Nel quarto capitolo del “Che fare?” Lenin trae le conseguenze delle influenze dell’economismo in materia di organizzazione; cioè dei sostenitori e praticanti del primato della lotta sindacale come attività principale dei comunisti; cioè dei cultori della spontaneità – che va considerata tale anche quando si tratta di lotte sindacali organizzate – come dei sostenitori e praticanti per cui la lotta politica, l’azione politica, l’organizzazione politica vengano dopo e dipendono dalla lotta economica o, nel migliore dei casi, dalla crescita della lotta economica, dall’estensione di essa fino a lotta politica, ecc.
Come sempre Lenin è netto nelle sue affermazioni e nei suoi insegnamenti.
In materia di organizzazione, dice, se il tutto dell’attività dei comunisti e delle avanguardie operaie consiste nello sviluppare la lotta economica contro i padroni e contro il governo, non è affatto necessaria un’organizzazione di livello superiore centralizzata, perché essa al massimo permetterebbe di fare meglio e con più efficienza questa attività; fermo restando che essa occuperebbe buona parte del tempo, al di là della lotta vera e propria, nelle gestione nazionale e generale di questa lotta.
Quello che Lenin indica come necessità per i comunisti e per le avanguardie operaie ad essi legati o che ad essi si vogliono legare, è tutt’altra cosa. Lenin, tanto per essere concreto, parla di “organizzazione centralizzata nazionale che unifichi in un assalto generale tutte le possibili manifestazioni di opposizione politica, di protesta e di indignazione; una organizzazione composta di rivoluzionari di professione, diretta da veri capi politici di tutto il popolo”.
E’ evidente che un’organizzazione di questo tipo nel movimento comunista è esistita su ispirazione di Marx e Lenin, e ha caratterizzato l’intera storia del movimento operaio e comunista. E solo con un’organizzazione di questo tipo è stato possibile raggiungere obiettivi determinanti nella storia della lotta di classe, prima tra tutti la Rivoluzione d’Ottobre. Ma anche là dove non si sono conseguiti successi grandiosi per il movimento comunista e il proletariato mondiale, la lotta per raggiungerli e la costruzione di organizzazione del tipo indicato da Lenin, hanno condotto comunque a grandiose esperienze in ogni paese del mondo, che hanno costituito la forza e il patrimonio storico del movimento
comunista e hanno dimostrato che questa organizzazione, oltre che necessaria, è possibile in ogni condizione storica, all’inizio come alla fine dei processi rivoluzionari.Mentre è del tutto evidente che la stessa cosa non si può dire di tutte le esperienze e i movimenti di lotta proletari che si siano basati sul primato della lotta economica, sul primato dei movimenti, che sempre e comunque nella loro evoluzione spontanea hanno fatto da base del parlamentarismo, delle vie pacifiche, del riformismo.
Le indicazioni date da Lenin nel “Che fare?” riguardano proprio l’inizio dell’organizzazione comunista, del Partito comunista. Esse hanno avuto una verifica storica consolidata, a cui bisogna riferirsi qualunque siano le condizioni del movimento di massa e ancor più oggi, in particolare nel nostro paese, in cui il movimento di massa e il suo reparto determinante, la classe operaia, vive una fase di difficoltà e di debolezza, oggettiva e soggettiva; proprio mentre le condizioni generali del sistema imperialista che marcia verso la guerra, la reazione, la miseria, l’oppressione più pesante dei popoli, fanno maturare “condizioni oggettive” della rivoluzione.
Tornando a Lenin. Egli segnala “la limitatezza dell’azione politica trascina anche quella del lavoro organizzativo” e in essa si concentra la capitolazione della coscienza davanti alla spontaneità.
Qui, il problema vero, oggi più che mai, è, più che l’esistenza quasi esclusivamente di forme spontanee del movimento di massa e delle lotte operaie e proletarie, è il culto di queste, il considerare le loro forme più alte le uniche forme possibili, non tanto delle masse ma della nostra attività. Facciamo un lavoro organizzativo ristretto ed elementare, lavoriamo ancora sempre come artigiani, nonostante si sia spesso militanti di lunga data o avanguardie attive nelle lotte sindacali.
La mancata presa di coscienza che così non va è, come dice Lenin “l’autentica malattia del nostro movimento”.
E, purtroppo, non è vero nel caso concreto del nostro paese, quello che Lenin aggiunge “una malattia di crescenza non di decadimento”. Qui siamo invece di fronte ad una malattia di senescenza e di decadimento. Certamente non irreversibile e dovuta a tanti fattori, ma che solo una “cura radicale” può curare.
Per questo bisogna raccogliere quello che Lenin indica “è particolarmente necessario una lotta intransigente contro ogni difesa dell’arretratezza, contro ogni legittimazione della limitatezza in questo campo”, e risvegliare in “chiunque partecipi al lavoro pratico o ad esso si accinga, soltanto il malcontento contro il primitivismo imperante e la determinazione inflessibile di sbarazzarcene”.
Lenin parte da un assunto “la mancanza di preparazione pratica, l’inettitudine nel lavoro organizzativo sono comuni effettivamente a noi tutti anche a quelli che fin dall’inizio si sono mantenuti fermamente sul punto di vista del marxismo rivoluzionario. E dell’impreparazione in quanto tale nessuno naturalmente potrebbe far colpa ai militanti”. I problemi, Lenin ribadisce, sono “i tentativi di giustificare questa debolezza e di elevarla in una “teoria” particolare, cioè il culto della spontaneità anche in questo caso”.
Ovvero, quando questi problemi sono legati e restano legati all’economismo. Senza sbarazzarci dell’economismo in generale, non possiamo, evidentemente, liberarci del primitivismo in materia organizzativa.
E quando avviene questa giustificazione? Quando, diremmo con Lenin, si comincia a dire: la massa operaia non è ancora pronta, essa vuole e può fare solo la lotta economica contro padroni e governo... E, quindi, l’organizzazione possibile è solo quella accessibile ai lavoratori così come sono e con il livello di lotta che stanno conducendo.
Altri ancora praticano il gradualismo: si afferma che è necessaria la lotta politica per fare la rivoluzione ma che oggi essa è impossibile, non c’è nessun bisogno di creare una forte organizzazione comunista rivoluzionaria che operi per trasformare, deviando, la lotta che i lavoratori fanno.
Ma è chiaro che solo combattendo questa logica che unisce primitivismo ed economismo è possibile creare, come dice Lenin, “un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire energie, stabilità e continuità alla lotta politica”. O, come diremmo noi: energie, stabilità e continuità alla propaganda e all’agitazione politica.
E’ evidente che con il dominio dell’economismo e il primitivismo organizzativo che ne consegue diventa difficile impugnare il lavoro teorico, sviluppare piani che non siano la “tattica processo” e ricadere continuamente in quello che Lenin dice “il nostro peccato capitale consiste nell’abbassare i nostri compiti politici e organizzativi a livello degli interessi immediati “tangibili”, “concreti”, della lotta economica in corso”.
In materia organizzativa l’artigianalismo all’inizio è sempre giustificato e possibile, ma se ci si rende conto dei danni che questo produce è possibile sbarazzarsene, altrimenti, come dice Lenin “se questi artigiani sono innamorati del loro primitivismo, se scrivono immancabilmente la parola “pratico” in corsivo e immaginano che lo spirito pratico esige che si abbassino i propri compiti a livello di comprensione degli strati ancora arretrati delle masse, allora evidentemente per loro non c’è speranza, e “i compiti politici in generale” sono loro realmente “inaccessibili””.
Infine, Lenin si occupa della necessità che gli operai e i lavoratori in lotta producano avanguardie, affinchè queste avanguardie diventino rivoluzionari e militanti del Partito. Questo processo è assolutamente naturale e obbligato, ma a condizione che il lavoro dei comunisti e dei rivoluzionari nel movimento sia in grado di fecondare, deviando dalla spontaneità, il movimento stesso, le lotte.
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