un documentario racconta le storie, l’umanità e la vita di alcuni dei 200 reporters uccisi da Israele, spesso con esecuzioni mirate. Un punto di vista per raccontare il genocidio e mostrarne tutta la brutalità
l produttore e regista Robert Greenwald ha una visione agitprop del cinema come mezzo per motivare gli spettatori all’azione. I suoi documentari di attualità hanno affrontato temi delicati, tra cui Enron, la vicenda elettorale Bush-Gore, la guerra in Iraq, i fratelli Koch, la guerra dei droni e altro ancora.
Ora, con il suo documentario senza esclusione di colpi Gaza: Journalists Under Fire, uno dei principali documentaristi americani sulla giustizia sociale punta il suo obiettivo sulla Palestina, evidenziando in particolare la difficile situazione dei giornalisti e dei bambini nell’enclave assediata. La straziante cronaca di 41 minuti aggira la censura israeliana e si concentra su tre operatori dei media palestinesi uccisi, presentando il volto umano dell’aggressione apocalittica e in corso a Gaza. Abbiamo intervistato Robert Greenwald tramite Zoom presso il suo ufficio di Venice, in California. L’intervista è stata poi modificata per maggiore chiarezza.
Di cosa parla Gaza: Journalists Under Fire?
Il documentario parla dei giornalisti palestinesi, oltre duecento dei quali sono stati uccisi da Israele dall’inizio della guerra. Il motivo per cui ho deciso di realizzare il film ha un paio di aspetti da sottolineare. Innanzitutto, come ebreo di New York City e come persona che ha girato molti film e lavorato sulla guerra, sentivo moralmente il bisogno di fare qualcosa. Questo andava contro il parere di molte persone convinte che tutto ciò che Israele fa è corretto, difendibile, frutto della reazione all’attacco quotidiano. Io non ero d’accordo. Più facevo ricerche, più vedevo filmati, più sentivamo parlare di persone a Gaza, in Cisgiordania e in Israele, più forte diventava il mio impegno a fare qualcosa.
Allora la domanda diventa: cosa potremmo o dovremmo fare che non sia già stato fatto? Perché una parte di questa storia è stata raccontata – non abbastanza, ma una parte sì. E ho deciso di raccontare la storia dei giornalisti partendo dal presupposto che l’uccisione di così tanti giornalisti, un numero senza precedenti, avrebbe costretto i media tradizionali a scriverne. E mi sbagliavo. Non siamo riusciti quasi per niente a convincere i media più tradizionali negli Stati uniti a parlarne.
D’altra parte, credo che stiamo raggiungendo delle persone – non gli haters, non coloro che pensano che un palestinese qualsiasi debba essere ucciso – ma stiamo raggiungendo persone a cui la questione non interessa, persone che non la vedono come qualcosa che le riguarda e che si sono allontanate. Da questo punto di vista, credo che le cinquecento proiezioni siano un inizio significativo, e credo che aiuteremo le persone ad agire.
L’altro aspetto è che c’è un enorme elemento razzista in tutto questo. Ho pensato che se fossimo riusciti a umanizzare alcuni giornalisti, il risultato sarebbe stato molto più forte dei numeri, perché i numeri sono solo numeri. Quando mi chiedono cosa fa Brave New Films, spesso rispondo che diamo un volto alla politica, e questo ne è un classico esempio. Abbiamo utilizzato la ricerca del Comitato per la Protezione dei giornalisti, che è molto solida e molto rispettata. Avevano [informazioni dettagliate su] 150, 170 giornalisti che erano stati uccisi.
Abbiamo analizzato la ricerca – grazie al team molto piccolo ma straordinario di Brave New Films – e abbiamo finito per scegliere tre giornalisti diversi. L’idea era di avere una certa varietà di età, un mix di genere e background. Ma la domanda più importante era: possiamo «riportarli indietro» attraverso i social media? Quindi [il nostro team] ha analizzato a fondo i loro account social, e abbiamo trovato un filmato straordinario, a posteriori, perché i giornalisti erano stati uccisi: un padre e sua figlia a una festa di compleanno: semplici gesti umani in cui chiunque poteva immedesimarsi.
È stato un processo che ha richiesto mesi di ricerca, in particolare di filmati. In caso della presenza di un parente o un collega, li contattavamo e li informavamo del progetto del film, sia per rispetto, sia per verificare se ci fosse qualcosa che ci sfuggiva o se avessero dei filmati in loro possesso. Abbiamo persino chiesto ad alcune persone di filmarsi: un coraggio straordinario, a Gaza!
La sorella [Sabrine Al-Abadla] della giornalista [Heba Al-Abadla] di cui abbiamo parlato ha girato un video in cui parlava della perdita della sorella. Ben cinquantacinque dei suoi parenti sono stati uccisi. Il fatto che questa donna potesse camminare e parlare, e volesse contribuire a diffondere la sua storia, mi sembra straordinario.
Chi erano i tre giornalisti che hai menzionato e cosa gli è successo?
Ogni giornalista è diverso; tutti gli esseri umani sono diversi. Quello che abbiamo cercato di fare è stata una combinazione. Ad esempio raccontare la storia del lavoro svolto, acome la storia di Bilal Jadallah, che ha contribuito a fondare la Press House-Palestine, una risorsa per i giornalisti di tutta Gaza, un luogo di addestramento, un modo per contribuire a garantire la sicurezza. Ironicamente, i gilet della stampa, che ci avevano detto avrebbero contribuito a renderli più sicuri, sono diventati, secondo i resoconti dalle zone di battaglia, un modo per prenderli di mira: perché sulle loro auto c’era scritto «Press» e sui loro gilet c’era scritto «Press». Quindi, ciò che avrebbe dovuto garantire la sicurezza si è rivelato l’opposto. Abbiamo una clip in cui i giornalisti si tolgono i gilet della stampa e li gettano a terra.
La giornalista in questione era comunque Heba Al-Abadla [conduttrice radiofonica di Al-Azhar e cofondatrice del Social Media Club-Palestine]. Sua figlia e sua madre sono state uccise in un raid nella casa di uno zio, dove si erano rifugiate per fuggire perché lì pensavano di essere protette. È stato allora che lui – è così difficile anche solo parlarne – i loro cugini e i loro figli sono stati tutti uccisi. La sorella di Heba nel film, in un video che ha realizzato per noi, racconta di quanto le manchino tutti e di quanto significhi per lei l’assenza di sua sorella. Sabrine racconta di averle chiamate e parlato con loro una o due settimane prima che venissero uccisi. Quello è stato l’ultimo contatto che ha avuto.
Settimane dopo, Sabrine e altri parenti avevano sperato che, se fossero andati nel luogo in cui si trovavano Heba e i suoi parenti, avrebbero trovato qualche corpo sotto le macerie che avrebbero potuto salvare; oppure avevano sperato di poter estrarre i corpi e dare loro un funerale in linea con le loro credenze religiose. Purtroppo, niente di tutto ciò è stato possibile. Ho visto recentemente filmati di persone che scavavano con le mani tra le macerie nel tentativo di trovare corpi, rimuoverli e dare loro una degna sepoltura.
È fondamentale ricordare che gran parte delle uccisioni e delle distruzioni che si stanno verificando sono state finanziate dagli Stati uniti.
Chi era il terzo giornalista?
Ismail Al-Ghoul era un giovane padre molto conosciuto [lavorava per la rete televisiva araba Al-Jazeera]. Uno dei motivi per cui ho deciso di raccontare il suo servizio è che ci sono tantissime sue riprese, dal matrimonio alla gravidanza della moglie, alla nascita della figlia, al tempo trascorso con la figlia, fino a una scena che abbiamo trovato e che immagino sia stata filmata dalla madre, che mostra la figlia sulla sua tomba mentre la bacia. La madre ha scritto su Facebook che ogni volta che squillava il telefono, la figlia chiedeva: «È papà che chiama?». In un’altra parte del film la figlia chiede: «Possiamo andare in paradiso così posso andare a trovare papà e passare del tempo con lui?».
Nel momento in cui scrivo, più di duecento giornalisti sono morti a Gaza. Sono tutti palestinesi? Si tratta di morti casuali in una zona di guerra o di omicidi mirati?
Omicidi mirati significa che l’esercito israeliano ha deciso di cercare di uccidere queste persone. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha standard molto rigidi per definire cosa si intende per «preso di mira» e cosa per «ucciso». Le loro ricerche indicano venti o venticinque giornalisti presi di mira. Altre organizzazioni hanno numeri più alti. Non prendo posizione in merito, perché è un modo per distogliere l’attenzione dalla domanda più importante, che è: come possiamo fermare tutto questo?
Perché uccidere i giornalisti? Se non vuoi che ciò che accade venga fuori, lo fai. È possibile che alcune delle oltre duecento morti siano incidenti. È difficile dimostrare che siano tutti omicidi mirati. Ma anche nei casi in cui non è chiaro se lo siano o meno, ci sono solide prove che, a un certo livello, c’era una consapevolezza, conoscenza o informazione che avrebbe reso evidente che si trattasse di giornalisti.
Il tuo documentario utilizza in gran parte riprese girate in esterni a Gaza. Come hai ottenuto quel materiale e da dove? È questa una via d’uscita dal blocco imposto da Israele ai corrispondenti esteri?
Abbiamo ottenuto i filmati in due modi. In primo luogo, ci sono stati forniti da amici, parenti e colleghi di alcuni dei giornalisti uccisi. In secondo luogo, e soprattutto, tramite i social media. È stato un processo straordinario e doloroso – anche se non paragonabile a quello dell’uccisione di amici e parenti – scavare in particolare su Facebook e Instagram e trovare tutte le storie di vita delle persone. E poi ricostruire quelle vite attraverso il film, raccontando così la storia delle persone al lavoro, delle loro famiglie, delle loro vite e poi delle loro morti.
Alcune riprese sono strazianti, soprattutto quando si vedono i giornalisti subito dopo le morti, e si assiste alle reazioni emotive degli altri. Non volevo realizzare un film che mostrasse ripetutamente immagini orribili, perché nessuno l’avrebbe guardato. Il nostro compito, senza compromessi, è comunicare l’umanità di queste persone che, per molti versi – con la loro morte – sono state ignorate, liquidate e ridotte a semplici numeri. Il nostro compito e il nostro obiettivo, laddove possiamo essere efficaci, è quello di dar loro vita attraverso le loro riprese, così come quelle dei loro parenti e amici. Abbiamo trascorso ore, settimane e mesi, a esaminarle.
Da ex newyorkese, cosa pensi della vittoria del candidato socialista democratico e filo-palestinese Zohran Mamdani alle primarie per la carica di sindaco del Partito democratico?
Probabilmente è troppo presto per dargli la santità, ma è una cosa meravigliosa. Ha dato energia a persone in tutto il paese. Ha mantenuto una serie di principi e valori morali, ed è stata una vittoria straordinaria. Ora spenderanno un’infinità di dollari per cercare di farlo fallire. Ma sono fiducioso. È così intelligente, così bravo, quello che ha costruito – quello di cui tutti parlano – è ampliare l’elettorato, non ridurlo.
Cosa pensi delle recenti discussioni su un possibile cessate il fuoco a Gaza?
Spero che ci sia un cessate il fuoco; un cessate il fuoco sulla fame e un cessate il fuoco sulla distruzione fisica di persone e luoghi. L’alleanza di Trump con Bibi Netanyahu non mi fa presagire nulla di buono. Tantomeno che Bibi ha scritto una lettera per candidare Trump al Premio Nobel per la Pace – ecco perché non esiste più la satira. I termini del cessate il fuoco saranno difficili. Perché Bibi vuole – lo dice anche adesso – eliminare lo Stato palestinese. Penso che un cessate il fuoco sia importante, che salverà delle vite, poi quello che succederà dopo il cessate il fuoco sarà una sfida straordinaria, per garantire che il popolo palestinese non venga completamente cancellato.
Vedi una via d’uscita dal conflitto apparentemente senza fine tra israeliani e palestinesi?
Ciò su cui mi concentro è: possiamo fare qualcosa per fare pressione sul nostro governo e sui nostri rappresentanti eletti affinché smettano di finanziare i crimini di guerra e i genocidi di migliaia di persone?
Quale sarà il prossimo passo del prolifico Robert Greenwald?
Per prima cosa, passerò tutto il tempo possibile a cercare di far sì che la gente veda e utilizzi questo film come strumento per cambiare le politiche del nostro paese. Ricordate: sono i nostri soldi a pagare. Se chiudessimo il rubinetto della finanza, si fermerebbe domani.
In secondo luogo, lavorerò per fermare le deportazioni, incoraggiando e sostenendo coloro che con pratiche di disobbedienza civile non violenta provano a fermare ciò che l’immigration and Customs Enforcement (Ice) sta facendo.
C’è qualcosa che vorresti aggiungere?
Spero che i lettori si registrino a questo link, ricevano il film, lo proiettino a casa, a scuola, sul posto di lavoro, in una moschea, in una chiesa, in una sinagoga. Il silenzio è complice. Non possiamo, come fecero molti durante la Seconda guerra mondiale, guardarci poi indietro dicendo: «Perché non ho fatto qualcosa?». Bisogna fare qualcosa ora. Spero che le persone usino il film come strumento per fare qualcosa.
*Robert Greenwald è il fondatore e presidente di Brave New Films, società di produzione no-profit che gira e distribuisce documentari d’inchiesta sulla politica e sulla giustizia sociale. Ed Rampell è uno storico e critico cinematografico di Los Angeles e autore di Progressive Hollywood: A People’s Film History of the United states. Il suo romanzo sul movimento per la sovranità dei nativi hawaiani e i diritti degli indigeni, The Disinherited: Blood Blalahs, sarà pubblicato questa primavera. Questo testo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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