I paesi imperialisti, compreso
quello italiano, hanno distrutto la Libia, rendendolo un paese nelle mani di bande
armate, senza un vero governo centrale. L’imperialismo italiano, tramite il governo
Gentiloni e il suo attivissimo ministro degli Interni Minniti, considerano la Libia
“terra di conquista” per le materie prime come petrolio e gas ma anche per proiettare
“la nostra profondità strategica in Africa” come dice in un’intervista il
viceministro degli Esteri Mario Giro che aggiunge tra l’altro: “Le priorità del
nostro paese [intende dell’imperialismo italiano, ndr] sono la Libia e il suo
retroterra strategico…”
E va subito in fumo, quindi, ogni
parola sui migranti, sui “successi della politica italiana” e menzogne varie per
cercare di ingannare e tenere buona l’opinione pubblica. Chiacchiere smentite ancora
una volta per esempio dall’ultimo dossier dell’Espresso che riportiamo in
fondo:
“In questa parte della Libia non ci sono stati cambiamenti, degli
accordi con l’Europa abbiamo solo sentito parlare ma gli effetti qui non sono
arrivati… I capannoni di Garabulli
sono pieni oggi come lo erano due mesi fa.”
“Dalle coste di Garabulli dieci
giorni fa è partito un barcone, sovraffollato. È affondato a poche miglia dalla
costa, centoquaranta persone sono state portate indietro dalla guardia costiera
arrivata ore dopo da Tripoli, i corpi di quelli che non ce l’hanno fatta - almeno trenta – sono stati chiusi in buste
bianche e trasportati nella capitale. Trenta buste senza nome. Trenta morti
senza identità…”
Questo è tra i tanti “risultati
straordinari” di Gentiloni!
“Gentiloni ha espresso soddisfazione per quello che ha definito un ‘risultato
straordinario’: il
crollo, in cinque mesi, del numero dei migranti irregolari verso l’Italia e per l’aumento significativo dei rimpatri volontari. Eppure in Libia si continua a partire e morire annegati, e molti di quelli che scelgono di tornare a casa lo fanno dopo aver subito mesi di ricatti, abusi e violenze…”
crollo, in cinque mesi, del numero dei migranti irregolari verso l’Italia e per l’aumento significativo dei rimpatri volontari. Eppure in Libia si continua a partire e morire annegati, e molti di quelli che scelgono di tornare a casa lo fanno dopo aver subito mesi di ricatti, abusi e violenze…”
Qui uno dei tanti articoli del
blog:
http://proletaricomunisti.blogspot.it/2017/07/pc-15-luglio-la-partita-cruciale-del.html
***
I migranti, la mia merce
Ibrahim, 32 anni, trafficante di
uomini, racconta all’Espresso la filiera, gli orrori e le complicità del suo
business
“La metà della gente, qui vive di questo business, non è cambiato
niente”.
Ibrahim ha trentadue anni, è laureato
in ingegneria civile e vive a Garabulli, città costiera sessanta chilometri a
est di Tripoli. È alto, snello. Ha il volto sbarbato. Indossa una felpa alla
moda, le scarpe firmate, ci tiene a mostrare l’ultimo modello di tablet che ha
in macchina. Ostenta le sue possibilità economiche. Vuole comprare una casa in Tunisia,
dice. E una anche in Turchia.
Ibrahim, è ricco. Ibrahim è un
trafficante di uomini. “Ho iniziato solo per soldi. Questa è la sola ragione.
All’inizio svolgevo le mansioni minori, procuravo i motori per i gommoni oppure
trasportavo i migranti dalle campagne alle spiagge di notte e il capo mi
pagava. Poi ho capito tutti i meccanismi e ho creato il mio giro. Ci sono dalle
cinque alle dieci persone che lavorano per me, dipende dal flusso di gente che
parte, dalle condizioni del mare. Da tante cose”.
Ibrahim parla seduto a terra,
all’interno di una costruzione di cemento nella campagna di Garabulli. Ce ne
sono decine così. “Le più piccole servono per chi è del giro, per chi deve
organizzare le partenze, le più grandi – i capannoni – servono per tenere i
migranti prima del viaggio”. Nella sua stanza ci sono dei cuscini, un
televisore, una tanica d’acqua mezza vuota. Ibrahim spiega che è qui che
aspetta i suoi ragazzi di notte quando arrivano per trasportare i migranti dal
capannone di fronte a noi alle spiagge. Il capannone ha le grate alle finestre.
I lucchetti alla porta.
“In questa parte della Libia non
ci sono stati cambiamenti, degli accordi con l’Europa abbiamo solo sentito
parlare ma gli effetti qui non sono arrivati per fortuna, continuano ad
arrivare uomini e donne dal Sud, si fermano a Beni Walid, i ragazzi da Beni
Walid li trasportano qui e tutto prosegue come sempre. I capannoni di Garabulli
sono pieni oggi come lo erano due mesi fa.”
Ibrahim ha il suo listino prezzi,
come tutti. Un “biglietto” per la traversata organizzata da lui costa “almeno
cinquecento dollari”. Poi – precisa – “il prezzo aumenta se vuoi scegliere il
posto più sicuro sui barconi di legno. Il posto sul gommone invece è uguale per
tutti, e si riempiono finché si può, ottanta, cento persone. Quando il mare è
piatto anche centoventi”. I gommoni costano ai trafficanti circa 20 mila dinari
libici, che al cambio attuale del mercato nero (un euro vale undici dinari)
corrisponde a circa 2 mila euro. Senza motore. I motori si “procurano”, al
porto o dai pescatori. Spesso sotto gli occhi inermi della guardia costiera di
zona. Dalle coste di Garabulli dieci giorni fa è partito un barcone, sovraffollato.
È affondato a poche miglia dalla costa, centoquaranta persone sono state
portate indietro dalla guardia costiera arrivata ore dopo da Tripoli, i corpi
di quelli che non ce l’hanno fatta - almeno trenta – sono stati chiusi in buste
bianche e trasportati nella capitale. Trenta buste senza nome. Trenta morti
senza identità. “È un rischio, certo, a volte vengono catturati, a volte
annegano, ma ne sono consapevoli. Io organizzo solo i gommoni, non ho altre responsabilità”.
Ibrahim ci conduce con un 4x4
verso le spiagge delle partenze, attraversa le dune seguendo sentieri già
tracciati da centinaia di viaggi sempre uguali, dai capannoni al mare “di notte
li portiamo qui e li lasciamo ad aspettare nel bosco mentre prepariamo i
gommoni” dice, indicando alberi e cespugli. I sentieri portano alle anse vicino
al grande faro di Garabulli.
Dalla destra del faro partono i
migranti, sulla sabbia ci sono resti di scarpe, ciabatte, borse. Le ultime cose
lasciate prima di partire o quelle arrivate sulla sabbia dopo l’ultimo naufragio.
Alla sinistra del faro c’è la sede della guardia costiera di zona. Che però non
ha mezzi. Nemmeno un gommone per controllare le coste. L’unico che c’era giace,
distrutto, nel cortile antistante. Dalle spiagge da cui partono i gommoni si
vede la piccola sede della guardia costiera. Alle spalle dell’edificio sono
sepolti decine di corpi di chi non ce l’ha fatta. “Hanno fatto una buca con una
ruspa e li hanno buttati lì dentro, non sapevano dove metterli”, dice Ibrahim,
senza emozione. Non una targa, non un nome. Nulla a indicare che quel tratto di
terra ospiti i corpi di uomini, donne e bambini morti in mare.
Intorno alla sede della guardia costiera
si muovono tutte le jeep dei trafficanti, senza targhe, Ibrahim le indica una
per una. Sa a quali gruppi appartengano, sa chi sta organizzando i prossimi
viaggi. Uno degli autisti di Ibrahim ha ventinove anni, una moglie e due figli
piccoli. Fino a un anno e mezzo fa era un insegnante, lavorava a Tajoura,
sobborgo della capitale. Poi il governo ha cominciato a non pagare gli stipendi
ai dipendenti pubblici, il contante è diventato merce rara e il giovane,
Khaled, non potendo lasciare il paese, ha deciso di accettare la proposta di
Ibrahim: 300 dinari libici per ogni viaggio da Beni Walid a Garabulli. Tre,
quattro migranti a viaggio. Così Khaled, giovane insegnante di matematica senza
stipendio e senza prospettive, è diventato parte dell’unico ingranaggio che in
Libia continua a garantire un flusso ininterrotto di denaro contante: il
traffico di uomini.
“I ragazzi mi costano poco”,
spiega Ibrahim, “e ce ne sono tanti che mi chiedono di lavorare. Qui in Libia
non c’è lavoro, non ci sono progetti, non ci sono investimenti, i giovani come me
non sanno cosa fare, organizzare i viaggi degli africani è la cosa più
semplice”. Li chiama “africani” Ibrahim, i migranti per cui organizza i
gommoni, come se lui e quei coetanei in fuga da fame e da guerre, quei coetanei
con la pelle di un altro colore appartenessero a due continenti diversi.
Per i migranti in fuga la Libia
oggi è un inferno eppure il paese nordafricano per decenni ha rappresentato la
meta di un’altra migrazione, quella lavorativa. Prima del 2011 i migranti
impiegati ufficialmente nell’economia libica, ricca e in espansione, erano
quasi un milione su una popolazione complessiva di poco più di sei milioni.
Secondo Foreign Policy se a quella cifra si uniscono quelli privi di documenti,
i migranti lavoratori in Libia prima della rivoluzione del 2011 raggiungevano i
due milioni e mezzo, cioè un terzo degli abitanti del paese.
Oggi sulle cifre dei migranti
presenti in Liba è difficile fare chiarezza. Il presidente della Commissione
africana, il ciadiano Mahamat Moussa Faki, al termine del vertice tra Unione
africana e Ue ad Abidjan la settimana scorsa, ha dichiarato che nei centri di detenzione
libici ci sarebbero tra i 400 mila e i 700 mila migranti.
È proprio sul supporto e la
ridefinizione dei centri di detenzione che si giocano parte delle relazioni
diplomatiche tra Europa (Italia in particolare) e il governo libico di Fayez al
Sarraj. Negli ultimi mesi il dipartimento anti-immigrazione clandestina del
Ministero dell’Interno libico ha chiuso alcuni centri di detenzione per aprirne
di nuovi, apparentemente più vivibili. In quello di Tajoura, periferia est di
Tripoli – che contiene più di mille persone – c’è l’aria condizionata e sono
state ridipinte le pareti. Ma le porte restano chiuse da lucchetti, i migranti
dormono su materassi buttati a terra e il centro resta comunque una prigione
controllata dalle milizie armate. È il problema principale che Sarraj sa di
dover affrontare.
A Tajoura comanda la potente
milizia del giovane signore della guerra Haytem Tajouri: la milizia è fedele al
governo Sarraj ma sarebbe più corretto sostenere che il governo Sarraj è
vincolato dalla protezione di questi gruppi che dispongono dello strumento di
potere più pericoloso e ricattatorio: le armi. Sono le stesse milizie a poter
decidere arbitrariamente se il personale delle organizzazioni locali possa
entrare e uscire dai centri di detenzione in quali centri possano operare
volontari e personale medico.
Il centro di detenzione di
Gharian, ottanta chilometri a Sud di Tripoli, conterebbe a oggi più di
diecimila persone. La maggior parte delle quali trasportate lì dopo la guerra
di Sabratha di inizio settembre che ha portato alla luce decine di centri di
detenzione illegali in cui il clan Dabashi nascondeva i migranti in attesa
delle partenze con la complicità di parte della guarda costiera di zona.
Per le organizzazioni locali ottenere
l’accesso ai centri è un percorso a ostacoli nella corruzione dilagante degli
uffici libici, nelle connivenze tra militari e istituzioni. “Non sappiamo come
fare”, dice Ahmed, ventisettenne di Tripoli che lavora per un Ong locale,
“dobbiamo entrare nei centri di detenzione per valutare le condizioni in cui
vivono i migranti, portare loro dei questionari, fare dei censimenti e tutto
questo al momento non ci è possibile. Siamo in attesa dell’autorizzazione del
Ministero dell’Interno che però al momento sembra garantire l’accesso solo a organizzazioni
amiche”.
Ahmed racconta come dopo il
servizio della Cnn che ha mostrato un’asta di migranti provocando un’ondata di indignazione
in tutto il mondo, il controllo sull’accesso ai centri di detenzione sia
diventato capillare al punto che pochi giorni fa al personale locale di Iom è
stato impedito l’accesso ai tre centri di Tripoli.
“Ci è impossibile censire la presenza
dei migranti”, continua Ahmed, “e la nostra sensazione è che negli spostamenti
da un centro a un altro si stiano perdendo le tracce di decine di persone, cedute,
vendute, rapite. Nessuno può dirlo. Ci sono dei funzionari del Ministero dell’Interno
che gestiscono parte del business delle partenze a Ovest di Tripoli. È loro interesse
non perdere controllo sulla ‘merce’”. I migranti che vivono in Libia nelle
baraccopoli nascoste nelle periferie delle città sono migliaia, vivono in
stanze di cemento, dormono in cinque, dieci in una stanza, non escono mai se
non per lavorare. Sfruttati dai libici.
John ha ventiquattro anni, è
arrivato dal Ghana un anno e otto mesi fa. Voleva attraversare il mare e raggiungere
l’Europa. È stato catturato dalla guardia costiera libica e da allora è
iniziato il suo inferno.
“Sono stato spostato in tre
prigioni, diverse. Dopo che mi hanno catturato mi hanno portato in una prigione
a Tripoli. Poi una notte è entrato un gruppo di ragazzi armati. Hanno preso me
e altre cinquanta persone con la forza e ci hanno portato in un capannone dove
siamo rimasti per settimane. Ci picchiavano ogni giorno, non avevamo acqua a
sufficienza, né cibo. Se avessi visto il mio corpo non mi avresti riconosciuto,
ero scheletrico. I libici non pensano a noi come delle persone, pensano a noi
come a degli oggetti. Non conta la nostra vita, noi neri contiamo solo quando devono
venderci o ricattarci. Ora siamo qui e può entrare chiunque, portarci via e
chiedere soldi alle nostre famiglie per liberarci. Gli uomini valgono duemila
dinari, le donne tremila. Le donne incinte fino a quattromila”.
John ha subito violenze finché la
sua famiglia non è riuscita a mandare del denaro alla milizia che lo aveva
rapito, 1.500 dollari. Da allora, da quando i suoi familiari hanno pagato il
riscatto, vive in una baraccopoli a est di Tripoli.
John avrebbe voluto arrivare in Europa.
Oggi invece vorrebbe solo tornare a casa. “Non ho smesso di desiderare una vita
migliore per me. Ma la Libia è un inferno, da qui voglio solo scappare ma non
so come fare”.
Durante il vertice di Abidjan il
premier Paolo Gentiloni ha espresso soddisfazione per quello che ha definito un
“risultato straordinario”: il crollo, in cinque mesi, del numero dei migranti irregolari
verso l’Italia e per l’aumento significativo dei rimpatri volontari. Eppure in
Libia si continua a partire e morire annegati, e molti di quelli che scelgono
di tornare a casa lo fanno dopo aver subito mesi di ricatti, abusi e violenze.
Lo fanno perché dopo aver vissuto
in Libia preferiscono tornare ad affrontare la fame da cui scappavano. John si
addormenta e si sveglia impaurito ogni giorno. “Ci dobbiamo difendere dalla
polizia, dagli Asma boys, dalle guardie delle prigioni. Chiunque può catturarti
e vederti. Stare qui è una scommessa, come attraversare il mare. Puoi vivere o
morire. Io sono scappato dalla povertà ma è meglio la povertà di questo
inferno”.
L’Espresso
10 dicembre ’17
Nessun commento:
Posta un commento