Il palcoscenico è cambiato all’improvviso. L’erba verde del campo ha lasciato spazio al legno marrone delle poltrone del parlamento, le maglie colorate delle nazionali sono state sostituite dai colletti

bianchi e dalle cravatte dei politici. E tutto nell’arco di pochi giorni. Perché la Copa América che partirà domenica (fischio di inizio alle 23) ha perso la sua natura originale. La competizione sportiva si è trasformata in battaglia politica, in gara elettorale, in una caccia al consenso che non si gioca più nelle piazze, ma negli stadi. Una vicenda da film, anzi, da serie televisiva. Perché sono anni che Jair Bolsonaro converte il calcio in propaganda. Il presidente brasiliano è un re Mida moderno. Tutto quello che tocca diventa spot, un tassello di una sua personalissima (auto)narrazione volta ad affabulare il popolo per trasformarlo in suo elettorato. L’ultima puntata è andata in onda a inizio mese, con l’annuncio del Brasile come nuovo paese ospitante della Copa América dopo le rinunce di Argentina e Colombia.

L’idea del presidente è piuttosto rudimentale: trasformare l’insuccesso altrui nella vittoria del Brasile, nella dimostrazione della superiorità di un Paese. L’incipit della storia è piuttosto particolare. Il 20 maggio la Colombia, la nazione che doveva organizzare il torneo fra i Paesi del Sudamerica insieme all’Argentina, si chiama fuori. Colpa della pandemia, certo, ma anche di una situazione sociale fuori controllo. Da fine aprile migliaia di persone scendono in piazza contro il presidente Duque. Tutti i giorni. E le proteste sfociano sempre in guerriglia urbana. I manifestanti puntano il dito contro la riforma fiscale voluta dal Governo. E ottengono una prima vittoria. Il piano viene ritirato, il ministro delle Finanze viene sollevato dal proprio incarico. Ma non basta. I colombiani contestano l’intera gestione della pandemia. Perché il lunghissimo lockdown imposto Duque è stato una scure che ha decapitato circa mezzo milione di attività economiche. E ha creato 2,8 milioni di “nuovi” poveri. Organizzare una manifestazione internazionale diventa praticamente impossibile. Così la Colombia si sfila.

Ora l’organizzazione del torneo è tutta in mano all’Argentina. Solo che anche lì le cose non vanno molto meglio. In quei giorni i contagi giornalieri sfondano quota 40mila casi. Al resto ci pensa un sondaggio: il 70% degli argentini è contrario allo svolgimento della competizione. La Conmebol si mette in contatto con il presidente Alberto Fernández. Chiede garanzie sull’organizzazione del torneo. E le ottiene. Almeno per qualche giorno. Poco dopo la ministra della Salute Carla Vizzotti mette in dubbio la possibilità di giocare la Copa durante la fase più acuta della pandemia. Poi il ministro dell’Interno Eduardo “Wado” de Pedro rilascia un’intervista alla televisione. Le parole che pronuncia pesano come un macigno: accogliere il torneo è “molto complicato“. Passano appena undici minuti. Poi la Conmebol dà l’annuncio unilaterale: la Copa América non si giocherà in Argentina. Serve una nuova sede. E anche alla svelta. Qualcuno indica il Cile, altri pensano al Paraguay. La soluzione arriva poco dopo. La Conmebol contatta il Brasile, che aveva ospitato l’edizione del 2019 (vinta dai padroni di casa) e i Mondiali del 2014. L’organizzazione sportiva è rodata, dunque.

Quella sanitaria un po’ meno. Perché pochi Paesi che sono riusciti a gestire la pandemia in maniera peggiore. A inizio giugno, quindi proprio mentre si decideva di affidare la competizione al Brasile, i morti avevano superato quota 460mila, mentre 16,5 milioni di persone erano già state contagiate. Senza contare che le infezioni marciavano spedite, al ritmo di 41 mila al giorno. Ad aprile, in un documento redatto da 200 accademici di tutto il mondo (fra cui anche il premio Nobel Charles Rice) si leggeva che il Brasile è diventato una “fabbrica di varianti, dove circolano 92 ceppi diversi di Coronavirus”. Al resto ci aveva pensato la rivelazione di un’operatrice sanitaria: a causa della mancanza di anestetici i pazienti venivano legati al letto e intubati. Da coscienti. Una pratica che Aureo do Carmo Filho, uno dei medici della terapia intensiva, aveva paragonato a “una tortura”. Da allora, però, le cose sono addirittura peggiorate. Ieri i nuovi casi quotidiani accertati hanno superato quota 50mila e i morti stono stati quasi 3mila.