Dagli ultimi calcoli ufficiali nell’ultimo anno si sono persi circa 1 milione di posti di lavoro, e anche ammettendo che dalle “riapertura” siano riprese le assunzioni, sono, come si vede da questo articolo, tutte precarie! Mancano ancora 800mila posti di lavoro di quelli già persi, ai quali bisogna aggiungere quelli che si perderanno a causa dello sblocco dei licenziamenti, per non parlare dell’“esplosione del part time” come viene chiamata in questo articolo della Repubblica di ieri.
Quando parlano di ripresa, tutti quanti, dai padroni ai
giornalisti, è solo per darsi coraggio e continuare a ingannare la cosiddetta
opinione pubblica… dall’altro lato, comunque, con gli aiuti di stato sotto ogni
forma, la ripresa è di sicuro quella dei profitti per una bella fetta di padroni!
In questo “aiuto di stato” è compreso naturalmente quello
delle organizzazioni confederali e dei vari partiti politici come quello della sottosegretaria
leghista al Lavoro (da schiavi): "In questa fase bisogna aiutare le
aziende con il massimo della flessibilità possibile", "Anche
reintroducendo i voucher e levando tutti i vincoli e le causali ai contratti a
termine".
Sottolineiamo alcune frasi di questo interessante articolo
della Repubblica.
I precari spingono la ripresa. Da gennaio assunti in 200
mila
ROMA - È l'eterno ritorno dell'uguale. Il giorno della marmotta applicato al lavoro. Ricominciano a crescere i contratti a termine, falcidiati dalla pandemia. Lo fanno con forza: quasi 200 mila da
gennaio. E c'era da aspettarselo. Perché in Italia la vera politica attiva, l'unico ammortizzatore che funziona, è il contrattino: si caricano i disoccupati e li si scarica alla velocità della luce quando si mette male o cambiano gli incentivi. Si ripete ad ogni crisi, questa non fa eccezione. Ma cosa succede quando la precarietà diventa endemica? Quando la ripresa di un Paese si lega a posti incerti, poche ore, paghe basse, vita precaria e pensioni inevitabilmente da fame?In vent'anni i contratti a termine sono esplosi da 2 a 3 milioni. Mentre la percentuale di quelli stabili crollava di quattro punti loro li guadagnavano. Sprofondati per il Covid a 2,6 milioni, ora già sono a 2,8 non lontani dal record del 2019. La cavalcata degli anni Duemila ci racconta però anche un'altra esplosione incontrollata: quella del part-time, trasversale a tutti i contratti; anche quelli mitici a tempo indeterminato. Ebbene nel 2000 lavoravano a tempo parziale un milione e mezzo di lavoratori, dopo vent'anni siamo a 3 milioni e mezzo. In termini di quote siamo passati dal 10% al 30%: quasi un terzo dei lavoratori dipendenti italiani è a part-time, con picchi del 60% in sanità, scuola, alloggi, ristorazione, 38% nel commercio.
L'Istat ci dice che a fine 2020 il 65% di questo era
part-time involontario. Non scelto, non voluto per stare sul divano. Ma imposto
dalle imprese che preferiscono massimizzare flessibilità e rotazione degli
addetti. Lo fanno quando c'è incertezza come ora sul rimbalzo post-Covid. Ma lo
fanno anche quando la ripresa si consolida. I numeri impressionano. Dal crac
della Lehman Brothers, quando i dipendenti della banca d'affari americana
uscivano con gli scatoloni a suggellare l'inizio della crisi finanziaria più
grave del secolo, da quel terzo trimestre 2008 e sino al picco del terzo
trimestre 2019, il 94% della ripresa italiana è stata trainata da ben 774
mila occupati a termine - e mezzo milione di partite Iva scomparse - e solo 51
mila stabili. Succederà di nuovo? Dobbiamo scommettere su una ripresa dai
piedi d'argilla?
"I dati Istat sull'occupazione sono molto gravi",
ragiona Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio (Cgil).
"Nonostante l'ottimismo di maniera, mancano all'appello 900 mila occupati,
la disoccupazione è al 10,4% con 2,6 milioni di senza lavoro. E sì, rischiamo
di ripetere il 2008, una ripresa precaria con salari bassi e part-time
forzato". Al governo non la pensano così. Si scommette sulla quota del 30%
per giovani e donne tra i nuovi assunti trainati dal Recovery. Ma anche su
vecchi cavalli di battaglia. "In questa fase bisogna aiutare le aziende
con il massimo della flessibilità possibile", dice Tiziana Nisini,
sottosegretaria leghista al Lavoro. "Anche reintroducendo i voucher e
levando tutti i vincoli e le causali ai contratti a termine".
Tornare dunque al 2015, al Jobs Act e al decreto Poletti. Da
quel momento storico il lavoro a termine e quello a tempo parziale
flessibilizzati al massimo sono decollati, sorpassando per tasso di crescita
gli occupati stabili e trainando l'occupazione in tutti i settori, ma incidendo
in profondità sulla sua qualità. Nemmeno il decreto Dignità, cavallo di
battaglia dei Cinque Stelle, pur riscrivendo il decreto Poletti, ha invertito
quel trend, se nel 2018 e 2019 registriamo il record storico dei contratti a
tempo: 3 milioni. Come mai? Le aziende scappano dai vincoli, alzano il ritmo
del turnover: fuori uno e dentro un altro. Accadde pure con i voucher: prima il
boom, poi l'abolizione e l'esplosione di altri contrattini.
C'è poi una gravissima questione di genere sottaciuta troppo a lungo. Il part-time è raddoppiato per donne e uomini dal 2008 in poi, specie nell'accoppiata con i contratti a tempo, ma non solo. I numeri sono però incomparabili: 2,8 milioni di lavoratrici contro 870 mila uomini. Numeri del 2019 ridotti dal Covid rispettivamente a 2,7 milioni e 836 mila. Le donne pagavano e pagano di più, a tutti i livelli: ore lavorate, stipendi, stabilità. Il record storico italiano del 50,3% di occupate nel secondo trimestre 2019 si è già compresso al 47,8% due anni dopo. Una crisi nella crisi.
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