Secondo lo studio, la cifra reale delle vittime si colloca tra 99.997 e 125.915, con una mediana di 112.069 morti. La differenza non è solo statistica: è politica. Le vittime senza nome, mai registrate, sono quelle degli edifici crollati, dei quartieri rasi al suolo, delle famiglie che non hanno potuto seppellire i propri cari né segnalarne la scomparsa. È una mortalità “oscura” che altera la percezione dell’impatto delle operazioni israeliane e apre un dibattito sulla trasparenza dei dati, sul modo in cui il mondo interpreta la sproporzione del conflitto e sulla capacità reale della comunità internazionale di misurare la sofferenza.
Il crollo dell’aspettativa di vita
Forse il dato più eloquente riguarda l’aspettativa di vita. Prima della guerra, a Gaza era di 77 anni per le
donne e 74 per gli uomini. Oggi, le proiezioni per il 2024 parlano di 46 anni per le donne e 36 per gli uomini. Un dimezzamento brutale, che non si spiega solo con i bombardamenti. Indica un ambiente in cui la fame, il collasso sanitario, il crollo delle infrastrutture e la distruzione delle reti sociali rendono la vita quotidiana più pericolosa della stessa linea del fronte. Gaza non è più un territorio in guerra: è diventato un territorio in cui vivere significa sopravvivere, e sopravvivere significa affrontare condizioni che nessuna società può sostenere a lungo senza implodere.Le violazioni del cessate il fuoco
Dopo l’entrata in vigore della tregua mediata dagli Stati Uniti il 10 ottobre, l’Ufficio dei media di Gaza denuncia quasi 500 violazioni israeliane, con 339 palestinesi uccisi. Le IDF confermano alcune operazioni, come il recente attacco contro sei individui nel Sud di Gaza, accusati di essere usciti da un tunnel a Rafah. Anche qui, però, si entra in una zona grigia: chi erano, cosa stavano facendo, quante delle vittime erano combattenti e quante civili? La guerra dei tunnel crea un ambiente operativo in cui la distinzione tra obiettivi militari e presenza civile diventa difficile, e Israele usa questo punto per giustificare interventi rapidi e letali. Ma ogni azione di questo tipo indebolisce la credibilità della tregua e alimenta la percezione internazionale di una pressione costante che mina la stabilità dell’accordo.
La contabilità della morte come terreno diplomatico
Israele contesta spesso le cifre diffuse dalle autorità di Gaza, sostenendo che includano combattenti o che siano manipolate per motivi politici. Ma quando un centro di ricerca indipendente come il Max Planck pubblica numeri molto più elevati, il dibattito si sposta. Non è più una questione di propaganda locale, ma una questione di metodologia scientifica. E soprattutto, diventa un tema di responsabilità internazionale: quanti morti sono “accettabili” in una guerra condotta in un territorio densamente popolato? Quanto può essere estesa una campagna militare in un’area che non offre vie di fuga reali ai civili? Queste domande, taciute per mesi, ora tornano al centro della scena.
Israele, Hamas e la “linea gialla”
In questo momento, secondo le stime israeliane, circa 200 combattenti di Hamas sono ancora nei tunnel a Rafah, al di là della cosiddetta “linea gialla” stabilita dagli accordi di cessate il fuoco. Israele continua a operare in quest’area, rifiutando richieste di passaggio sicuro avanzate da Hamas con il supporto dei mediatori. La motivazione ufficiale è chiara: non consentire la ricostituzione della capacità militare del movimento. Ma strategicamente questo immobilismo prolungato ha due effetti: mantiene la pressione su Hamas e, contemporaneamente, mantiene sotto stress una popolazione civile invischiata in un conflitto senza sbocchi.
Un conflitto che ridisegna la morale internazionale
La stima di oltre 100.000 morti non è solo un dato: è una domanda aperta. Fino a che punto la comunità internazionale può accettare l’idea che una guerra prolungata in un territorio chiuso produca numeri simili? Fino a che punto le tregue possono essere considerate “successi diplomatici” quando continuano a registrarsi centinaia di vittime? E fino a che punto le operazioni israeliane, pur motivate dalla necessità di neutralizzare Hamas, possono essere considerate compatibili con le norme che regolano i conflitti contemporanei?
La guerra di Gaza, nella sua crudezza, nelle sue proporzioni, nella sua impossibilità di essere pienamente misurata, è già diventata un laboratorio tragico per il futuro delle guerre urbane. E lo studio del Max Planck, con la freddezza dei numeri, costringe il mondo a guardare la realtà senza più alibi.
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