venerdì 25 luglio 2025

Guerra e menzogne: come l’Italia rifornisce Israele

Una utile inchiesta che smaschera il ruolo centrale del governo Meloni nel genocidio nazi/sionista e che mette al centro nel sostegno alla Resistenza del Popolo Palestinese la denuncia e iniziative contro il governo Meloni con le mani sporche del sangue dei gazawi

Giulia Benvegnù. Dopo il 7 ottobre 2023 l'Italia ha esportato verso Israele materiali come cordoni detonanti, nitrato di ammonio e trizio classificandoli come forniture civili e quindi fuori dai controlli della legge 185/1990. Alla luce di questo quanto è ancora efficace quella legge nel garantire trasparenza e controllo democratico sull'export strategico?

Elisa Brunelli. La legge 185 è una legge importante, frutto di lunghe battaglie nate dal basso a seguito anche di una serie di scandali. E questa legge è stata importante perché di fatto è una delle più avanzate in materia e ha anche imposto obblighi di trasparenza e autorizzazione e, in certi casi, anche divieti di

esportazione di materiale d'armamento verso Paesi di guerra. Infatti negli ultimi anni, e anche al giorno d’oggi, sono molti i tentativi di attacco e indebolimento di questa legge, tutti funzionali al fatto di favorire l'industria bellica. Certo non è una legge perfetta. Nella legge si parla di controllo di materiale prevalentemente destinato all'industria bellica, ma è una legge che in ogni caso si integra con altri strumenti normativi. In questo caso cito il Regolamento europeo sull'esportazione di materiale a duplice uso, che sottopone ad autorizzazione una serie di beni, prodotti e tecnologie menzionati in un allegato, che possono essere utilizzati in ambito militare, nucleare, nonché per la violazione dei diritti umani. Per questi prodotti scatta automaticamente l'obbligo di autorizzazione, che per lo Stato italiano è l’UAMA, ma anche una serie di prodotti che non vengono menzionati nell'allegato possono essere soggetti ad autorizzazione o divieti, qualora ne sussistano i motivi o emergessero degli elementi informativi a riguardo. Questo è avvenuto, per esempio, due anni fa: il Ministero degli Esteri, con apposito decreto, ha sottoposto ad autorizzazione una serie di materiali ufficialmente civili verso Paesi che hanno rapporti commerciali con la Russia, che in questo caso erano dei motori che la Russia utilizzava per costruire velivoli militari. Quindi, diciamo che non sono gli strumenti normativi che mancano, ma è la volontà politica. Voglio menzionare il fatto che l'Italia nel 2024, quindi nelle fasi più brutali e sconvolgenti del genocidio della popolazione palestinese, ha esportato 140 tonnellate di cordoni detonanti e migliaia di tonnellate di nitrato d'ammonio nella forma più pura. E Israele sta utilizzando ampiamente questi materiali: lo hanno dichiarato gli analisti militare e lo dichiarano i soldati che hanno preso parte all'invasione di terra per spazzare via intere aree della Striscia di Gaza e favorire poi l'espulsione dei palestinesi e l'occupazione israeliana della Striscia. Abbiamo anche visto, sempre dalle testimonianze dei soldati, le difficoltà nel portare avanti questo lavoro, perché richiedeva l’impiego quotidiano di interi plotoni. A un certo punto, l’esplosivo è finito, perché ne usavano in grandi quantità. Anche perché la Spagna, per esempio, che è sempre stata il fornitore principale del nitrato d'ammonio a Israele, dopo il 7 ottobre ha sospeso le forniture e l'Italia ha iniziato ad esportare.

G.B. Quindi, proseguendo nell'analisi della tua inchiesta, possiamo notare come il trizio emerga come materiale radioattivo rarissimo e strategico, in quanto potenzialmente impiegabile per lo sviluppo di armi termonucleari. Dai dati che hai riportato all'interno dell’inchiesta, dal 2023 l'Italia ne ha esportato quantità enormi e sempre in quantità crescenti verso Israele, diventandone il principale fornitore, secondo le statistiche del commercio disponibili. Durante il question time in Senato, il Ministro degli Esteri Tajani ha affermato che questi invii abbiano solo finalità civili. È davvero un'ipotesi credibile secondo te? E quali sono i rischi di questa esportazione in un Paese che non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione nucleare?

E.B. No, non è certo un'ipotesi credibile. Tra l'altro Tajani non ha dato alcuna spiegazione rispetto all'esportazione di materiale esplosivo e di precursori come il nitrato d'ammonio. In questo caso si era limitato falsamente a dire che non c'è bisogno di un'autorizzazione. Se così non fosse, pensate a un qualsiasi gruppo paramilitare o terroristico che può acquistare liberamente questo materiale. Le forniture, anche se civili, per esempio di cordoni detonanti, sono autorizzate dalle prefetture e l'esportazione di materiale radioattivo dal Ministero dell'Ambiente; quindi questa è la prima falsità. Se guardiamo al trizio, anche in questo caso quanto affermato da Tajani non appare un’ipotesi plausibile. Tajani parlava di forniture destinate alla ricerca medica e alla produzione di dispositivi medici, ma interpellando esperti come Francesco Forti – dell’Università di Pisa e segretario dell’Unione Scienziati per il Disarmo – è emerso che le quantità esportate risultano piuttosto inverosimili per un uso civile. Anche analizzando, ad esempio, i movimenti degli ultimi anni di trizio – che, ricordo, l’Italia non può produrre autonomamente – emerge che dal 2022 ne abbiamo importato in grandi quantità (circa 20 milioni) dalla Germania, per poi esportarlo verso paesi strategici, se consideriamo gli equilibri internazionali, come Corea del Sud, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Prima del 7 ottobre 2023, le quantità inviate a Israele sono state minime e sporadiche. Dopo il 7 ottobre, sono aumentate progressivamente, con invii mensili di valore sempre più elevato. Israele, che – ricordiamolo – non aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare, ma dispone comunque di una capacità nucleare ampiamente documentata, sia da fughe di notizie sia da immagini satellitari. Ci troviamo quindi nel pieno di una delle più gravi crisi internazionali degli ultimi decenni. O abbiamo avviato il più grande programma di cooperazione in ambito medico mai visto, e solo con alcuni Paesi, oppure questi dati non tornano. Va inoltre considerato che i centri civili in Israele sono, in ogni caso, strettamente connessi all’apparato militare. Se prendiamo, per esempio, il centro di ricerca nucleare SOREQ, ufficialmente dedicato alla ricerca civile, vediamo che opera in stretta collaborazione con il Ministero della Difesa per lo sviluppo di tecnologie destinate all’esercito. Inoltre, poche settimane fa, il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica ha dichiarato di aver ricevuto alcuni documenti relativi al programma nucleare israeliano, che sembrano provenire proprio da questo centro ufficialmente dedicato alla ricerca civile. Va anche detto che solo poche settimane prima del massiccio attacco sferrato da Tel Aviv, e successivamente dagli Stati Uniti, contro l’Iran, i media israeliani e statunitensi avevano lanciato l’allarme per la scoperta di una società chimica situata nella parte settentrionale dell’Iran, la cui attività principale sarebbe stata, secondo quanto riportato da questi stessi media, l’estrazione del trizio. Questa azienda era stata definita un impianto segreto iraniano per la produzione di armi nucleari. Quindi, ecco, i dati non tornano, le risposte del ministero – che tra l’altro non ha mai voluto fornire chiarimenti quando è stato interpellato durante la fase di realizzazione di questa inchiesta – non tornano, e di certo appaiono anche piuttosto evasive.

G.B. La tua inchiesta approfondisce uno dei temi più nominati nelle mobilitazioni contro la guerra e contro il genocidio a Gaza che hanno segnato gli ultimi anni, ovvero il tema del dual use. In un contesto globale segnato da una crescente escalation militare e da tensioni tra blocchi, quanto incide l'approccio dual use nella normalizzazione del riarmo e nella diffusione opaca di tecnologie strategiche? Ritieni inoltre che questa ambiguità normativa stia diventando uno strumento sistemico per alimentare l'economia di guerra anche al di fuori del Medio Oriente?

E.B. Io direi il contrario: che invece ci stiamo avvicinando a una fase successiva, perché l’approccio dual use è sempre stato, negli anni, la chiave di volta per aprire le porte — e i finanziamenti — all’industria bellica, salvando al tempo stesso le apparenze. Sono anni che ci si interroga, per esempio, sul ruolo dell’università, sull’entrismo, ad esempio, di Leonardo nei campi della ricerca. E quello che dicono i movimenti che si mobilitano all’interno dell’università — che chiedono, per esempio, la sospensione degli accordi di ricerca con Israele e che vengono puntualmente tacciati di ignoranza e antisemitismo — in realtà viene ripetuto di pari passo dagli amministratori delegati delle più importanti società tecnologiche attive nel campo della difesa israeliana. Vorrei a tal proposito leggervi un passaggio di un editoriale comparso qualche settimana fa sul portale specializzato Israel Defense, a firma dell’amministratore delegato di due realtà chiave del sistema israeliano della difesa e della sicurezza. In questo editoriale si sottolinea come per anni le imprese attive nel settore abbiano nascosto le proprie attività dietro la maschera di potenziali applicazioni civili. “Gli investitori cercavano giustificazioni civili e i fondi di investimento tentavano di presentarsi come interessati esclusivamente a tecnologie dual use. Nella maggior parte dei casi si trattava di una manovra d'immagine, uno stratagemma di marketing volto ad addolcire la pillola e a spalancare le porte ai finanziamenti”. Poi l'editoriale prosegue: i tempi sono maturi, il tema del riarmo è stato sdoganato e non c’è motivo per cui Israele debba essere escluso da questo settore. Non c’è più, di fatto, bisogno di addolcire la pillola: la collaborazione con l’industria militare non è più un marchio d’infamia, ma di prestigio. Quindi ecco, tornando alla tua domanda, l’approccio dual use è sempre stato utilizzato. Forse sono stati in pochi ad accorgersene, ma la fase che si apre ora è, con ogni probabilità, quella in cui si getterà definitivamente la maschera.

G.B. Quello che ci stai dicendo e quello che hai scritto nella tua inchiesta ha portato alla luce dati e collegamenti finora ignorati dal dibattito pubblico e parlamentare. A questo punto, come ultima domanda, vorrei chiederti se tu pensi che ci siano margini concreti perché questo lavoro giornalistico apra un confronto serio sulle responsabilità dell'Italia.

E.B. Un lavoro giornalistico può offrire degli input, può essere uno strumento utile, ma di certo non basta ad aprire un confronto serio sulle responsabilità dell’Italia e, più in generale, sul tema del riarmo. Io credo che, come è avvenuto in passato, sia la spinta dal basso a fare la differenza. Sono i movimenti, a mio parere, che devono essere in grado di costruire sinergie, alleanze e opportunità. Il tema del riarmo è al centro dell’agenda politica dei Paesi del G7, delle Leghe arabe, e di conseguenza spetta anche alla società civile il compito di mettere al centro dell’agenda i modi e gli strumenti per contrastarlo. Credo che il momento sia adesso, ed è sempre più urgente, per quanto debba restare un nodo centrale nell’agenda politica di tutti. 

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