domenica 10 aprile 2011

pc 10 aprile - COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE SUL PROCESSO P. DORIGO

La sentenza del 4 aprile n.113-2011, depositata il 7 aprile, data casualmente significativa nella storia giudiziaria italiana, suona come una beffa al potere falsamente garantista del Presidente del Consiglio.
La Presidenza del Consiglio infatti nel 2010 si era espressa contro il ricorso dei difensori di Paolo Dorigo, il compagno nostro militante, conosciuto alle cronache e spacciato per lunghi anni come “brigatista rosso”, per la sola condotta di rifiuto della falsa dialettica processuale di un processo liberticida ed emergenziale, quello per l'attentato ai dormitori della base aerea militare americana di Aviano del 1993. Berlusconi, che paventa ancora una volta, tra bunga bunga ed attacchi al diritto del lavoro, modifiche alla Costituzione che ancora difende dei principi di equità sociale e di diritto dei cittadini e dei lavoratori, da una parte cavilla modifiche ai codici processuali, dall'altra quando il diritto non riguarda i suoi processi ma quelli dei rivoluzionari, invoca leggi d'emergenza.
Tuttavia gli argomenti della Avvocatura dello Stato monopolizzata dalla Presidenza del Consiglio, non hanno trovato accoglienza dalla Corte Costituzionale. I loro argomenti, ripresi anche e non a caso dal Sole 24 ore, si fondavano sullo “spacciare” l'argomentazione del diritto alla revisione allorquando una Corte europea boccia un processo italiano, come se si trattasse di un “quarto giudizio”. E' evidente, nel momento storico in cui la borghesia mafiosa a guida Berlusconiana, argomenta di semplificare i processi e di ridurli a puro mercimonio tra il potere di chi può pagarsi enormi spese difensive e la debolezza di chi può solo assurgere al gratuito patrocinio, il riferimento al “quarto giudizio” come tentativo liberticida, proprio da parte di chi si è proposto ridicolmente in passato come portatore di “libertà” e più recentemente, come giustiziere di pubblici ministeri scomodi. Infatti la Consulta ha seccamente liquidato tale argomento, che eludeva le questioni giuridiche, e tentava una mossa conservatoria delle norme, per impedire il nuovo processo a Paolo.
Il ricorso alla Corte Costituzionale, che già si era espressa, pur ammettendo il diritto alla “revisione”, contro l'istanza, a causa del vuoto legislativo nei casi “retroattivi” (Paolo era stato condannato definitivamente dalla Cassazione nel 1996, ben prima delle nuove leggi che avevano di fatto bocciato le “eccezioni” nei confronti del diritto processuale, per i reati di “terrorismo” e di mafia), verteva infatti sull'assurdo giuridico, non solo specifico (le nuove leggi, comprese le modifiche all'art.114 della Costituzione, erano sorte proprio dal suo ricorso alla Corte di Strasburgo, accolto da questa nel 1998), ma anche complessivo: la sentenza contro Paolo era sospesa dalla Cassazione sin dal dicembre 2006, la quale chiedeva la revisione della sua posizione processuale, ma Paolo non poteva ottenerla a causa di un vuoto legislativo. Va detto anche che il compagno aveva anche rifiutato la ipocrita proposta di “grazia” del ministro leghista alla giustizia nel 2004, durante un periodo di lunghe lotte carcerarie e di lunghi scioperi della fame.

Oggi la pesante sentenza ai suoi danni e ai danni dell'intero movimento di classe, quasi interamente scontata, è annullata, il processo da rifare, e quelle centinaia di articoli, di sentenze e di diffamazioni orchestrate per anni allo scopo di legittimarne la carcerazione, allo scopo di isolarlo e di impedirgli di lottare, hanno il valore di una piuma.

Vediamo brevemente il “succo” della lunga sentenza, che porta le firme di insigni giuristi borghesi, alcuni dei quali da anni erano intervenuti sulla vicenda, considerata “scandalosa” anche per la giustizia borghese stessa, anche per la “pubblicità negativa” e specifica che ne aveva ottenuta l'Italia dai ripetuti inviti del Consiglio d'Europa ad uniformarsi al rapporto CEDU del 9.9.1998, cui l'Italia peraltro non aveva proposto appello.
La Consulta dapprima fa la storia giuridica delle istanze rivolte ad ottenere la revisione, introdotte addirittura dalla procura di Udine prima, quindi dalla Corte d'Appello e dallo stesso procuratore generale di Bologna poi, su istanza della difesa a riaprire il processo sulla base della illegittimità della sentenza contro Paolo, cassata da un organo superiore quale è riconosciuto nel nostro ordinamento attuale, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Va detto che le posizioni assunte anche in altre vicende dalla CEDU, sono improntate in punta di diritto borghese, non esprimono cioè una valutazione “nel merito” delle vicende che affrontano su istanza delle parti, ma puramente giuridica. Nel caso della bocciatura CEDU della sentenza per l'attentato di Aviano, l'argomento è stato il mancato rispetto della Convenzione sui diritti dell'Uomo, sottoscritta dall'Italia negli anni'80, che prevede il diritto ad interrogare e controinterrogare i testi dell'accusa da parte della difesa. Un diritto processuale che era stato negato di fatto ai difensori di Paolo dall'atteggiamento processuale dei testimoni dell'accusa, principalmente Angelo Dalla Longa, i quali si erano rifiutati di deporre in aula dopo aver reso lunghe e -secondo l'accusa- dettagliate e verificate testimonianze.
La illegittimità costituzionale dell'art.630 cpp era stata quindi sollevata dal procuratore generale di Bologna, che aveva accolto in pratica la istanza della difesa nel processo del 2008 tenutosi a Bologna su istanza dell'Avv.Marina Prosperi; la Consulta spiega che questa illegittimità costituzionale verteva nella lesione dell'art.117 Costituzione, in riferimento all'art.46 paragrafo 1 della Convenzione Europea, che sancisce l'obbligo degli Stati che riconoscono la Convenzione, di conformarsi alle sentenze della CEDU.
L'impossibilità della revisione, nella situazione precedente a questa sentenza, per il caso di Paolo (e non per quelli SUCCESSIVI alle nuove leggi), viene quindi identificata in una norma dell'art.630 cpp, e la Consulta precisa: rifare un processo non significa assolvere un condannato che abbia diritto a revisione, significa riconoscere che quel processo non fu regolare. Dice la Consulta: “laddove, di contro, l’accertata violazione del diritto all’equo processo non equivale a prova dell’innocenza”. Vero è che fino a sentenza definitiva, un cittadino, e quindi teoricamente anche un militante del proletariato, è innocente per la stessa giustizia borghese. Ben sappiamo che invece per la giustizia informale, per le leggi non scritte della lotta di classe e della repressione della borghesia, un militante del proletariato, tra l'altro accusato di aver osato ridicolizzare una struttura militare come la base USAF di Aviano, non è certo innocente fino a sentenza definitiva.
Paolo infatti fu dichiarato colpevole prima ancora di leggere il suo ordine di cattura. Non ebbe alcun accesso al “diritto” formale, vennero pubblicati centinaia di articoli, servizi radio e televisivi, pilotati direttamente dalla Digos, che addirittura lo qualificavano come uno che “riconosceva” l'accusa. Ben diversa la sua posizione, che emerse solo dopo molti mesi dall'arresto, al processo, quando ormai le etichette erano state ben affibbiate, allo scopo di impedire proprio quello svolgimento processuale, che sin dal 1998, nonostante la sentenza della CEDU di Strasburgo, si è voluto ancora impedire per altri 12 anni, complessivamente per 18 anni, e questo in un processo in cui, fortunatamente, non vi erano né morti né feriti.Per non dire delle accuse mediatiche ed informali, che per alcuni anni furono scagliate contro Paolo, scandalosamente da media asserviti alle veline delle forze di polizia, senza il benché minimo straccio di una prova e senza nemmeno una formale accusa contro di lui: accordi con Bin Laden, progetti di sequestro contro industriali, corresponsabilità in attentati che avvenivano in Veneto, di tutto e di più, per giustificare ben altro, un trattamento carcerario e tecnologico che non doveva avere alcun oppositore.
La Consulta nel trattare le argomentazioni dell'Avvocatura dello Stato, in particolare quelle che cercano di definire l'abnormità del caso in senso lesivo verso lo Stato anziché del condannato ingiustamente e comunque iniquamente colpito dallo svolgimento processuale a senso unico che si era avuto, mette in campo invece le problematiche relative ai criteri in cui occorrebbe stabilire se una certa violazione sia o non sia accettabile nel diritto borghese stesso. Interessanti problemi, che sorgono da un caso giudiziario reso ingestibile dalla resistenza di un compagno. L'Avvocatura argomenterebbe, dice la Consulta, che simili problemi trovano soluzione in una misura conciliatoria di “equa riparazione”, ossia nel mercimonio all'italiana. Proprio ciò che non è accaduto in questo caso, proprio perché il compagno qui ha sempre riproposto le due questioni da lui denunciate, la tortura che subisce sin dai primi anni di questa carcerazione, e l'impossibilità di uno svolgersi processuale formalmente corretto ai sensi delle leggi vigenti (denunciando quindi l'essere “speciale” sia la detenzione, che il Tribunale). Cose non accettabili, ai sensi della nostra Costituzione, ma che nel “sistema vigente” trovano il più delle volte le verità e le violenze del potere, affossate, insabbiate, nascoste.
Secondo l'Avvocatura, dunque, solo il legislatore avrebbe titolo per giudicare la questione. In realtà, una precedente sentenza della Consulta (129-2008), aveva demandato proprio al legislatore (al Parlamento borghese) le modifiche di legge necessarie all'effettuazione della revisione. Modifiche che due Parlamenti, sordi come chi non vuol sentire, si erano guardati bene dal legiferare. Qui l'autogol della Presidenza del Consiglio, e qui la sentenza della Corte Costituzionale, che inizia il dispositivo finale così: “La Corte di appello di Bologna dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione e all’art. 46 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 630 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la rinnovazione del processo allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte [europea dei diritti dell’uomo] che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”.

La Consulta quindi ha analizzato la questione, e ha concluso, dopo ampia trattazione giuridica, con ampi riferimenti alla giurisprudenza della CEDU in materia -citando anche il caso del Presidente Oçalan contro la Turchia- che occorre rimediare “a un “vizio” interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione.” Affermando appunto che comunque, “rimediare al difetto di “equità” di un processo, d’altro canto, non significa giungere necessariamente a un giudizio assolutorio”. Il “rimedio” trovato dal potere nel caso di Paolo Dorigo, ossia aver “sospeso” l'esecuzione di pena, rimettendo la persona in libertà, e per il resto, cazzi suoi, (e questo dopo 12 anni e mezzo di detenzione) secondo la Consulta, è in ogni modo ed “al di là di ogni altra possibile considerazione”, “inadeguato: esso “congela” il giudicato, impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza primaria: quella, cioè, della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione.” Non solo: “L’assenza, nell’ordinamento italiano, di un apposito rimedio diretto a tale fine è stata, d’altronde, reiteratamente stigmatizzata dagli organi del Consiglio d’Europa, anche e soprattutto in rapporto al caso concernente il condannato nel giudizio a quo.”
Più specifici e in punta di diritto, tutti i riferimenti all'interesecazione tra norme interne e norme della Convenzione, ed al rispetto di una ragione superiore (il rispetto della Convenzione da parte degli Stati contraenti) rispetto alle specificità processuali che interessano di più lo Stato (che nel caso dei processi di “terrorismo” generalmente si costituisce parte civile).
La Consulta afferma la necessità, contrariamente a quanto sostenuto dall'Avvocatura dello Stato, di una composizione tra “verità storica” e “verità processuale”, e quindi riconosce comunque l'interesse di una revisione, anziché di una “composizione conciliatoria”, qui del resto impossibile.
La Consulta, nella declaratoria finale di parziale incostituzionalità del 630 c.p.p., afferma che comunque poi è al Legislatore, in linea generale, il diritto di dare successivamente, diverse risposte. Avanza quindi la possibilità che lo Stato possa introdurre una specie di risarcimento d'ufficio, nei casi bocciati dalla CEDU per violazione dei diritti processuali fondamentali come quelli dell'art.6 della Convenzione europea, mentre nel caso specifico, finalmente, riconosce il diritto di un condannato (in un processo che ha violato le fondamentali regole processuali giungendo peraltro ad un giudizio definitivo, nel tempo record da formula 1, di 2 anni e 5 mesi), alla riapertura del processo.

"Innocente" quindi per il diritto borghese, sino a nuova condanna. Innocente, in ogni caso, per il proletariato.
Interessante l'intervista parzialmente riprodotta dal quotidiano locale “il gazzettino”, laddove il giornalista ha parlato di “vita distrutta”. In realtà Paolo ha parlato di carriera lavorativa ed artistica, e di situazioni familiare, distrutte, ma al riguardo ha precisato al giornalista, che non ne ha fatto menzione: “vita distrutta no, perché comunque sono riuscito a continuare la militanza politica lungo tutta la detenzione”.

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