Un’isola di deserto chiusa da un muro: l’Egitto si prepara all’esodo palestinese
A febbraio, su ordine delle forze armate egiziane, un’area di 16 chilometri quadrati lungo il confine con Gaza è stata spianata. In corso anche la costruzione di una barriera in cemento. Il Cairo nega, ma il timore è che il paese si prepari all’arrivo di centinaia di migliaia di sfollati palestinesi.
Dai gabbiotti di cemento lungo il muro che separa Gaza dall’Egitto due soldati egiziani fanno segno di non scattare foto ai mezzi da lavoro. Al valico di Rafah, accanto all’ingresso per i camion umanitari, c’è una ruspa. Altri mezzi si intravedono nei campi vicini.
Appena un chilometro a sud del valico, a inizio febbraio è scomparsa un’intera zona agricola: un rettangolo imperfetto, quattro chilometri per quattro, per un totale di 16 km quadrati, alla frontiera. È come se la tagliasse in due: un pezzo corre lungo l’estremo sud di Gaza, un altro pezzo lungo il territorio israeliano.
Le immagini, disponibili grazie a Copernicus, cuciono insieme tre mondi antitetici: il Sinai semidesertico, militarizzato da un decennio di regime di al-Sisi; il sud di Israele, tasselli di campi
coltivati e kibbutz, ognuno di un verde diverso; e Gaza, puntini confusi di grigio, agglomerati urbani e macerie.Quella spianata non c’era. È comparsa un mese fa, se ne è accorta la Sinai Foundation for Human Rights. Il 14 febbraio scorso ha riportato di lavori per la costruzione di un’area isolata da un muro, «tra il valico di Rafah e quello di Kerem Shalom a est e tra i villaggi di Qoz Abo Raad e el-Masora a ovest», «per l’accoglienza di rifugiati palestinesi nel caso di un esodo di massa».
A darne conto sono fonti interne alle ditte impegnate nei lavori, commissionati dalla Abnaa Sinai for Construction & Building, società che avrebbe ricevuto l’appalto direttamente dall’autorità edile delle forze armate egiziane.
A circondare i 16 km quadrati di terra spoglia sarà un muro di cemento alto sette metri, con sicurezza rafforzata, la stessa che si vede già nel Sinai del nord: da ottobre più checkpoint, più soldati.
Il Wall Street Journal cita fonti egiziane: la zona cuscinetto potrebbe ospitare 100mila persone. Probabilmente molte di più: Rafah si sviluppa su 64 km quadrati e oggi di sfollati ne ospita 1,5 milioni.
L’area egiziana al confine con Gaza il 5 gennaio, prima dei lavori (ESA/Copernicus/Sentinel-2).
L’area di 16 km² in Egitto, al confine con Gaza, fotografata dal satellite il 29 febbraio, dopo i lavori.
A disposizione, a volerlo prevedere, c’è anche New Rafah, città fantasma: palazzine vuote, 10mila appartamenti destinati alle famiglie egiziane cacciate dalla vecchia Rafah che al-Sisi ha svuotato a colpi di sgomberi e bulldozer. Le palazzine si incontrano lungo la strada, in mezzo al deserto.
Al valico i funzionari presenti ci dicono che no, quei lavori e quei bulldozer servono ad allargare le strade per migliorare il flusso degli aiuti in ingresso a Gaza e che l’area spianata servirà da hub umanitario per stoccare gli aiuti, ospitare gli autisti, gestire la logistica. Un progetto di cui però le organizzazioni umanitari e non hanno mai sentito parlare.
Il Presidente al-Sisi smentisce da sempre, da quando è iniziata l’offensiva via terra israeliana a fine ottobre, che ha spinto verso sud la stragrande maggioranza dei gazawi: l’Egitto non si prenderà carico dei rifugiati palestinesi, di una seconda Nakba 75 anni dopo la prima.
Al-Sisi lo ha ripetuto domenica alla presidente del consiglio Meloni e alla presidente della Commissione Ue von der Leyen: «L’Egitto rigetta lo sfollamento forzato di palestinesi nelle proprie terre».
Quella spianata dice altro: che Il Cairo si prepara «al worst case scenario, allo scenario peggiore di un’espulsione di massa da Gaza», le parole usate da una fonte diplomatica italiana.
Il 22 febbraio il Fondo monetario internazionale, che con il regime egiziano è impegnato da anni in un braccio di ferro su prestiti in cambio di riforme lacrime e sangue per un popolo già in miseria, aveva parlato di un «pacchetto di sostegno molto ampio» per affrontare le sfide economiche a partire dalle pressioni che giungono da Gaza.
Tre giorni dopo, il 25, ad Al Arabiya, il direttore del dipartimento del Fmi per il Medio Oriente, Jihad Azour, ha pensato fosse meglio precisare: non ci sarebbero legami tra l’aumento del prestito e la minacciata offensiva israeliana su Rafah.
I palestinesi, da parte loro, insistono: non ce ne andiamo. Dal Cairo ce lo ripete Basel Sourani del Palestinian Center for Human Rights: «Nonostante gli illegali ordini di evacuazione israeliani, bombe e fame, 400mila palestinesi sono riusciti a rimanere a nord. Ci sono migliaia di persone oggi in Egitto, ma ce ne sono molte di più dentro Gaza».
Circa 15mila i gazawi entrati in questi mesi in territorio egiziano, pochissimi: uscire è una lotteria, e si paga caro, 5mila dollari a testa.
È vero però che Gaza non c’è più: «Il 70% delle infrastrutture e delle case è distrutto», dice Adnan Abu Hasna, portavoce di Unrwa a Gaza. Un luogo invivibile ma anche lui si dice sicuro: «Facendone un posto inadatto alla vita possono trasferire 2-300mila persone, ma ne resterebbero due milioni che non accetteranno di andarsene».
* da il manifesto
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