10. Nei dibattiti televisivi e sui giornali il marginalismo sembra diventato senso comune da molti anni. Quanto è forte la sua egemonia nel mondo accademico? Ritiene utile l’opera di un grande economista come Sraffa ma anche di antropologi come Mauss, con i suoi studi sul dono? Tali teorie, insieme a quella di Marx, possono essere usate per condurre una controffensiva ideologica contro le teorie neoclassiche spacciate per scienza esatta?
È noto che le scienze sociali sono impregnate d’ideologia. Tutte cercano di spiegare certi fenomeni da un particolare punto di vista. Ciò non toglie che possano contribuire alla conoscenza scientifica. Il marginalismo non è altro che un’ideologia borghese espressa con rigore analitico. La sua egemonia nel mondo accademico e nell’opinione pubblica è pressoché totale, e trasmette la credenza che un’economia di mercato è il migliore dei mondi possibili, senza inefficienze, senza sfruttamento e senza oppressione. Eppure anche alcuni economisti marginalisti ci hanno fatto capire cose importanti. I marxisti non devono aver paura di attingere ai contributi di economisti liberali e perfino conservatori. Se Marx lo aveva fatto con il liberale Smith e l’ultra-liberale Ricardo, perché oggi non possiamo farlo con Ostrom, Arrow, Samuelson, Sen, Schumpeter, Polanyi, Keynes? E con antropologi e sociologi come Maus, Weber, Simmel, Boudon, Bauman? Tuttavia Sraffa è un’altra cosa. Era stretto amico di Gramsci, con cui aveva collaborato all’epoca dell’Ordine Nuovo, e con cui, quando era in prigione, manteneva i contatti su direttiva del Partito Comunista. I due più grandi teorici di tutta la storia del marxismo sono italiani. Merito del fascismo, che ha chiuso l’uno in una prigione letale e ha costretto l’altro a chiudersi in una gabbia dorata, mettendoli così in condizione di dedicarsi anima e corpo alla produzione scientifica marxista, un po’ come quando la dittatura medicea di Firenze costrinse Machiavelli a chiudersi nel suo studio di esiliato a S. Andrea in Percussina, dove produsse contributi fondamentali di scienza politica. È plausibile che la teoria di Sraffa, magari insieme a quella post-keynesiana, possa scalzare l’egemonia neoclassica? No, finché il mondo sarà dominato dal capitale. Le teorie sono prodotte dagli scienziati, le egemonie ideologiche sono determinate dal potere reale, alla costruzione e al consolidamento del quale contribuiscono.
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