Nel suo messaggio di Pasqua, papa Francesco l’ha detto senza mezzi termini: “La pandemia è ancora in pieno corso; la crisi sociale ed economica è molto pesante, specialmente per i più poveri; malgrado questo – ed è scandaloso – non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo di oggi […]”.
In effetti – un anno fa – con la diffusione del coronavirus in tutto il mondo, l’autorevole rivista statunitense Foreign Affairs si chiedeva se la pandemia non avesse anche effetti collaterali “positivi” sulla fine delle guerre. Speranza subito smentita dalla continuità dei conflitti armati più sanguinosi come quelli in Yemen, Siria, Afghanistan, Libia, Repubblica Centrafricana ecc. e dalla deflagrazione di altri come quelli in Etiopia e Mozambico…
Insomma, se non c’erano indizi che il coronavirus portasse la pace; sembrava almeno certo che la maggioranza dei Governi avrebbero ridotto alcune delle spese previste nei bilanci statali, cominciando da quelle militari, per far fronte all’emergenza sanitaria e per assistere le popolazioni colpite dalla crisi economica e sociale, indotta dalle misure di lockdown. Al punto che, un anno fa, la società di consulenza americana Avascent, specializzata nel settore aerospaziale e difesa, aveva stimato tagli complessivi ai budget della Difesa in Europa tra i 21 e i 56 miliardi di euro.
Lo scandalo del riarmo
Contrariamente alle previsioni stiamo invece assistendo in piena pandemia a uno “scandaloso” e, per molti versi inaspettato, riarmo mondiale. Secondo l’analisi del britannico International Institute for Strategic Studies, nel 2020 rispetto al 2019, le spese militari nel mondo sono cresciute del 3,9 per cento (in termini reali), nonostante il PIL sia diminuito del 3,5 per cento. E nel 2021 si attende un’ulteriore crescita intorno al 3 per cento.
I maggiori paesi europei, tra cui l’Italia, sono quelli al mondo (insieme a Cina, Stati Uniti e Australia) in cui le spese militari stanno aumentando di più: ben 190 miliardi di dollari rispetto al 2014. Unica importante eccezione la Russia, che ha ridotto dal 2020 fino al 2023 il budget per la Difesa. Con il perdurare della pandemia e l’aggravarsi della crisi economica, il buon senso avrebbe dovuto spingere i singoli Stati a rovesciare le priorità di spesa. In Italia, ad esempio, rinunciare all’acquisto di un caccia F35 avrebbe consentito di allestire – con i soldi risparmiati – 3.244 posti letto in terapia intensiva. Per non parlare del costo di esercizio di un F35, pari a 40 mila euro per un’ora di volo, superiore al costo annuo di un infermiere ospedaliero.
Sono davvero gli F35 a metterci al sicuro? La pandemia dovuta al Covid-19 ha reso evidente che la nostra sicurezza non è garantita dalle armi, quanto piuttosto dal potenziamento di sanità e servizi e dalla conservazione della Madre Terra. Nonostante ciò si continua ad andare in direzione contraria.
Lo confermano i dati inerenti al Bilancio del Ministero della Difesa in Italia, aumentato nei due anni della pandemia (2020-2021) del 14,7 per cento rispetto al 2019. In soli 2 anni ben 3 miliardi e 150 milioni di euro in più, di cui 2 miliardi e 826 milioni destinati alle spese d’esercizio e agli investimenti in nuovi sistemi d’arma. La voce investimenti nel budget 2021 della Difesa supera i 4 miliardi di euro. Ma a questi soldi dobbiamo aggiungere altri 3 miliardi di euro d’investimenti previsti in quattro specifici capitoli di spesa del Ministero per lo Sviluppo Economico (MISE) per programmi militari, più il capitolo “Interventi nei settori industriali ad alta tecnologia” da cui attingono, per circa un terzo, anche aziende del settore aerospaziale e difesa come Leonardo.
Se tutto ciò non bastasse, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha assicurato gli Stati Uniti e gli altri alleati NATO che l’Italia, malgrado sia paralizzata dalla “crisi economica che la pandemia ha scatenato” (come l’ha definita Mario Draghi), porterà la propria spesa militare (in termini reali) a 36 miliardi di euro annui (+ 50 per cento rispetto al 2020). Un incremento folle! Per essere raggiunto si attingeranno nei prossimi anni ben 36,7 miliardi di euro (oltre il 25 per cento) dai “Fondi pluriennali d’investimento”, assegnati fino al 2034 al MISE. Di questi, circa 27 miliardi di euro saranno usati per investimenti specifici in nuovi sistemi d’arma in aggiunta al budget ordinario della Difesa [stime dell’Osservatorio sulle spese militari in Italia (Mil€x)].
Il piano di ripresa e resilienza “verde militare”
Ma non c’è limite al peggio! Nel clima che precedeva la Pasqua le commissioni Difesa di Camera e Senato hanno votato all’unanimità un documento (condiviso dal Governo) finalizzato a inserire progetti di natura militare nel “Piano nazionale di ripresa e resilienza”… L’idrovora del complesso militare-industriale punta in questo modo a prosciugare altri 30 miliardi di euro dai finanziamenti europei del recovery fund.
Almeno 5 miliardi di euro per applicazioni militari nei settori della cibernetica, delle comunicazioni, dello spazio e dell’intelligenza artificiale con progetti veicolati direttamente dal Ministero della Difesa. Altri 25 miliardi di euro con progetti veicolati dal MISE a beneficio del settore militare aerospaziale. Come la partecipazione al progetto del caccia-bombardiere Tempest di “sesta generazione” dell’inglese BAE System (dopo lo spreco immenso di risorse nel JFS F35 dell’americana Lockheed Martin di “quinta generazione”) e lo sviluppo di nuovi elicotteri/convertiplani militari, di droni, di tecnologie spaziali, satellitari e sottomarine avanzate ecc..
In questo scenario nel quale si “riempiono gli arsenali di guerra” e si pianifica un aumento ingente e strutturale delle spese militari nel nostro Paese e nel resto dell’Unione Europea, parlare di riconversione nel civile dell’industria militare può apparire un esercizio del tutto inutile. E tra le 12 proposte di pace e disarmo per il piano nazionale di ripresa e resilienza, contenute nel documento “Riconversione per un’economia disarmata e sostenibile”, tre riguardano proprio questo tema.
La proposta 3 chiede d’inserire nei capitoli del piano inerenti la “transizione ecologica” e l’“istruzione e ricerca” la componente della riconversione al civile dell’industria militare. La proposta 4, invece, chiede l’istituzione dell’Agenzia nazionale per la riconversione dotata di fondi necessari… Ancora prima di essere ascoltate e diventare oggetto di confronto queste proposte sono state stracciate e cestinate dall’orientamento unanime di Governo e Parlamento di assegnare al comparto militare una quota rilevante del recovery plan con cui accedere ai fondi pubblici europei del “NextGenerationEU”. Come hanno scritto Francesco Vignarca e Giorgio Beretta a nome della Rete italiana pace e disarmo: “[…] Cosa tutto questo riguardi uno «strumento finanziario che è temporaneo per la ripresa che contribuirà a riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia di coronavirus per creare un’Europa più verde, digitale,resiliente e adeguata alle sfide presenti e future» è difficile da comprendere” [Tutti uniti in parlamento per un Recovery Plan armato, quotidiano «Il manifesto», 3 aprile 2021].
La speranza è che a Bruxelles siano fatte valere nei confronti dell’Italia le linee-guida europee per il NextGenerationEU”, i cui tre assi strategici condivisi (digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale) escludono interventi a favore del comparto Difesa e per programmi militari.
La proposta 5 è la sola tuttora valida, inserendosi su una misura specifica relativa all’area di crisi del Sulcis in Sardegna. In questo caso si tratta d’includere tra le priorità di utilizzo dei fondi, anche la riconversione della produzione di armamenti in altre produzioni ad uso civile, riqualificando il territorio, valorizzando le professionalità e garantendo occupazione e stabilità lavorativa. È una doverosa risposta a uno dei territori più poveri d’Italia, martoriato da chiusure e ristrutturazioni industriali a cui si aggiunge la crisi della fabbrica del gruppo Rheinmetall a Dumusnovas (Rwm Italia). Crisi indotta da una giusta causa: il blocco dell’esportazione all’Arabia Saudita delle bombe prodotte, destinate a essere impiegate nella guerra in Yemen.
L’industria aerospaziale: tra passato e futuro
Il crollo dei viaggi per lavoro e turismo – a causa del coronavirus – è devastante per l’industria aerospaziale in tutto il mondo (per il settore degli aerei commerciali) cosi come per le costruzioni navali (cruise ship and ferry). Gli ordini di nuovi aerei commerciali sono stati annullati o ritardati (a differenza degli aerei militari) e le aziende del settore hanno dovuto rallentare i livelli di produzione per allinearsi alla riduzione della domanda.
A questo punto, per capire meglio le dinamiche future nell’industria aerospaziale (dove si concentrano buona parte delle produzioni a scopo militare), è bene fare un passo indietro. Valutiamo quanto avvenuto in Europa nel tempo. La componente di fatturato civile nel settore aerospaziale – a partire dal 1990 – supera e distanzia progressivamente la componente di fatturato militare. Se analizziamo un periodo di 40 anni (dal 1980 al 2019) assistiamo a un crollo del numero di occupati nel militare (da 382 mila a 160 mila) e a una crescita degli occupati nel civile (da 197 mila a 405 mila).
Dietro a questi numeri c’è il successo del più importante programma industriale e tecnologico sviluppato a livello europeo: l’Airbus. Grazie a questo programma in Francia, Germania e Spagna il baricentro dell’industria aerospaziale, negli ultimi 40 anni, si sposta decisamente nel campo civile degli aerei commerciali. Nello stesso periodo, invece, l’industria aerospaziale italiana, facendo la colpevole scelta di non partecipare come partner di primo livello al programma Airbus, si è condannata a un ruolo di semplice sub-fornitore dei maggiori player americani dell’industria aerospaziale (Lockheed Martin e Boeing), specie in campo militare.
La scelta politica di Finmeccanica (ora Leonardo) è costata la marginalità dell’industria aerospaziale italiana nella ideazione, sviluppo e produzione di aerei civili. Ma è costata molto anche in termini di mancata creazione di nuovi posti di lavoro. Infatti, mentre in Francia, Germania e Spagna, il calo degli occupati nel militare è stato ampiamente compensato dalla crescita dei posti di lavoro nel civile (+105 per cento), in Italia si è perso il 50 per cento degli occupati nel militare (come negli altri Paesi europei), ma senza alcuna compensazione nel civile (tranne che nel comparto degli elicotteri).
Da un anno la realtà consolidata dell’industria aerospaziale a scala globale e nei singoli paesi sta subendo – come gran parte delle attività economiche – un forte impatto dovuto al crollo nella domanda dei viaggi aerei. La prima tendenza, quindi, che si registra in discontinuità con il recente passato, è l’andamento disomogeneo della domanda nei due settori, quello commerciale in contrazione e quello della difesa, sostenuto dall’aumento delle spese militari. Il settore commerciale si riprenderà lentamente, poiché la domanda di viaggi non dovrebbe tornare ai livelli precedenti al Covid-19 prima del 2024. Viceversa il settore per la difesa rimarrà globalmente stabile, ma crescerà sensibilmente in Europa (a eccezione della Russia), Cina e Stati Uniti. Paesi impegnati – come si è visto – ad accrescere le loro capacità militari e i propri budget della difesa.
La seconda tendenza, comune a tutta la filiera produttiva del settore aerospaziale per la difesa nei diversi paesi, Russia compresa, sono i ritardi di programmazione e l’aumento dei costi dovuti alle frequenti interruzioni nella complessa catena di approvvigionamento globale (di componenti e aero-strutture) a causa della pandemia. Per queste ragioni l’enfasi posta nel settore si concentrerà sulla trasformazione delle catene di approvvigionamento in reti più resilienti e dinamiche, con scelte di reshoring specieda parte degli Stati Uniti. Scelta che potrebbe spostare alcune produzioni manifatturiere del gruppo Leonardo e dei suoi sub-fornitori negli Usa.
Verso una riconversione “capovolta” dal civile al militare?
Assisteremo, quindi, nell’industria aerospaziale e della difesa a una riconversione dal civile al militare? In un certo senso sì! Se ci riferiamo ai volumi di affari (fatturati, profitti, export) e alle risorse destinate alla ricerca e sviluppo. Se, invece, lo sguardo è rivolto all’occupazione verificheremo nel settore una progressiva riduzione dei posti di lavoro, nonostante le considerevoli risorse iniettate dagli Stati a sostegno del complesso militare-industriale.
Chi ha già percorso, per scelta politica e non per necessità, una riconversione alla “rovescia” è Leonardo, primo gruppo industriale italiano del settore e 12° al mondo. Dal 1948 al 2016 si chiamava Finmeccanica. Un gruppo industriale integrato storicamente fra il militare e il civile, con l’obiettivo – fino al 1996 – di ampliare il peso di quest’ultimo. Specie dal 1987 al 1996 quando, dopo aver acquisito il controllo di Elsag Bailey e St Microelectronics dalla Stet (controllata da IRI come Finmeccanica), crescendo per linee interne (diversificazione nei campi dell’automazione di fabbrica, dei servizi, dei trasporti; nel bio-medicale, nell’energia eolica ecc.) e per linee esterne (nuove acquisizioni nel campo dell’automazione industriale, della robotica, del bio-medicale ecc.), era arrivata a un fatturato nel civile superiore al 75 per cento del fatturato totale.
Dal 1997 in poi inizia, invece, un processo di dismissioni di gran parte delle società controllate operanti nel civile, compresi i pochi ambiti in cui il Gruppo vantava una leadership tecnologica su scala globale (come l’automazione industriale e la microelettronica), sia per fare “cassa”, sia per spostare il baricentro sul business militare… A distanza di molti anni, nel 2019, il 72 per cento del fatturato totale del Gruppo Leonardo – pari a 15 miliardi e 432 milioni di dollari – dipende dal militare. Il peso specifico del fatturato militare e civile, rispetto a quello del 1996, si è completamente capovolto.
Sebbene nell’immaginario collettivo un’impresa come Leonardo sia percepita in Italia come redditizia per il sistema paese, proprio per il peso delle sue produzioni militari, la realtà risulta alquanto diversa. Greenpeace, rielaborando i dati della Borsa Italiana sui dividendi degli utili delle società partecipate dal Ministero Economia e Finanze (MEF) e quotate in borsa, ha dimostrato che (a parità di quota azionaria) i dividendi incassati nel 2019 dal MEF, ad esempio, per la partecipazione azionaria in Enel sono 40 volte superiori a quelli di Leonardo.
Per non parlare del totale dei lavoratori occupati nel Gruppo che in Italia, in dieci anni dal 2010 al 2019, sono diminuiti da 43 mila e 31 mila e nel mondo da oltre 75 mila a meno di 50 mila. Riduzione dovuta, solo in parte, alle dismissioni di Ansaldo Energia, Ansaldo-Breda e Ansaldo Sts.
Camminare domandandosi
Se questi sono i vantaggi finanziari e occupazionali della “corsa agli armamenti” e di una politica pubblica subalterna al complesso militare-industriale, è giusto chiederci cosa vogliono le persone in questo momento. E continuare a camminare, domandando…
Come si è domandata suor Alessandra Smerilli, economista e docente universitaria, coordinatrice della commissione vaticana per il Covid-19, in un articolo pubblicato su L’Osservatore Romano l’anno scorso: “[…] Abbiamo bisogno di uno Stato militarmente forte, o di uno Stato che investa in beni comuni?” […] Ha senso continuare a fare massicci investimenti in armi se poi le vite umane non possono essere salvate perché mancano le strutture sanitarie e le cure adeguate?”. […] A cosa servono arsenali per essere più sicuri, se poi basta una manciata di persone infette per far dilagare l’epidemia e provocare tante vittime? La pandemia non conosce confini. Sappiamo bene che il tema è più complicato di quello che sembra: la corsa agli armamenti è un dilemma che vede gli Stati, per paura degli altri Stati, o per voler primeggiare, continuare ad aumentare i propri arsenali militari. Ma questo genera un circolo vizioso che non finisce mai, spingendo ad aumentare sempre più le spese militari. È una competizione posizionale che spinge a spese irrazionali pur di mantenere le proprie posizioni. Tale tipo di corsa si arresta solo con una volontà collettiva di auto-delimitazione. Abbiamo bisogno di leader coraggiosi che dimostrino di credere al bene comune, che si impegnino per garantire quello di cui oggi c’è maggior bisogno. Abbiamo bisogno di un patto collettivo per indirizzare le risorse per la sicurezza nella salute e per il benessere (well-being)” [«L’Osservatore Romano», 7 luglio 2020, Più risorse per garantire cibo, salute e lavoro].
Tante domande alle quali le istituzioni in Italia, come nel resto d’Europa e nel mondo, stanno dando – come abbiamo documentato – una risposta negativa, tradendo le aspettative di un cambio profondo nelle politiche pubbliche. Eppure nella fase di emergenza non erano mancati i casi nei quali si è dimostrato concretamente che la riconversione nel civile dell’industria militare è possibile, oltre che auspicabile. Basta volerlo!
La riconversione dal militare al civile è possibile
Negli Usa l’anno scorso si sono coinvolte le capacità produttive dell’industria militare per accelerare la produzione di forniture mediche e equipaggiamento protettivo necessario per gestire l’emergenza sanitaria. Interessante, come esempio, è il caso della Puritan Medical Products, un’azienda familiare con circa 500 dipendenti e un impianto di produzione a Guilford, nel Maine. L’azienda nell’aprile 2020 era l’unico produttore di tamponi approvati per i test Covid. La Puritan non aveva idea di come aumentare la propria capacità produttiva, di come e dove procurarsi nuovi macchinari e linee dedicate al confezionamento del prodotto. I funzionari dell’Air Force Research Laboratory hanno trovato rapidamente una vicina azienda del settore Difesa in grado di aiutare la Puritan: la General Dynamics Bath Iron Works, che costruisce il cacciatorpediniere di classe Arleigh Burke per la Marina Militare.
La Bath Iron Works insieme alla propria catena di sub-fornitori ha convertito una parte delle sue capacità produttive per fabbricare le macchine necessarie a Puritan per allestire un secondo stabilimento a Pittsfield, nel Maine. Con un contratto da 76 milioni di dollari la Puritan ha iniziato a maggio a produrre in questo sito 20-40 milioni di tamponi in più al mese. E nei successivi tre mesi, raggiunto il pieno utilizzo degli impianti, è stato realizzato un terzo stabilimento in Tennessee, utilizzando sempre macchine realizzate da Bath Iron Works per il confezionamento del prodotto.
In Israele, invece, c’è stata un’esperienza significativa di riconversione dalla produzione di missili a quella di ventilatori [dall’inglese ventilator, è un dispositivo usato per la ventilazione meccanica che assiste o sostituisce una funzione dell’apparato respiratorio]. Per realizzarla sono state coinvolte la piattaforma industriale del Ministero della Difesa, la Israel Aerospace Industries di proprietà del Governo e la Inovytec, un produttore privato di dispositivi medici. In brevissimo tempo un sito di produzione missilistica della Israel AerospaceIndustries è stato convertito per produrre ventilatori di serie. In pochi giorni la linea di produzione missilistica è stata ribattezzata per testare e assemblare diversi tipi di ventilatori.
Questi due casi di trasformazione, in tempi rapidissimi, di linee di produzione per armamenti e di tecnologie militari verso strumenti per la vita, dimostrano (se fosse ancora necessario) che la riconversione industriale, da usi militari a usi civili è possibile. A condizione che si decida di riorientare gli investimenti pubblici su “cosa produrre” e “per chi produrre”, priorizzando la sicurezza alimentare, ambientale e sanitaria.
Gianni Alioti per “Azione nonviolenta”
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