Contagio sociale – Guerra di classe micro-biologica in Cina
Davanti
ai fatti delle ultime settimane legati al diffondersi in forma
pandemica del virus COVID-19 ha destato da più parti interesse il
contributo della rivista cinese Chuang del quale riportiamo la traduzione in italiano a cura del blog il Pungolo Rosso.
Il testo, pubblicato a fine febbraio, ha il merito di considerare la
diffusione del virus entro le dinamiche di sviluppo e crisi
capitalistica tratteggiando, non solo in riferimento a COVID-19, una
sorta di storia sociale dei cicli epidemiologici sotto l’espansione
capitalistica. Come uno shock da crollo, l’epidemia, giustappunto come
epidemia alle condizioni della produzione capitalistica e della sua
riproduzione sociale, porta allo smottamento di più livelli della realtà
sistemica, risalendoli minacciosamente. Sotto questo profilo altro
punto di forza del testo è certamente quello di fornire una lettura
delle strategie di
gestione della crisi da parte dell’apparato cinese al fine di governare il fenomeno comprendendo le implicazioni che dal contagio biologico del virus conducono al contagio sociale degli effetti dello stesso. Un “salto di specie” che coinvolge il medesimo ambiente: le catene del valore globale, dal loro livello di realtà microbiologico, passando per la vita umana proletaria e le connessioni macroeconomiche che la determinano a livello globale. Un laboratorio, quello cinese, da conoscere per cogliere le tendenze di sviluppo di questa crisi anche dalle nostre parti.
gestione della crisi da parte dell’apparato cinese al fine di governare il fenomeno comprendendo le implicazioni che dal contagio biologico del virus conducono al contagio sociale degli effetti dello stesso. Un “salto di specie” che coinvolge il medesimo ambiente: le catene del valore globale, dal loro livello di realtà microbiologico, passando per la vita umana proletaria e le connessioni macroeconomiche che la determinano a livello globale. Un laboratorio, quello cinese, da conoscere per cogliere le tendenze di sviluppo di questa crisi anche dalle nostre parti.
Come
una rivoluzione tramata dall’ignoto – nel regno tra la vita e la non
vita del virus - dall’8 marzo il contagio sociale ha investito anche
l’Italia. Il “paese bloccato” lamentano gli affezionati dell’interesse
generale, una quotidianità sospesa per la generalità delle dimensioni
proletarie. Senza certezze. Da un giorno all’altro la
normale riproduzione sociale capitalistica sconvolta. Una crisi
economica come precipitato di una pandemia. Oppure l’inverso?
L’elaborazione di Chuang obbliga a interpretare congiuntamente questi
elementi verso un materialismo dell’ultra-materia, microbiologico,
ambientale, ecologico. Lo scontro di questi giorni in Italia, dalle
rivolte nelle carceri agli scioperi, in significativa continuità, nelle
fabbriche, descrive i caratteri e le proporzioni del contagio sociale in
atto. Chi paga i costi del Coronavirus? Al netto dell’incapacità delle
istituzioni statali di garantire la sicurezza sociale e le stesse
condizioni dell’accumulazione quando l’umano rimane indispensabile per
mandare avanti fabbriche e servizi essenziali bisogna “stare a casa” o
“andarsene a casa”, voltando le spalle anche a ciò, che si dice, non va
fermato ma che fa numero sul PIL? Mutare una traiettoria di governo di
questa crisi e piegarla in rottura verso nuovi rapporti verso gli
scenari che verranno. C’è questo spazio? Nonostante l’urgenza di pensare
forme della politica che riaggreghino una domanda comune a partire
dall’isolarsi per mettersi in salvo dal contagio? Per un comunismo della
tecno-natura pienamente politicizzato, per fare il verso alle tesi di
Chuang. Il contributo che segue aiuta insomma a fissare alcune urgenze
analitiche dentro una crisi vorticosa che già avanza le prime risposte
in difesa di un interesse macro-proletario sotto attacco e che vedrà il
loro intensificarsi nelle prossime settimane anche solo come effetto del
contagio sociale innescato dall’epidemia.
La fornace Wuhan
Wuhan
è conosciuta volgarmente come una delle "quattro fornaci" (四大 火炉) della
Cina per la sua opprimente estate calda e umida, che condivide con
Chongqing, Nanchino e alternativamente Nanchang o Changsha, tutte città
molto trafficate con una lunga storia, situate lungo o in prossimità
della valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan è anche
letteralmente ricoperta di fornaci: l’enorme agglomerato urbano
costituisce una sorta di nucleo produttivo per l'acciaio, il cemento e
altre industrie legate all'edilizia in Cina, il suo paesaggio è
punteggiato dagli altiforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie
di ferro e acciaio di proprietà statale, ora prostrate dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso ciclo di ridimensionamento,
privatizzazione e generale ristrutturazione, che negli ultimi cinque
anni ha provocato numerosi scioperi e proteste. La città è
sostanzialmente la capitale cinese della produzione per l’edilizia, il
che significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel
periodo successivo alla crisi economica mondiale, durante gli anni in
cui la crescita cinese è stata stimolata dalla concentrazione dei fondi
di investimento nella costruzione di infrastrutture e di immobili. Wuhan
non solo ha alimentato questa bolla, con un’offerta eccessiva di
materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, in questo modo, ha
avuto essa stessa una rapidissima espansione urbana. Secondo i nostri
calcoli, nel 2018-2019 l'area totale dedicata ai cantieri di Wuhan era
pari alla superficie dell'intera isola di Hong Kong.
Ma
adesso questa fornace, che dopo la crisi [del 2008] è stata il motore
dell'economia cinese, sembra che si stia raffreddando, proprio come le
fornaci delle sue fonderie di ferro e acciaio. Anche se questo processo
era già iniziato, non è più una semplice metafora economica, poiché la
città, un tempo così movimentata, è stata isolata per oltre un mese, con
le sue strade svuotate da un ordine del governo: “Il più grande
contributo che potete dare è di non riunirvi e di non provocare caos ”, è
questo che si legge sulla prima pagina del Guangming Daily,
un quotidiano gestito dal Dipartimento di propaganda del Partito
comunista cinese. Adesso, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti
edifici in acciaio e vetro che li contornano sono tutti freddi e vuoti,
mentre l'inverno volge al termine con il Capodanno lunare e la città
vegeta a causa dell’imposizione di una vasta quarantena. Isolarsi è un
buon consiglio per chiunque si trovi in Cina, dove lo scoppio del nuovo
coronavirus (recentemente ribattezzato "SARS-CoV-2" e la sua malattia
"COVID-19") ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore,
l’epidemia di SARS del 2003. L'intero paese è bloccato, come durante la
SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono confinate nelle loro case
in tutto il paese. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il
25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa è stata
prolungata per un mese per rallentare la diffusione dell'epidemia. Le
fornaci cinesi sembrano aver smesso di bruciare, o almeno sono state
ridotte a carboni ardenti. In un certo senso, però, la città è diventata
un altro tipo di fornace, perché il coronavirus brucia attraverso la
massa della sua popolazione ovviamente come una febbre.
A torto, l'epidemia è stata incolpata di tutto, dalla fuoriuscita di un ceppo di virus dall'Istituto di Virologia di Wuhan, a causa di una cospirazione o di un incidente
- una affermazione discutibile diffusa dai social media, in particolare
tramite messaggi paranoici postati su Facebook da Hong Kong e Taiwan,
ma ora sostenuta da organi di stampa conservatori e dagli interessi militari in Occidente
- alla propensione dei cinesi a mangiare cibi "sporchi" o "strani",
poiché l'epidemia virale è collegata a pipistrelli o serpenti venduti in
un "mercato umido" semi-illegale, specializzato in fauna selvatica e
altri animali rari (sebbene questa non sia la fonte ultima dell’epidemia).
Entrambe queste spiegazioni sono una testimonianza dell'evidente
atteggiamento bellicista e orientalista che caratterizza i rapporti
sulla Cina [provenienti da Occidente], e numerosi articoli hanno sottolineato questo fatto fondamentale.
Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi unicamente sulla
questione della percezione del virus in ambito culturale, dedicando
molto meno tempo a scavare più a fondo nelle dinamiche di gran lunga più
brutali che sottostanno all’accanimento dei media.
Una
variante leggermente più complessa include almeno le conseguenze
economiche, anche se ne ingigantisce in modo retorico le potenziali
ripercussioni sul piano politico. In questo caso, troviamo i soliti
sospetti, che vanno dai classici politicanti che partono alla caccia del
dragone cinese fino alla finta reazione scioccata dei piani alti del
liberalismo: le agenzie di stampa, dalla National Review al New York Times,
hanno già insinuato che l'epidemia potrebbe provocare una "crisi di
legittimità” per il PCC, nonostante nell'aria ci sia a malapena un
soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità,
che sta nel comprendere le dimensioni economiche della quarantena,
qualcosa che difficilmente potrebbe non essere notato da giornalisti con
portafogli azionari più grossi dei loro cervelli. Perché il fatto è
che, nonostante l’appello del governo a isolarsi, le persone potrebbero
presto essere costrette, invece, a "riunirsi" per far fronte alle
necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di
quest'anno l'epidemia causerà un rallentamento del tasso di crescita del
PIL della Cina, portandolo al 5%, al di sotto del già stagnante 6%
dell'anno scorso -il tasso più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni
analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe
scendere del 4 percento o anche oltre, e che ciò potrebbe innescare una
specie di recessione globale. Da qui è sorta una domanda in precedenza
inconcepibile: cosa succederà effettivamente all'economia globale quando
la fornace cinese inizierà a raffreddarsi?
Nella
stessa Cina, è difficile prevedere quale sarà la parabola finale di
questa vicenda, ma quanto sta accadendo ha già prodotto a livello
collettivo un processo piuttosto raro: interrogarsi sulle questioni e
informarsi sui fatti della società. L'epidemia ha infettato direttamente
quasi 80.000 persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato
uno shock nella vita quotidiana sotto il capitalismo per 1 miliardo e
400 milioni di persone, intrappolate in un momento di precaria
auto-riflessione. Questo momento, anche se pieno di paura, ha indotto
tutti a interrogarsi contemporaneamente su alcune questioni profonde:
cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo
abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l'affitto? Chi è responsabile di
tutto questo? In un modo strano, l'esperienza soggettiva è in qualche
maniera simile a quella di uno sciopero di massa - ma è un’esperienza
che, nel suo carattere non spontaneo, imposto dall'alto verso il basso
e, soprattutto, nella sua non volontaria iperatomizzazione, illustra i
dilemmi fondamentali del nostro stesso presente politico asfissiato in
maniera evidente, così come gli autentici scioperi di massa del secolo
scorso hanno messo in luce le contraddizioni della loro epoca. La
quarantena, quindi, è come uno sciopero ma svuotato dei suoi caratteri
collettivi, e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a
livello psicologico, che economico. Questo fatto già di per sé la rende
degna di riflessione.
Naturalmente, le speculazioni sull'imminente caduta del PCC sono delle prevedibili assurdità, uno dei passatempi preferiti di The New Yorker e The Economist.
Nel frattempo, i media stanno ricorrendo alle usuali procedure di
insabbiamento, in cui editoriali apertamente razzisti pubblicati nei
siti degli organi di stampa tradizionali sono avversati da una marea di
articoli sul web che polemizzano contro l'orientalismo e su altre
questioni ideologiche. Ma quasi tutta questa discussione rimane a
livello descrittivo - o, nella migliore delle ipotesi, affronta la
politica di contenimento e le conseguenze economiche dell'epidemia -
senza approfondire le questioni legate in primo luogo a come tali
malattie vengono prodotte, e ancora meno a come si diffondono. Anche
questo, tuttavia, non è abbastanza. Ora non è proprio il momento per
esercizi stilistici da “marxisti alla Scooby-Doo”, togliendo la maschera
ai cattivi per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che
ha causato il coronavirus fin dall’inizio! Non sarebbe molto più acuto
di quello che fanno i commentatori stranieri che in maniera altrettanto
grossolana vanno alla ricerca di un cambio di regime. Certamente il
capitalismo ne ha la colpa - ma in che modo, esattamente, la sfera
socio-economica si interfaccia con quella biologica e quali lezioni più
profonde si possono trarre da tutta questa esperienza?
In
questo senso, l'epidemia offre due opportunità di riflessione. In primo
luogo, ci dà la possibilità di riesaminare le questioni sostanziali sul
modo in cui la produzione capitalistica si rapporta al mondo non umano a
un livello più fondamentale: in breve, come il “mondo naturale”,
compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso
senza fare riferimento al modo in cui la società organizza la produzione
(perché, in effetti, i due ambiti non sono separati). Allo stesso
tempo, questo ci ricorda che l'unico comunismo degno di questo nome è
quello che include in sé il potenziale di un naturalismo pienamente
politicizzato. In secondo luogo, possiamo usare ugualmente questo
momento di isolamento per una sorta di nostra riflessione sullo stato
presente della società cinese. Alcune cose diventano chiare solo quando
tutto si interrompe in modo inaspettato, e un rallentamento di questo
tipo può rendere visibili le tensioni fino a quel momento occultate.
Andiamo quindi ad esplorare entrambe queste questioni, e a mostrare non
solo come sia l'accumulazione capitalistica a produrre tali epidemie, ma
anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio
contraddittorio di crisi politica, poiché rende visibili alle persone le
potenzialità e le dipendenze invisibili del mondo che le circonda,
offrendo allo stesso tempo una scusa ulteriore per estendere ancor più i
sistemi di controllo nella vita di tutti i giorni.
La produzione di epidemie
Il
virus che è all'origine dell'attuale epidemia (SARS-CoV-2), così come
il suo predecessore SARS-CoV del 2003, l'influenza aviaria e ancora
prima l'influenza suina, è germogliato dall’incrocio tra economia ed
epidemiologia. Non è un certo caso che così tanti di questi virus
abbiano preso il nome di animali: la diffusione di nuove malattie tra la
popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene
chiamato trasferimento zoonotico, che è un modo tecnico per dire che
queste infezioni passano dagli animali agli umani. Questo salto da una
specie all'altra è condizionato da fattori come la vicinanza e la
regolarità del contatto, che costruiscono l'ambiente in cui la malattia è
costretta ad evolversi. Quando questa interfaccia tra uomo e animale
cambia, si modificano anche le condizioni in cui si evolvono queste
malattie. Sotto le quattro “fornaci” [le quattro città cinesi, tra cui
Wuhan, di cui si è detto all'inizio], quindi, si trova una fornace
ancora più importante, che sta alla base degli hub industriali di tutto
il mondo: la pentola a pressione evolutiva costituita dall'agricoltura e
dall'urbanizzazione proprie del capitalismo. È questo il substrato
ideale nel quale le epidemie nascono, si trasformano, compiono dei balzi
zoonotici sempre più devastanti, e poi sono veicolate in modo
aggressivo attraverso la popolazione umana. A ciò si aggiungono dei
processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell'economia,
in cui ceppi "selvaggi" vengono più di recente in contatto con persone
spinte a incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi
locali. Il coronavirus, nelle sue origini "selvagge" e nella sua
improvvisa diffusione attraverso un nucleo fortemente industrializzato e
urbanizzato dell'economia globale, rappresenta le due dimensioni della
nostra nuova era di epidemie politico-economiche.
L'idea
di base qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni
biologi di sinistra come Robert G. Wallace, il cui libro Big Farms Make Big Flu,
pubblicato nel 2016, spiega in maniera esauriente la connessione tra il
settore agroalimentare capitalistico e l'eziologia delle recenti
epidemie, che vanno dalla SARS all'Ebola [i].
Queste epidemie possono essere raggruppate in due categorie: la prima
trova la sua origine nel cuore della produzione agro-economica, la
seconda nel suo entroterra. Nel tracciare la diffusione di H5N1, noto
anche come influenza aviaria, Wallace riassume diversi fattori chiave
della geografia per quelle epidemie che hanno origine nel cuore della
produzione:
“I
paesaggi rurali di molti dei paesi più poveri sono ora caratterizzati
da attività produttive agroalimentari non regolamentate che premono
contro le bidonvilles periubane. La trasmissione non controllata nelle
aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l'H5N1 può
sviluppare delle caratteristiche specifiche per l'uomo. Diffondendosi su
tre continenti ed evolvendosi rapidamente, l'H5N1 entra anche in
contatto con una crescente varietà di ambienti socio-ecologici, che
includono specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti di
host, di modalità di allevamento del pollame e di misure per la salute
degli animali” [ii].
(continua)
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento