I braccianti costretti a fare il saluto romano davanti all’effigie di Mussolini perché avessero ben chiaro che “in Italia comandano gli italiani” e che “il fascismo è la fede dei padroni”, fucili e pistole che spuntavano all’occorrenza per minacciare i lavoratori e ribadire, ancora, “chi comanda”: mentre monta l’indignazione per la morte di Satnam Singh, il trentunenne di nazionalità indiana sfruttato - anzi: reso schiavo - nelle campagne di Latina dove si spaccava la schiena per quattro euro all’ora senza contratto e senza tutele, emerge un quadro diffuso di fascismo agrario non nostalgico, ma anzi rigorosamente declinato al tempo presente, che è cornice ideologica del caporalato nel settore agroalimentare pontino.
È quanto riportato nell’inchiesta sul campo condotta da Sandro Ruotolo e Marco Omizzolo (autore, quest’ultimo, di “Per motivi di giustizia”, testo monstre sullo sfruttamento nei campi del latinense) per Domani a metà maggio, a partire dalla quale è stata presentata un’interrogazione parlamentare a firma di Arturo Scotto. Inchiesta e interrogazione risalgono a un mese fa, ben prima che il caporalato nell’Agro Pontino assurgesse a caso nazionale per via di quella scena dell’orrore che tutti abbiamo negli occhi, precisissima e lancinante, e a cui nessuno riesce a smettere di pensare: Singh intrappolato nella macchina che ne risputa fuori il corpo mutilato, la moglie che è lì, vede tutto e non può chiamare i soccorsi perché i caporali le hanno sequestrato il telefono, l’imprenditore agricolo Antonello Lovato (“il padrone”, come da epiteto coloniale che ricorre nelle testimonianze perché quello era il titolo che Lovato si arrogava) che carica Singh e la moglie su un furgoncino e li scarica come merce umana ormai avariata davanti alla loro casa in mezzo alla campagna, con annessi i resti del braccio buttati in una
cassetta della frutta. Ecco, prima di tutto questo - ma anche durante, e con ogni probabilità anche dopo tutto questo - tra i lavoratori agricoli alloggiati in baracche di fortuna, tenuti in ostaggio da caporali e schiavisti - giacché se non sono certo padroni, tantomeno sono datori di lavoro - e pagati due spicci ovviamente in nero (come da annoso circolo vizioso della Bossi-Fini: niente documenti niente contratto, niente contratto niente documenti), tra queste persone, queste famiglie che a Latina sono migliaia, ce n’erano alcune che venivano obbligate ad alzare il braccio destro davanti al busto di Mussolini, a cui veniva spiegato che i padroni sono fascisti e i padroni comandano, magari sventolando una pistola così, giusto a rimarcare bene il concetto.Non è affatto detto, chiariamolo bene, che questo avvenisse nell’azienda agricola incriminata per la morte di Singh, né è detto che lui e la moglie Sony abbiano dovuto subire tra i tanti soprusi anche questo. Ma rileggere le testimonianze emerse un mese fa alla luce di quanto accaduto ieri getta un’ombra nerissima sui campi dell’Agro Pontino, facendo emergere una temperie ideologica diffusa, una subcultura che permea quello che nell’interrogazione parlamentare di Scotto viene definito “il sistema agromafioso vigente”.
E quindi sì, c’entra anche questa volta il fascismo. Anche se tutti, destre comprese, si affretteranno a condannare l’orrore, l’aberrazione, la disumanità dell’accaduto, anche qualcuno tenterà di dire che dopo tutto è molto più logico trovare un busto di Mussolini nei campi di Latina da lui bonificati che nel salotto del presidente del Senato, anche se ci accuseranno di essere paranoici, ossessionati, di voler tirare in ballo il fascismo anche davanti alla morte di questo povero disgraziato (“povero disgraziato” o “povero cristo”, in sprezzo dell’elemento religioso, sono le tipiche parole che userebbero quelli pronti a giurare che il fascismo qui non c’entra), noi lo diciamo chiaro, che il fascismo qui c’entra.
Perché se considerare i nostri corpi come macchine buone solo per produrre, consumare e crepare è capitalismo semplice, considerare i corpi razzializzati come carne da macello perfettamente sacrificabile per i profitti delle aziende italiane è fascismo coloniale in purezza. Le baraccopoli vicino ai campi, comodissime succursali del Punjab indiano direttamente nell’Agropontino, per caporali e imprenditori criminali sono colonie da depredare per garantirsi una vantaggiosissima forza lavoro sfruttabile senza limite, fino allo sfinimento e oltre lo sfinimento. Finché il corpo tiene, e se non tiene più pazienza: solo quella era la funzione di quel corpo.
Viene da chiedersi quante siano state, negli anni, le lesioni minori, quelle non mortali: quante dita saltate, quanti arti fratturati, quante ferite più o meno profonde siano passate sotto silenzio. E quante saranno ancora in futuro, se la lotta al caporalato non diventerà una priorità da tradurre in pratiche quotidiane di controllo e sanzione che vadano oltre l’ondata di emozione di questi giorni.
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