Estratto dal libro “Il mio nome è Balbir”, in cui il bracciante indiano Balbir Singh racconta la sua esperienza come schiavo nell’Agro Pontino protrattasi per anni.
Noi schiavi abitiamo accanto a voi, a volte anche dentro le vostre
case. Ci potete incontrare per strada, in un cantiere, al supermercato,
in fila all’Ufficio Immigrazione della Questura, o mentre pedaliamo su
una bicicletta scassata indossando uno zaino enorme per consegnare nelle
vostre mani delle gustosissime pizze made in Italy cucinate da molti di
noi nelle vostre pizzerie. Cuciamo anche i vostri bellissimi e
costosissimi vestiti, quelli dei grandi padroni della moda che voi
acquistate indebitandovi per fare bella figura. Costruiamo le grandi
navi da crociera sulle quali trascorrete vacanze da sogno nei mari di
tutto il mondo, a volte a poche decine di metri dalle spiagge dei Paesi
da cui siamo scappati, e lavoriamo l’oro che indossate al collo o al
dito.
Ci chiamate “invisibili” ma viviamo sotto i vostri occhi, dentro il
vostro mondo. Quello che definite ancora “Primo Mondo”. Per questo siete
ipocriti e complici. Avete deciso di non vederci, anche quando siete
tanto solidali con noi e dichiarate di stare dalla nostra parte. Come
certi sindacati. Pensate di aver fatto la rivoluzione comprando una
passata di pomodoro biologica. Però per strada ci evitate toccandovi
Pensateci bene. I padroni li incontrate tutti i giorni al bar sotto casa o in ufficio, davanti alla scuola di vostro figlio con il Suv in bella vista, in palestra, in caserma o al sindacato, quando dovete fare la dichiarazione dei redditi. Li salutate con garbo, date loro la mano, li guardate salire su auto lussuosissime, proprio quelle che voi sognate ogni notte e che non potrete mai permettervi. Li invidiate per la loro determinazione e il senso di potenza che li circonda.
Spesso sento dire che il mestiere più pericoloso del mondo è quello del padrone. Perché rischia i suoi soldi, il carcere e poi perché fatica più di tutti, mentre il lavoratore, uomo o donna, ha invece tutti i diritti garantiti: fa le sue ore e poi torna sereno a casa, aspetta fine mese per prendere lo stipendio che arriva sempre, non lavora mai più del dovuto, non rischia nulla. Il lavoratore non rischierebbe la vita, la salute e la povertà come invece il suo padrone. Un’altra cosa: i padroni devono pagare le tasse. Vuoi mettere? Troppe tasse. Lo Stato, dicono, li obbliga a sfruttare i lavoratori perché chiede loro troppe imposte, contributi e balzelli vari. E poi per cosa? Ospedali, università, strade che tanto, continuano ad affermare, non funzionano mai. Meglio privatizzare. Tanto i soldi loro li hanno. Che siano però i nostri a pagare i ricoveri loro e delle loro famiglie nelle cliniche più costose al mondo, non lo dicono mai. È solo un dettaglio. Allora meglio sfruttare e poi girare con una Ferrari.
Tra Sabaudia e San Felice Circeo c’è un padrone che si fa chiamare “Mussolini” e che per anni ha guidato una Ferrari. È proprio uno di quelli che schiavizzano i lavoratori stranieri minacciandoli anche con la pistola. Ama definirsi fascista, ovviamente. Costruisce, inoltre, case e negozi abusivi, tanto c’è sempre qualcuno da corrompere per evitare controlli o sanzioni. E la domenica, nella sua sala da pranzo, ospita alcuni mafiosi, politici e avvocati vari coi quali decide cosa fare con i nostri soldi e la vostra democrazia. È evidente che quest’uomo sfrutta perché non ha altre possibilità. In fondo la Ferrari è un diritto, come anche sfruttare i lavoratori e inquinare l’ambiente.
Insomma, i padroni non sono cattivi. Loro non ci sfrutterebbero mai.
Addirittura, quando li sento parlare tra loro, penso che soffrano pure
nel farlo, ma non hanno altra possibilità se vogliono diventare ricchi,
potenti, socialmente accreditati. Bisogna pure capirli.
Noi schiavi invece puzziamo, rubiamo, stupriamo e vi sostituiamo, anche.
A volte dite che siamo scimmie – che è già meglio di invisibili –,
capaci solo di caricare, se adeguatamente ammaestrate, cassoni di
pomodori che vendete in tutto il mondo. E quando abbiamo sete? Trovate
qualche bottiglia di plastica gettata per strada e la riempite con
l’acqua del canale di scolo delle vostre campagne. Oppure ci sparate in
testa quando ci avviciniamo alle discariche, piene di vostri rifiuti,
per prendere una lamiera con la quale coprire il tetto delle baracche
nei ghetti in cui siamo costretti a vivere. Se invece siamo donne, ci
considerate puttane da pagare. Mentre siamo solo madri di figli e figlie
che non conosceranno mai le vostre responsabilità.
L’ho sentito urlare mille volte dai padroni: noi stranieri non abbiamo
voglia di lavorare. Eppure, rubiamo il vostro posto. Dite anche che
dovremmo ringraziare il padrone perché, in fondo, ci permette di vivere e
di non morire di fame.
Sono troppo duro? Forse sì. Ma è quello che penso: voi siete i padroni
che dite di combattere. Siete come loro, o comunque state dalla loro
parte. Volete un esempio? Noi andiamo in Questura per rinnovare il
permesso di soggiorno e veniamo trattati come pratiche e non come
persone. Uno schiavo trattato come un numero, e il cerchio si chiude.
Basterebbe che qualche poliziotto, mentre siamo davanti a lui, divisi
solo da un vetro spesso e sporco, ci facesse alcune domande
semplicissime, magari mettendo una mano sulla nostra spalla, in segno di
amicizia: “Come stai?”, “Hai bisogno di aiuto?”, “Dove lavori?”, “Come
si chiama il tuo padrone, come ti tratta?”. Peraltro, avete mai visto
dei mediatori culturali in Questura? In ospedale o in pronto soccorso? E
negli uffici pubblici? No. Anche questa è una forma di colpevole
indifferenza e discriminazione.
Nell’Ufficio Immigrazione ci viene chiesto di esibire le nostre
generalità, le buste paga, i nostri contratti d’affitto e di lavoro,
come se la vita amministrativa valesse più della vita attiva, delle
condizioni reali delle persone come noi. Persone in carne e ossa. Alcune
volte ci siamo andati insieme, ricordi? Hai visto come vengono trattate
le persone. Numeri, pratiche e prepotenze. Eppure non siamo
nell’azienda di un padrone, ma dentro un’istituzione che rappresenta lo
Stato italiano. Dovrei trovare in essa il diritto, ricevere l’attenzione
che come uomo merito, e invece sono spesso trattato come un ladro, un
criminale, un ospite sgradito o, peggio, come un foglio di carta da
timbrare e archiviare.
Una volta sono andato in Questura per verificare a che punto fosse la
pratica di rinnovo del mio permesso di soggiorno. Mi hanno chiesto le
generalità e la data di protocollo del documento. Ero già uno schiavo.
Mi hanno detto che il mio padrone quella pratica non l’aveva presentata.
Tutto qui. Il poliziotto al quale mi sono rivolto ha risposto senza
guardarmi negli occhi. Era come un distributore automatico di domande e
risposte preregistrate. Un algoritmo in divisa, con un naso, una bocca e
una pistola nella fondina che mostrava con un certo orgoglio. Avrebbe
potuto chiedermi, ad esempio, chi fosse il mio padrone, dove lavorassi e
in quali condizioni. E in questo modo, forse, avrei evitato anni di
violenze, sfruttamento, umiliazioni.
Invece per lo Stato italiano sono solo una pratica, un numero su un
foglio sul quale qualcuno ha scritto frasi che hanno influenzato per
sempre la mia vita. Frasi che, peraltro, per me sono del tutto
incomprensibili.
Lo Stato e il padrone non mi considerano un uomo. Per il primo sono un
peso amministrativo e forse anche sociale. Per il secondo, invece, sono
un uomo da sfruttare fino alla morte. Per alcuni vostri politici, addirittura un invasore da abbattere o incarcerare.
Quante volte mi sono domandato: ma io chi sono? Ho passato più anni in
Italia che in India, ma non sono cittadino italiano. Lavoro come uno
schiavo, eppure in Italia la schiavitù è vietata. Siete diventati più
ricchi grazie a me, ma mi considerate un criminale. La vostra burocrazia
non la capisco. Mi chiedete soldi per rinnovare il permesso di
soggiorno, ma se non lo rinnovo lo perdo per sempre e mi mandate in
galera. Monetizzate il diritto. Date un prezzo a tutto. I padroni li
chiamate “imprenditori”, a volte “dottori”, li fate vivere in case
lussuose pulite da schiave europee e non solo, e guidare auto costose
lavate da stranieri a cui peraltro affidate i vostri anziani per le cure
che non avete il tempo e il coraggio di garantire loro. Se poi, dentro
l’azienda di uno dei vostri amici padroni, trovate uno schiavo che abita
dentro un container, senza riscaldamento, che usa come bagno i campi,
non ha un conto corrente, non parla italiano, lavora quattordici ore al
giorno in ginocchio dentro una serra nella raccolta degli ortaggi che
voi comprate nel supermercato sotto casa, retribuito tra i 50 e i 150
euro al mese e ridotto alla fame, anziché occuparvi di lui, dandogli una
casa e la possibilità di una vita dignitosa, lo arrestate per
espellerlo.
Una volta – ne abbiamo parlato insieme, ricordi? – un vostro politico ha dichiarato che per noi stranieri «è finita la pacchia». Devo dirti la verità, caro Marco, mi farei volentieri sostituire da questi politici quando lavoro quattordici ore al giorno e sono obbligato a chiamare “padrone” il datore di lavoro, quando mi infortuno e mi dice di andare a casa e non in ospedale, quando piove e mi fa lavorare ugualmente. Farei vivere a loro la vita che sto conducendo in questo bel Paese. Non per punizione. Solo per confrontare le loro idee con la nostra realtà. Li manderei, ad esempio, a raccogliere pomodori o cocomeri d’estate, sotto il sole cocente, per 4 euro l’ora, per poi vivere dentro container assolati, magari senza luce, o in baracche senza bagno e acqua corrente potabile. Sarebbe la risposta migliore da dare a tutti coloro che vedono noi come problema e il padrone come soluzione. Ma è solo un’utopia.
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