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Attenti al mafiodotto
Nel contestato maxi-progetto per
portare il gas dall’Azerbaijan in Puglia spuntano manager in affari con le
cosche, oligarchi russi e casseforti offshore
Mister Tap, la mafia calabrese, i narcos sudamericani, le valigie piene
di denaro nero, le casseforti anonime con la targa offshore, gli oligarchi
russi, gli affaristi italiani legati alla politica e altri misteriosi
protagonisti e comprimari. Alla base del Tap, il super gasdotto che minaccia di
perforare le coste del Salento, c’è una storia nera mai raccontata prima. Un intreccio
di vicende pubbliche e segreti privati che rilancia quel groviglio di
interrogativi che fanno da detonatore delle proteste esplose in Puglia contro
lo sradicamento dei primi 231 olivi: chi ha deciso l’attuale tracciato? È
davvero necessario far passare miliardi di metri cubi di gas tra spiagge
meravigliose e oliveti secolari, anziché dirottare i maxi-tubi in zone già
industrializzate, che si potrebbero disinquinare con una minima parte dei fondi
del Tap? Come mai i finanziamenti pubblici europei sono stati incamerati da una
società-veicolo con azionisti svizzeri? Se è vero che il gasdotto è strategico per
molti Stati sovrani, perché sono le aziende private a progettare dove, come e
con chi costruire una grande opera tanto costosa e controversa?
Il Tap, che sta per Trans
Adriatic Pipeline, è la parte finale di un gasdotto gigantesco: quasi
quattromila chilometri di condotte per trasportare enormi quantità di metano
dall’Azerbaijan all’Italia. Il costo
preventivato è di 45 miliardi. Il troncone iniziale Sud-Caucasico parte dal
giacimento azero di Shah Deniz 2 e attraversa la Georgia. Il secondo tratto,
chiamato Tanap, percorre tutta la Turchia il Tap è l’ultimo pezzo, lungo 878
chilometri, che s’inerpica nel nord della Grecia (fino a quota 1.800), scende
sulla costa albanese, s’inabissa in mare (fino a meno 820 metri) e arriva in
Salento: l’approdo previsto è la spiaggia di san Foca, a Melendugno, dove in
questi giorni, tra
rumorose proteste popolari, è iniziato lo sradicamento degli olivi. La società capofila Tap Ag, che raggruppa in Svizzera una cordata di multinazionali, assicura che il gasdotto sarà interrato, tutti gli alberi verranno ripiantati e gli altissimi standard di sicurezza azzereranno ogni rischio di inquinamento, incidente o disastro.
rumorose proteste popolari, è iniziato lo sradicamento degli olivi. La società capofila Tap Ag, che raggruppa in Svizzera una cordata di multinazionali, assicura che il gasdotto sarà interrato, tutti gli alberi verranno ripiantati e gli altissimi standard di sicurezza azzereranno ogni rischio di inquinamento, incidente o disastro.
In Italia finora sono iniziati
solo i lavori preparatori del micro-tunnel previsto dal ministero dell’ambiente
per non devastare una costa che vive di turismo: una galleria di cemento che
parte in mare, a 800 metri dalla riva, passa sotto la spiaggia e riaffiora nei
campi, a 700 metri dalla battigia. Da lì il progetto continua su terra, per
altri 8,2 chilometri, fino a un nuovo terminale di recezione: qui il consorzio Tap prevede di spostare 1.900
alberi secolari. Per collegarsi alla rete nazionale del gas, poi, servono
altri 55 chilometri di condotte fino a Mesagne, vicino a Brindisi. Gli olivi a rischio, in totale, salgono
così a 10 mila.
Contro questo tracciato, oltre ai
cittadini del fronte “No Tap”, si sono schierati i sindaci interessati e il
governatore della Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto più volte di “far
approdare il gasdotto direttamente a Brindisi, evitando 55 chilometri di scavi
e tubi superflui”. I governi Monti,
Letta e Renzi hanno però inserito il Tap tra le opere strategiche, per cui
si possono ignorare comuni e regioni: basta una valutazione d’impatto
ambientale gestita dal ministero, che in questi giorni è stata convalidata dal
Consiglio di Stato.
Il super gasdotto, dunque, è un’opera progettata, eseguita e gestita da
imprese private, ma dichiarata di eccezionale interesse pubblico, addirittura sovranazionale.
L’Espresso han potuto esaminare una serie di documenti riservati della
Commissione europea, che svelano il ruolo cruciale di una società-madre, finora
sconosciuta: l’azienda che ha ideato il
progetto e ha ottenuto i primi decisivi finanziamenti pubblici. Si chiama
Egl Produzione Italia, è una società per azioni con 200 mila euro di capitale,
ma è controllata dalla Egl lussemburghese a sua volta posseduta dal gruppo
elvetico Axpo, che fa capo a diversi cantoni della Svizzera tedesca. Le carte,
ottenute grazie a una richiesta di atti dell’organizzazione Re:Common,
documentano che la Egl italiana ha
ottenuto, nel 2004 e 2005, due finanziamenti europei a fondo perduto, per oltre
tre milioni, utilizzati proprio per i progetti preliminari e gli studi di fattibilità
del Tap. I ricercatori avevano chiesto di esaminare tutti gli altri atti, ma la
Commissione europea ha risposto che devono restare riservati per rispettare i
segreti industriali, la sicurezza e la privacy delle aziende del gasdotto.
Comunque ora è chiaro che il Tap è nato
con “fondi strutturali europei”, concessi a un colosso svizzero dell’energia,
in teoria esterno alla Ue.
Anche l’amministratore delegato
di questa Egl Italia, la società-madre del Tap, è un cittadino svizzero:
Raffaele Tognacca, 51 anni, un manager che ha fatto anche politica con i
liberali in Canton Ticino. Tognacca ha lavorato per anni tra Roma e Genova come
dirigente del gruppo italiano Erg, che ha diversificato dal petrolio agli
impianti eolici e solari soprattutto al sud. Tornato in Svizzera, ha aperto con
la moglie la società finanziaria Viva
Transfer, che un’indagine anti-mafia italiana ha additato come una lavanderia
di soldi sporchi. Intervistato dalla tv svizzera italiana, il procuratore
aggiunto Michele Prestipino descrisse la vicenda come “un caso esemplare di riciclaggio internazionale di denaro
mafioso”.
Tutto parte nella primavera 2014,
quando la guardia di Finanza di Roma scopre una presunta banda di narcotrafficanti
collegati alla ‘ndrangheta. Il clan capeggiato dal calabrese Cosimo Tassone, è
accusato di aver importato oltre mezza tonnellata di cocaina dal Sudamerica,
con altri 220 chili sequestrati a Gioia Tauro. In quei giorni, secondo
l’accusa, il clan calabrese deve versare un milione e mezzo di euro ai narcos
sudamericani, ma non può usare il previsto canale bancario brasiliano. Quindi
il braccio destro di Tassone recluta una famiglia di promotori finanziari
toscani, il padre e due figli, che accettano di “trasportare quei soldi in
contanti, dentro due trolley, a Lugano, nella sede della Viva Transfer”, come
confermano le confessioni degli stessi corrieri poi arrestati. A ricevere tutte
quelle banconote, da mandare in Brasile, è stato “Raffaele Tognacca in persona”.
Proprio il manager che ha tenuto a battesimo il Tap.
Quando Tognacca entra in scena,
le intercettazioni captano una lite che rischia di degenerare: dal Sudamerica i
narcos si lamentano di aver ricevuto mezzo milione in meno. In Italia Tassone, furibondo,
pensa a un furto e manda i suoi uomini a terrorizzare un figlio del corriere toscano:
“Gli spacco la testa… Noi non siamo imprenditori!”. L’altro figlio intanto
viene tenuto in ostaggio in Brasile, come garanzia umana, Dopo altre violenze e
intimidazioni, il boss calabrese si convince che nessuno gli ha rubato i soldi
mancanti: è la società di Tognacca che ha incamerato una parcella-record di
oltre 400 mila euro (“il 30 per cento!”). Proprio allora scattano gli arresti.
Al processo, tutt’ora in corso, i pm di Roma hanno formulato una specifica
accusa di riciclaggio. E dopo la retata, hanno incontrato i colleghi elvetici, competenti
a valutare la parte estera del presunto reato. Tognacca si è difeso
pubblicamente dichiarando di “non essere stato oggetto di nessuna misura penale
né in Italia né in Svizzera”. Per i magistrati italiani resta assodato che il
clan calabrese usò la Viva Transfer per pagare la cocaina. Ma i giudici
elvetici potrebbero aver archiviato tutto per “mancata prova del dolo”:
Tognacca poteva non sapere che erano soldi di mafia. Magari pensava di aiutare
onesti evasori fiscali. Certo è che mister Tap non disprezzava le valigie di
denaro nero.
Oggi la Egl italiana non esiste
più: è stata assorbita da Axpo. Ma il Tap va avanti. Nel 2009 la Commissione europea accetta pure di cambiare il
beneficiario del residuo finanziamento a fondo perduto, dirottato dalla Egl
alla Tap Asset spa, un’altra filiale di Axpo on sede a Roma, nello stesso
palazzo della delegazione europea. La vicinanza aiuta. La società-bis
infatti eredita i contributi quando è già diventata una scatola vuota: nove
mesi prima, infatti, ha venduto il progetto del super gasdotto, per ameno 12
milioni, all’attuale capofila Tap Ag. Pure questa è una società svizzera, ma
oggi è controllata da multinazionali dell’energia come italiana Snam, l’inglese
Bp, la belga Fluxys, la spagnola Enagas, l’azera Az-tap e naturalmente Axpo.
Nel 2013 il corridoio sud del gas, cioè l’intero maxi-gasdotto, viene approvato dalle autorità europee,
appoggiate dagli Usa, con una dichiarata funzione anti-russa, per creare un’alternativa al metano della
Gazprom. Ma ora i documenti mettono in dubbio questa giustificazione geo-politica:
il gigante russo Lukoil, infatti, è entrato con il 10 per cento nel consorzio
guidato da Bp e dalla società azera Socar per sfruttare il giacimento di Shah
Deniz 2, proprio quello del Tap. Mentre alcune intercettazioni italiane autorizzano
a pensare all’esistenza di accordi sotterranei anche con altre società russe. Controllate
da oligarchi fedeli al presidente Vladimir Putin.
Nel febbraio 2009 l’imprenditore pugliese Giampaolo Tarantini viene
registrato al telefono, nell’inchiesta sulle escort di Berlusconi, mentre parla
con Roberto De Santis, un manager legato all’ex premier Massimo D’Alema. Nel
colloquio, già pubblicato dall’Espresso, De Santis chiede aiuto a Tarantini per
ottenere il via libera del governo Berlusconi a un progetto “enorme”, dove “la
società capogruppo si chiama Tap”. Ora è possibile capire i retroscena di
quell’intercettazione. Intervistato dalla tv pugliese Telerama, De Santis ha
giustificato così le sue parole sul gasdotto: “Ero consigliere
d’amministrazione della società Avelar, che aveva interesse nel Tap, ma dal
2010 in poi non ne ha più avuto, perché non ha più ritenuto opportuno
continuare in quella avventura imprenditoriale… Avelar aveva degli accordi con
la svizzera Egl, che poi sono venuti meno nel 2010”.
Il problema è che Avelar non è
mai comparsa ufficialmente nel Tap. È una società svizzera creata dal
miliardario Viktor Vekselberg, titolare del colosso Renova e vicinissimo a
Putin, per investire nelle energie rinnovabili. Per sbarcare in Italia, Vekselberg
ha inserito nella Avelar due manager senza alcuna esperienza nell’energia, ma
con forti agganci politici a destra e a sinistra: il dalemiano De Santis,
appunto; e un grande amico di Marcello Dell’Utri, Massimo Marino De Caro, come
vicepresidente esecutivo. De Caro è stato poi arrestato e condannato per il
colossale furto di libri antichi nella biblioteca dei Girolamini a Napoli.
Quell’inchiesta nata a Firenze ha anche rivelato che De Caro, dopo aver ricevuto
un bonifico milionario dalla Avelar, ha girato oltre 400 mila euro a Dell’Utri,
per motivi rimasti oscuri, mentre l’ex senatore di Forza Italia era ancora
libero, in attesa della condanna definitiva per mafia. Finora si ignorava che
un oligarca amico di Putin, attraverso l’italosvizzera Avelar, avesse stretto accordi,
mai rivelati, sul gasdotto anti-russo.
Ad aumentare il tasso di misteri attorno al Tap pensano anche i Panama
Papers. I documenti offshore ottenuti dal consorzio giornalistico Icij, di cui
fa parte L’Espresso in esclusiva per l’Italia, mostrano che tra i clienti dello
studio Mossack Fonseca (i cui titolari nel frattempo sono stati arrestati a
Panama) compare anche il manager più importante della Tap Ag svizzera. Si
chiama Zaur Gahramanov, è nato nel 1982 in Azerbaijan e occupa ruoli
cruciali in tutte le società chiave del maxi-gasdotto: è dirigente di grandi
aziende del gruppo Socar, il colosso petrolifero dello Stato azero, consigliere
d’amministrazione dei gasdotti Tap e Tanap; e gestore di vaie società essere,
tra cui la cassaforte svizzera che gestisce i profitti miliardari di gas e
petrolio. Nella sua posizione di super manager di Stato, dovrebbe avere qualche
problema ad aprire società off-shore, cioè casseforti anonime utilizzabili per
nascondere denaro nero e azzerare le tasse (o peggio). Invece il 18 febbraio
2011 lo studio di Panama registra proprio Gahramanov come azionista di una
società offshore delle British Virgin Islands, chiamata Geneva Commodities
International Ltd. La società è gestita da un fiduciario elvetico e tutti gli
atti vengono trasmessi in Svizzera, spesso su richiesta di una banca. Gli altri
due soci della offshore sembrano fiduciari di altri soggetti che vogliono
restare nell’ombra: sono un professionista tedesco residente in Svizzera e un
russo con domicilio in Israele. Nello studio Mossack Fonseca, accanto al
certificato azionario, ci sono tutti i dati personali del manager azero dei
gasdotti. Il timbro della società anonima ha un disegno con tre spighe di
grano. Sembra quasi un programma: con le offshore c’è grano per tutti. La
cassaforte segreta delle Isole Vergini viene resa inattiva il 12 settembre 2014 con una singolare coincidenza di date:
proprio quel giorno il governo di Enrico Letta approva la valutazione d’impatto
ambientale del Tap. La stessa autorizzazione ministeriale ora convalidata
da un’autorevole sentenza del Consiglio di Stato. Che sarebbe stata ancora più
autorevole se, a guidare il collegio, fosse andato un togato diverso dall’espertissimo
burocrate scelto dal governo Renzi e come presidente aggiunto del Consiglio di
Stato: Filippo Patroni Griffi, e ministro e poi sottosegretario dello stesso
esecutivo che ha approvato il Tap.
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