La corsa al riarmo e la conversione alla guerra della produzione: intervista ai lavoratori della Leonardo promotori della petizione “Non in mio nome, non col mio lavoro”
- da ordine nuovo

ON: Parlaci della genesi di questa iniziativa intrapresa da voi lavoratori della Leonardo. La vostra presa di posizione è stata improvvisa e “non preannunciata”, oppure è frutto di un percorso che come lavoratori avete intrapreso da tempo? Avete provato a coinvolgere i lavoratori degli altri stabilimenti della Leonardo?
Io personalmente sono sempre stato vicino alla causa palestinese, ho manifestato anche quando eravamo in 20 persone, ho sempre frequentato i centri sociali e gli ambienti antagonisti. Per me la petizione è stata una scelta obbligata, per come è fatta la mia coscienza, per voler provare a fare qualcosa. Voglio anche chiarire una cosa: noi nel sito Leonardo di Grottaglie abbiamo sempre fatto produzione ad uso civile, come aerei e fusoliere. Il sito è nato nel 2006 prettamente per il civile ed è ancora tale. Il rischio è che si militarizzi anche Grottaglie, quindi la nostra battaglia sta andando anche in questo senso.
Tornando alla petizione, con il rapporto di Francesca Albanese sono venute fuori tante cose sulla Leonardo che neanche io sapevo: lavoriamo molto a compartimenti stagni, come aziende separate, specialmente noi a Grottaglie che ci occupiamo solo di produzione civile e siamo fuori da tutti i discorsi del militare. Da quando abbiamo appreso i fatti venuti fuori dal rapporto, abbiamo capito che non potevamo far finta di niente: anche se non siamo direttamente coinvolti nella produzione bellica, lavoriamo comunque per un’azienda che sta facendo delle cose che non possiamo accettare per niente. Ho pensato quindi di buttare giù la petizione, ho poi coinvolto altri colleghi che sapevo essere sensibili all’argomento, purtroppo pochi.
Abbiamo pensato di coinvolgere in questa battaglia i sindacati: la FIOM ci è stata subito a fianco, la UILM purtroppo ha temporeggiato per un paio di settimane e alla fine ci ha detto di non essere interessata; anzi, poi ha approfittato del comunicato per una polemica strumentale contro la FIOM. La FIM[2], da cui non ci aspettavamo niente in quanto filo-governativi, hanno addirittura denunciato pubblicamente la petizione e i lavoratori che l’hanno lanciata, facendola passare come una petizione per dismettere l’intero settore militare della Leonardo, cosa che non è negli intenti di questo appello. Ci siamo infastiditi per la strumentalizzazione della nostra iniziativa, l’attenzione da parte dei media ad un certo punto è stata più sulla frattura sindacale che sulla petizione stessa. A parte queste cose, la petizione ha avuto molta risonanza: siamo arrivati a 21.000 firme, abbiamo anche sfruttato la notorietà di qualche influencer per rilanciarla.
Questa petizione vuole essere solo un punto di partenza, volevamo attivare un dibattito, rompere un
silenzio, anche dall’interno, e ci siamo riusciti. Abbiamo attirato l’attenzione ad esempio di Fratoianni, che sta in campagna elettorale per le regionali in Puglia, che è venuto a Grottaglie e con cui abbiamo parlato del nostro impegno per evitare la militarizzazione dello stabilimento.Con la FIOM stiamo lavorando in questo senso, e con altri colleghi stiamo preparando un dossier tecnico con l’obiettivo di dimostrare che il settore della produzione civile per la Leonardo, oltre che a livello sociale ma anche a livello aziendale, è molto più lungimirante rispetto al settore militare. Infatti, le commesse del settore civile durano 20-30 anni, riescono a saturare gli impianti e ad occupare il personale molto più di quanto possa fare il militare, che ha commesse molto più limitate (2-4 anni) e volatili, con pacchetti di lavoro più piccoli che assorbono un minor numero di lavoratori. Per questo vorremmo dimostrare con questo dossier che la scelta della militarizzazione è sbagliata.
ON: Come dicevi prima, il lavoro all’interno dell’azienda è molto compartimentalizzato, questa è una cosa comune a molti settori e a noi sembra proprio un metodo studiato affinché i vari settori della produzione, e quindi i lavoratori, non abbiano poi contezza del processo produttivo, e quindi abbiano difficoltà a comprendere – e contrastare – le strategie dell’azienda a lungo termine. Qual è il tuo parere a riguardo.Non saprei dirvi se questa è una scelta strategica. La Leonardo ha parecchie divisioni, è molto estesa e complessa, inoltre ha una lunga storia di acquisizioni (noi all’inizio a Grottaglie eravamo Alenia Composite, un ramo separato di Alenia). L’azienda ha voluto unire tutte le divisioni sotto lo stesso ombrello, in un’ottica di One Company, ma è oggettivamente difficile avere la coscienza di tutti i processi produttivi così diversificati. Per fortuna però all’interno del sindacato c’è dialogo tra i diversi siti produttivi: anche noi, nel nostro piccolo, con questa petizione stiamo avendo contatti con gli altri siti… si sta iniziando a creare un minimo di connessione, che è un indispensabile punto di partenza per fare questa battaglia.
ON: Quanto è complesso per dei lavoratori assunti da un’azienda che produce armamenti schierarsi apertamente contro i crimini commessi anche tramite l’utilizzo di queste armi? Qual è il clima attorno a voi dopo che avete lanciato la petizione?
Non è sicuramente banale, ma penso sia meno complesso rispetto alla situazione che vive chi lavora direttamente nella produzione di armi, come gli F-35. Penso che sia difficile per questi colleghi prendere un’iniziativa del genere: io ad esempio se la prospettiva fosse quella di lavorare sulle armi, cambierei lavoro. Ma anche nella mia situazione, che lavoro nel civile, avrei potuto fare un ragionamento più individualista e di fronte alle criticità emerse nella complicità della Leonardo nel genocidio del popolo palestinese, avrei potuto cambiare lavoro risolvendo così il mio problema di coscienza. Ho fatto una scelta diversa, e dalla mia posizione interna all’azienda posso cercare davvero di contribuire a cambiare qualcosa.
Dall’interno, mi interfaccio con tre tipi di colleghi: quelli che si sono effettivamente dimostrati sensibili alla causa della nostra petizione e l’hanno firmata – non sono pochi – tra cui anche dei responsabili. Poi ci sono quelli a cui non interessa la questione, e francamente non capisco come si possa ignorare l’enormità di quello che sta succedendo. Infine ci sono le persone che sono sensibili al tema, ma hanno molta paura per il posto di lavoro, purtroppo.
ON: Più volte nella storia italiana alle rivendicazioni di lavoratori che alzavano la testa contro palesi ingiustizie è stato contrapposto il ricatto occupazionale. Un esempio potrebbe essere quello dei lavoratori di RWM in Sardegna, che producono armamenti in un territorio dove scarseggia il lavoro, oppure i lavoratori di aziende che devastano l’ambiente (come per l’Ilva di Taranto, o per il petrolchimico di Marghera). In questi casi viene posta davanti ai lavoratori una falsa alternativa tra il posto di lavoro da un lato, e la pace o la salute dall’altro. Cosa ne pensi del ricatto tra occupazione e complicità nel genocidio palestinese, o in generale della partecipazione italiana alla corsa al riarmo?
A tutti gli effetti, anche il nostro, per la Leonardo, è un ricatto occupazionale. Siamo in un territorio, quello del tarantino in Puglia, dove di lavoro ce n’è poco, come insegna la storia dell’Ilva. Nel settore militare poi il ricatto secondo me è ancora più subdolo: il ricatto lo stanno facendo a tutta la popolazione italiana ed europea, è basato sulla paura che qualcuno ci attaccherà a breve. Una colossale presa in giro, perché sono proprio i governi europei – incluso quello italiano – che stanno creando tutto questo per giustificare la corsa al riarmo e i relativi profitti. Non possiamo assolutamente cadere in questo ricatto: il riarmo a livello di occupazione (sia quantitativa sia in termini di durata nel tempo) è molto meno efficace rispetto alle produzioni civili. La fabbrica di Grottaglie è nata nel 2006 con finanziamenti regionali, statali ed europei proprio per promuovere l’occupazione nei successivi trent’anni, cosa che il militare non potrebbe garantire. Se ora ci fosse la conversione verso il militare si verrebbe meno anche a quegli stessi impegni, sarebbe una scelta che rischia, tra qualche anno, di portare allo smantellamento dello stabilimento. Si sperperebbero i risultati raggiunti dal nostro processo produttivo, tecnologicamente avanzatissimo e invidiato in tutto il mondo e con personale dalla specializzazione unica, per inseguire il business militare che è economicamente, oltre che eticamente, sbagliato.
Siamo in un punto di svolta cruciale, in cui non dobbiamo cadere in questa paura di dover riarmarci, in cui non dobbiamo accettare che i siti produttivi vengano smantellati e convertiti per le armi – come sta succedendo ad esempio per Volkswagen in Germania, una scelta di cui pagheranno amaramente le conseguenze tra qualche anno, ne sono certo. Dovremmo invece investire in ricerca e sviluppo, anche in Italia, è non solo eticamente la scelta giusta ma anche quella più competitiva in senso economico.
ON: La denuncia da parte di voi lavoratori della Leonardo è un fenomeno isolato o è avvenuto grazie e in sintonia con il movimento più generale che in questi due anni ha scosso tutto il nostro paese contro il genocidio in Palestina e la complicità del governo italiano? In altre parole, quanto la vostra iniziativa si è sviluppata autonomamente all’interno del vostro contesto lavorativo e quanto invece ha trovato stimolo, sostegno o eco nel clima di mobilitazione che, negli ultimi due anni, si è diffuso in tutto il paese contro il genocidio in Palestina e il ruolo svolto dal governo italiano?
L’iniziativa è nata internamente, ma sicuramente è stata stimolata dalla grande mobilitazione che c’è stata negli ultimi anni: le prese di coscienza smuovono altre prese di coscienza. Io ero abituato a vedere poche persone alle manifestazioni locali in solidarietà al popolo palestinese, poi siamo arrivati fino a 10.000 persone, un fatto incredibile per me. Il successo di queste mobilitazioni sicuramente mi ha dato la forza e il coraggio per partire con questa nostra iniziativa, che comunque prevede un rischio per la mia comodità, la mia posizione – anche perché il lavoro che faccio mi piace, e questa è una cosa che non capita sempre.
ON: Quando si parla di applicare un embargo a Israele, con particolare riferimento alla compravendita di armamenti, sappiamo che si sta mettendo in discussione rilevanti interessi economici. Non a caso l’annuncio della “tregua” a Gaza, nonostante tutti i suoi limiti e le sue fragilità, ha provocato il crollo delle azioni della Leonardo. Ritieni che questa realtà metta in luce una divergenza di interessi nella nostra società rispetto al tema della guerra e dei profitti?
Sicuramente la Leonardo, dal punto di vista meramente di profitto, ha tutto l’interesse che la guerra ci sia, e questo è dimostrato dai successi in borsa del titolo da quando è iniziata quest’ultima fase della guerra a Gaza. Ma un’azienda come la Leonardo non può e non deve basare esclusivamente il suo operato sul profitto: si è dotata di un codice etico, ha una responsabilità sociale, deve rispettare delle leggi europee e dei regolamenti nazionali sull’export delle armi, queste sono leggi che sostanzialmente lo vietano verso paesi che violano i diritti umani – mi sembra palese che sia questo il caso. Dovrebbe in tal senso intervenire il Ministero degli Esteri, che con la legge 185/1990 ha il potere di determinare l’embargo a Israele. Altrimenti, queste leggi, questi codici etici, sono tutte chiacchiere. Tra l’altro Leonardo fa molto uso dei finanziamenti da parte dei fondi ESG (ambientali – Environmental, sociali – Social e di governance – Governance), che si basano su un punteggio determinato in base alla loro eticità, eccetera. Infatti la Leonardo fa molte attività “di facciata” per ottenere alti punteggi in queste categorie, e poter essere destinataria di questi finanziamenti: anche a questi fattori dovrebbe stare attenta, anche se ci si dovesse basare solo su ragioni di profittoON: Nel testo della vostra petizione fate riferimento al rapporto di Francesca Albanese “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. Sappiamo oggi che le grandi imprese italiane ed europee non solo fanno affari con Israele con le armi, ma anche con le tecnologie di sorveglianza, che vengono “testate” dall’esercito israeliano direttamente sul campo a scapito della popolazione palestinese. Che differenza c’è tra l’export di armi e quello di queste altre nuove tecnologie?
Sicuramente è importante capire che il problema non è soltanto la produzione bellica di per sé, ma c’è un altro settore forse ancora più importante (e più subdolo) che è tutto il campo della cybersecurity, dell’intelligenza artificiale, della sorveglianza – tutti settori toccati dal rapporto di Francesca Albanese – che sicuramente sono più difficili da regolamentare rispetto alle armi, per le quali le regole ci sono ma non vengono applicate per volontà politica, mentre per questi altri settori non ci sono regole. Questo rappresenta un campo ancora più pericoloso e sicuramente da tenere strettamente sotto osservazione.
ON: Durante le mobilitazioni negli atenei italiani, che sono partite sul tema del contrasto alle collaborazioni con gli atenei israeliani ed aziende belliche, molto spesso si è usato il concetto di dual use[3] come scudo. Il mascherare il reale scopo della tecnologia, se sia a scopo civile o a scopo militare, fa sì che le leggi e i regolamenti difficilmente possono individuare dei vincoli precisi.
Il tema del dual use è complesso da indagare, al pari del tema della cybersecurity, IA e sorveglianza. In realtà secondo me in un mondo ideale ci dovrebbe essere un ente terzo, super partes, né aziendale né governativo, che dovrebbe regolamentare e vigilare su tutto l’export a rischio. Quanto questo sia realizzabile nel mondo reale, con gli interessi degli Stati e del profitto, non saprei.
ON: L’amministratore delegato di Leonardo recentemente ha anche smentito le dichiarazioni degli esponenti del governo sulle licenze di export delle armi: c’è stata sicuramente molta ipocrisia da parte del governo. Qual è il piano del dialogo tra lo Stato italiano e un’azienda strategica come Leonardo, nella definizione dei rapporti internazionali sia diplomatici sia economici?
Le dichiarazioni di Cingolani al Corriere sono arrivate proprio mentre noi stavamo ultimando la scrittura dell’appello per la petizione, e sono state un assist per noi: ha detto che sulle licenze già in essere (prima di marzo 2023) non può fare niente in quanto contratti la cui rescissione comporterebbe conseguenze legali. Ha aggiunto poi che l’unico intervento possibile è da parte delle istituzioni, cioè dello Stato italiano, che sono esattamente il destinatario della nostra petizione. Ovviamente però Cingolani non ha menzionato i rapporti con le università israeliane, la zona grigia rappresentata dagli accordi sulla cybersecurity, IA e sorveglianza, che come ho detto prima non è meno importante.
Con questo governo sicuramente questo tipo di interventi sull’export di armi è molto difficile, ma io mi sono chiesto più volte anche: se ci fosse stato un governo di centro-sinistra, sarebbe cambiato veramente qualcosa? Secondo me la risposta è negativa, e questo prescinde dall’atteggiamento odierno dell’opposizione sul tema, da una posizione comoda.
Negli anni che ho lavorato alla Leonardo, ho sempre visto che ogni cambio di governo è stato seguito poco dopo da un cambio dei vertici aziendali: alla fine il “padrone” della Leonardo è il governo, ho visto vertici legati al PD, a Forza Italia, eccetera. Nel concreto però, nonostante ci si possa aspettare che dal centro-sinistra l’approccio possa essere diverso, la realtà ha dimostrato in questi anni il contrario. Come sarebbe stata la situazione col PD al governo? Secondo me non sarebbe cambiato nulla. Come dicevo abbiamo incontrato Fratoianni e Vendola (AVS) perché c’è la campagna elettorale e ci hanno mostrato sostegno e impegno nella direzione dell’evitare la militarizzazione, ma ho dubbi se ci sarebbero state le stesse parole se fossero stati al governo. Ma dal momento che in Puglia l’esito delle regionali è quasi scontato che sarà la vittoria del centro-sinistra, vedremo se effettivamente terranno fede a questi impegni e saranno realmente disposti a lottare al nostro fianco.
ON: La petizione che state promuovendo parte da un gruppo di lavoratori della Leonardo, ma si rivolge e aspira a coinvolgere tutta la popolazione. Pensi che a tal proposito un generale movimento che punti alla lotta contro la guerra e per il progresso possa e debba partire proprio dai lavoratori?
Ma infatti, rispetto ai politici, l’unica posizione coerente in tutto questo è stata proprio quella dei lavoratori, che con i loro scioperi hanno la possibilità (e le mobilitazioni l’hanno dimostrato) di mettere l’embargo a Israele. Noi lavoratori non siamo ingranaggi, il cambiamento storicamente è sempre partito da noi, e la nostra classe è l’unica che può cambiare la società in modo disinteressato: è una consapevolezza che più persone dovrebbero raggiungere. La consapevolezza significa uscire da quell’individualismo causato da una società basata esclusivamente sui consumi e per nulla sui valori sociali, in cui ciascuno pensa al proprio orticello. Il primo passo è la presa di coscienza del potere che abbiamo, noi lavoratori e tutta la popolazione, se iniziamo davvero a ri-unirci e ri-compattarci. Creare rete, al di là delle diversità che caratterizzano ognuno di noi.
Ho sempre visto tanta frammentazione nella società, che si riflettono anche nelle realtà antagoniste: è una situazione che va necessariamente superata.
ON: Prima hai parlato della produzione civile, e delle prospettive più lungimiranti che garantirebbe per il nostro paese. Anche questo potrebbe essere un vettore di consapevolezza da parte dei lavoratori verso il resto della società? Parliamo della proposta di un modello diverso, che si basi su priorità economiche diverse?
Sicuramente, hai centrato il nostro obiettivo. Sia in questa petizione, che in questo dossier che abbiamo in preparazione, stiamo cercando di analizzare la questione produttiva nel modo più oggettivo possibile, anche con le nostre competenze nel campo della produzione. La nostra azione non deve passare come qualcosa partorito da riottosi o fannulloni, vogliamo parlare di cose serie, dietro le quali ci sono dei ragionamenti. Vogliamo produrre dei documenti, e in generale muoverci, in maniera seria e ragionata, con l’obiettivo di far capire che il potere di cambiare le cose in modo strategico è un obiettivo raggiungibile.
ON: Le vostre richieste chiamano direttamente in causa le responsabilità non solo della dirigenza della vostra azienda, ma anche delle più alte cariche della politica italiana ed europea. In questi mesi tuttavia, nonostante la grande partecipazione popolare alle mobilitazioni per la Palestina e la realtà di una popolazione in Italia per la grande maggioranza contro la guerra, il governo Meloni non ha fatto mai mancare il sostegno a Israele, e afferma di non essere intenzionato a riconoscere uno Stato di Palestina. Qualora le istituzioni che le vostre rivendicazioni tirano in ballo dovessero mantenere questa postura, come continuereste la vostra battaglia?
Noi assolutamente ci aspettiamo che da parte delle istituzioni ci sia un rifiuto totale: non ci siamo mai sognati che qualcuno cambi improvvisamente idea e ci dia ragione. Non ci aspettiamo certo che il governo faccia qualcosa di diverso sulla militarizzazione della nostra azienda, né sull’export delle armi. L’intento di questa petizione è quello di smuovere le coscienze, attivare un dibattito, creare un punto di partenza per iniziare a lavorare in maniera sinergica e strategica tra i lavoratori. Inoltre, di aver rotto il silenzio su qualcosa di cui nessun lavoratore osava parlare, infatti ci hanno contattato lavoratori degli altri siti della Leonardo. Questi obiettivi rappresentano un punto di partenza per noi.
Note
[1] Si veda qui:
[2] Federazione Impiegati Operai Metallurgici (FIOM), Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici (UILM) e Federazione Italiana Metalmeccanici (FIM): sindacati dei lavoratori operanti nell’industria metalmeccanica che fanno capo rispettivamente a CGIL, UIL e CISL.
[3] Ci si riferisce a prodotti, tecnologie o anche attività di ricerca scientifica, nati in ambito civile ma in grado di essere applicate anche in contesti bellici, e che quindi rischiano di superare le restrizioni (già ben poco efficaci) nell’export di armi. Un caso celebre relativo all’occupazione genocida della Palestina da parte di Israele è quello dei bulldozer Caterpillar, Hyundai e Volvo, formalmente adibiti ad usi civili ma militarizzati dalle forze di occupazione e usati contro le abitazioni, quando non sui corpi dei palestinesi stessi, o chiunque gli si ponga davanti (come il caso dell’attivista Rachel Corrie).
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