pc 11 dicembre - Pechino brinda alla strategia di Trump - Una nota che conferma quanto stiamo affermando nelle ultime settimane e che influisce su Palestina/Ucraina/riarmo ecc
Qui in Cina la Strategia di sicurezza nazionale
(NSS) di Donald Trump, ufficializzata lo scorso 4 dicembre, viene
analizzata parola per parola ed è oggetto di intenso dibattito, anche
alla luce di quanto l’amministrazione repubblicana ha messo in atto in
questi primi undici mesi. E di una cosa i comunisti cinesi - abituati a
“cercare la verità nei fatti” - sono certi: il documento riflette un grande cambiamento, accelerato dal ritorno alla Casa Bianca di Tariff Man, il 20 gennaio scorso.
Che la ridefinizione delle priorità dell’America formalizzata con quella che potrebbe essere definita la Strategia del movimento MAGA (Make America Great Again) apre alla Cina praterie immense - in termini di aumento della sua influenza economica e politica - i cinesi non lo dicono, ma è così. Vediamo perché.
Le
33 pagine chiariscono che la politica estera e di difesa di Trump sarà
concentrata sull’Emisfero occidentale, ovvero le Americhe. La nuova dottrina Monroe di Trump prevede esplicitamente di contrastare gli interessi della Cina in America Latina. Non a caso, Pechino ha risposto subito con un Policy paper sull’America Latina e i Caraibi, pubblicato ieri.
L’Africa viene appena citata. La
Cina potrà dunque continuare a tessere indisturbata la sua rete di
alleanze commerciali e rafforzare i rapporti politici con i paesi del
Continente nero. Il 29 novembre scorso in Tanzania è
stata inaugurata la prima scuola di partito del Partito comunista cinese
(PCC) nel Continente nero. Vi saranno formati i futuri leader di sei ex
movimenti di liberazione che puntano a restare al governo ad infinitum
in Tanzania,
Sudafrica, Angola, Mozambico, Zimbabwe e Namibia. La scuola
di Dar es Salaam, che serve a consolidare il ruolo di Pechino come
modello alternativo alla democrazia liberale, è pronta a essere
replicata altrove, in un continente in cui il PCC ha già stretto
rapporti con 110 partiti di 51 delle 54 nazioni.
L’Europa
invece, secondo la NSS, dovrebbe essere aiutata a recuperare le sue
tradizioni grazie al sostegno di Washington ai partiti della destra
sovranista del Vecchio continente. Un’Europa sempre più maltrattata a
parole e nei fatti potrebbe essere spinta a riavvicinarsi alla Cina.
Perfino l’atlanticissimo cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha giudicato “inaccettabili da una prospettiva europea” parti della Strategia, e invocato una maggiore autonomia dagli Usa, anzitutto per quanto riguarda la difesa.
Per
quanto riguarda la Cina, va rilevato anzitutto che l’amministrazione
repubblicana ha cambiato idea su una questione di fondo. Infatti la Cina non viene più definita una potenza “revisionista”, che vuole soppiantare nel mondo i valori americani con le sue regole, come nella NSS pubblicata da Trump nel 2017. Al contrario è considerata soprattutto un concorrente economico, con il quale si accetta la prospettiva di dividersi il mondo, le sue risorse, naturali, economiche, finanziarie.
Gli analisti cinesi ravvisano nel complesso della Strategia una rottura con le élite tradizionali Usa, con l’abbandono dell’obiettivo di un dominio globale permanente.
Subito
dopo l’Emisfero occidentale, la strategia indica però come priorità
proprio l’Indo-Pacifico. Che tuttavia non si configura come un’area di
competizione ideologia tra democrazia e autoritarismo (come per la
precedente amministrazione Biden) ma, pragmaticamente, come un’insieme
di mercati da conquistare e rotte commerciali da difendere, nella parte
di mondo più economicamente dinamica del pianeta.
Secondo il giornale economico Caixin:
l’attenzione
di Trump è rivolta a garantire che le rotte marittime critiche della
regione non possano essere controllate, tassate o chiuse a discrezione
di un altro paese (la Cina, ndr). Gli Stati Uniti
devono inoltre assicurarsi una posizione favorevole e la fetta più
grande della torta in una regione destinata a diventare il prossimo
grande motore economico mondiale.
Tra
i cambiamenti radicali che Trump vorrebbe affermare c’è quello di un
certo, non rigido, “non-interventismo”, un concetto che per gli Stati
Uniti non può appunto essere interpretato in maniera fondamentalista (si
riservano il diritto di intervenire sempre e comunque), ma che non
vuole replicare le azioni militari degli ultimi decenni, che hanno
presentato agli Usa un conto salato in termini finanziari e di vite
umane. «Deve essere fissata un’asticella molto alta per ciò che costituisce un intervento giustificato», c’è scritto nella NSS.
Ma non si tratta solo degli interventi armati dell’(ex?) poliziotto del mondo, la NSS chiarisce che:
nella
Dichiarazione d’Indipendenza, i fondatori dell’America stabilirono una
chiara preferenza per il non‑interventismo negli affari di altre nazioni
e ne chiarirono il fondamento: così come tutti gli esseri umani
possiedono diritti naturali uguali, donati da Dio, tutte le nazioni
hanno diritto, “per le leggi della natura e del Dio della natura”, a una
“condizione separata e uguale” rispetto alle altre.
Questo
passaggio della NSS è letto a Pechino come una implicita conferma della
validità della interpretazione ultra-estensiva della “sovranità”
promossa dal PCC, secondo cui i governi devono essere liberi di
applicare anche le politiche più controverse al riparo da ingerenze
esterne.
Musica
per le orecchie della leadership di Pechino che, per i prossimi tre
anni, vede scongiurati dolorosi contenziosi con gli Stati Uniti, come
quelli sulla violazione dei diritti dell’uomo nella regione del Xinjiang
e quelli relativi alla restrizione delle autonomie di Hong Kong, che
hanno causato tensioni e sanzioni reciproche.
Trump
afferma inoltre di volere un primato assoluto degli Stati Uniti per
quanto riguarda le risorse energetiche e la difesa, puntando in
quest’ultimo ambito a un massiccio riarmo appannaggio del complesso
militare-industriale Usa. I cinesi lo hanno capito da un po’ e con la
parata del 3 settembre scorso a piazza Tiananmen hanno fatto a loro
volta capire che procederanno rapidamente a un rafforzamento della loro
deterrenza atomica.
Dulcis in fundo, Taiwan,
che per Trump (così come per l’amministrazione precedente) è strategica
per due motivi fondamentali: la sua posizione tra la prima e la seconda
catena di isole con al centro la base Usa di Guam; la produzione di
semiconduttori. La Strategia di Trump su
questo punto si discosta in parte da quella del suo predecessore:
condivisione degli oneri (finanziari, con l’acquisto massiccio di
armamenti Usa) per la difesa dell’isola, soprattutto con Giappone e
Corea del Sud, ma (a differenza di Biden) rispetto dell’ambiguità
strategica.
Pertanto,
dissuadere un conflitto su Taiwan, idealmente preservando la
superiorità militare, è una priorità. Manterremo inoltre la nostra
storica politica dichiarativa su Taiwan, il che significa che gli Stati
Uniti non sostengono alcun cambiamento unilaterale dello status quo
nello Stretto di Taiwan.
Sulla posizione dell’amministrazione Trump su Taiwan vale la pena di riportare integralmente quanto scritto da Caixin:
L’importanza
strategica di Taiwan è collocata all’interno di questa logica
materialistica. Conta per il suo dominio nella produzione di
semiconduttori, per la sua posizione come porta d’accesso alla seconda
catena di isole e per la sua collocazione lungo il Mar Cinese
Meridionale, dove transita un terzo del traffico marittimo globale.
Questi sono i motivi per cui prevenire un conflitto è una priorità
assoluta per gli Stati Uniti, “preferibilmente attraverso il
mantenimento di una schiacciante superiorità militare.”
Ma,
afferma il documento, “questo compito non può e non deve essere
sostenuto solo dalle forze armate statunitensi.” È necessario che gli
alleati lungo la prima catena di isole aumentino la spesa per la difesa e
concedano alle forze americane un maggiore accesso ai loro porti e alle
loro strutture. Ciò crea un potenziale punto di frizione: se gli Stati
Uniti cercassero un uso ampliato delle infrastrutture di Taiwan, si
oltrepasserebbe una linea rossa per Pechino.
L’ultima
frase del documento su questo tema accenna a un’alternativa netta: se
questa condivisione dell’onere non venisse realizzata, un avversario
potrebbe stabilire un equilibrio di potere favorevole che renderebbe
“impossibile la difesa dell’isola.”
Questo documento non rappresenta la teoria dell’“Abbandonare Taiwan” né un invito all’accomodamento. È,
tuttavia, un’ammissione che nel Pacifico occidentale i ruoli di offesa e
difesa si sono invertiti. La valutazione americana della propria
potenza è passata dall’ambizione abbagliante di isolamento, contenimento
e persino di superare la Cina, a un obiettivo più modesto e realistico:
mantenere lo status quo, se possibile attraverso una deterrenza
efficace
Per la Cina Hegseth lancia il “realismo flessibile”
Con
il discorso pronunciato il 6 dicembre scorso all’annuale Reagan
National Defence Forum (nel video), Pete Hegseth ha anticipato la
Strategia di difesa nazionale Usa, che sarà pubblicata nei prossimi
giorni. Il segretario alla difesa ha elencato le quattro direttrici del
piano: difendere gli Stati Uniti e il loro emisfero; dissuadere (deter)
la Cina con fermezza invece che con la forza; aumentare la condivisione
degli oneri tra gli Usa e i loro alleati e partner; sovralimentare la
base industriale della difesa Usa.
In
linea con quanto si è visto in questo primo anno di Trump II e quanto
illustrato nella Strategia di sicurezza nazionale pubblicata la
settimana scorsa, nei prossimi anni gli Usa saranno impegnati
soprattutto a leccarsi le ferite che si sono auto-inflitti con la
globalizzazione neoliberista e le guerre in Afghanistan e Iraq, provando
a rafforzare il sistema produttivo nazionale, a cominciare dal
complesso militare-industriale. Nei riguardi della Cina sarà applicato
quello che Hegseth ha definito “realismo flessibile” e gli alleati nel
Pacifico dovranno riarmarsi (acquistando armamenti Usa) e condividere
maggiormente i costi dell’egemonia nell’area, alla quale gli Usa non
intendono rinunciare.
In
questo quadro, Taiwan resta centrale per gli Stati Uniti. Hegseth ha
ricordato che «impedire un conflitto nello Stretto di Taiwan, idealmente
preservando la superiorità militare (nel Pacifico occidentale, ndr)
rappresenta una priorità». Mentre nella NSS si ricorda che che l’isola
(parte della prima catena di isole, ndr) offre un accesso diretto alla
seconda catena di isole (con al centro la base Usa di Guam), un elemento
chiave della strategia americana per contrastare l’ascesa di Pechino
nel Pacifico occidentale.
Trump: ok all’export in Cina di superchip Nvidia per la IA
L’8
dicembre scorso, Donald Trump ha dato l’ok a Nvidia all’esportazione in
Cina dei suoi chip per intelligenza artificiale (IA) H200, a condizione
che sia garantita la sicurezza nazionale e che il 25 per cento dei
guadagni venga versato al governo americano.
Si
tratta dell’ennesimo segnale di distensione delle relazioni bilaterali
Cina-Usa. Queste potenti “graphics processing unit” (GPU) offrono
infatti prestazioni sei volte superiori agli H20 (già autorizzati a
Pechino), anche se restano indietro di circa 18 mesi rispetto alla
tecnologia di punta, ovvero le serie Blackwell e Rubin, ancora vietate
sul mercato cinese. Trump ha chiarito che l’apertura sarà estesa anche
ad AMD, Intel e altri produttori americani.
L’arrivo
degli H200 rappresenterà un test per il mercato cinese. Gli H20 infatti
sono rimasti invenduti in Cina, anche perché nel frattempo superati
dall’avanzata dei prodotti di aziende locali, Huawei anzitutto. Se
gli H200 dovessero avere un’accoglienza più favorevole degli H20 - in
un paese nel quale la domanda di chip per IA è enorme - la Cina
continuerà comunque a puntare sulla sua strategia di sviluppo e
consolidamento dell’industria nazionale dei microchip, un settore ormai
considerato centrale per l’economia e la sicurezza nazionale.
A
conferma di questa impostazione, secondo quanto riferito dal Financial
Times, negli ultimi giorni Pechino ha aggiunto per la prima volta due
produttori nazionali - Huawei e Cambricon - alla lista ufficiale degli
appalti pubblici di microchip per IA.
Surplus commerciale, 1.076 miliardi di dollari in undici mesi
Secondo
le statistiche pubblicate lo scorso 8 dicembre, nei primi undici mesi
del 2025 il surplus commerciale della Cina ha raggiunto la cifra record
di 1.076 miliardi di dollari, superando il primato precedente, 992,2
miliardi di dollari, registrato nell’intero 2024. A
novembre, il valore delle esportazioni del gigante asiatico è stato di
330,35 miliardi di dollari (+5,9 per cento), mentre quello delle
importazioni di 218,67 miliardi di dollari (+1,9). Il surplus
commerciale del mese scorso è stato di 111,68 miliardi di dollari.
Dunque,
nonostante la domanda interna stenti a decollare, il continuo boom
delle esportazioni garantirà con ogni probabilità alla Cina di
raggiungere per il 2025 il “circa 5 per cento” di crescita del prodotto
interno lordo preventivato dal governo.
I
dati dell’amministrazione nazionale delle dogane mostrano due tendenze
significative. Da un lato i ripetuti, giganteschi surplus commerciali
sono un riflesso della difficoltà di riequilibrare l’economia cinese
puntando di più sulla la domanda interna per ridurre la dipendenza
dall’export. Dall’altro evidenziano una nuova mappa dei mercati di
sbocco del made in China nella quale contano meno che in passato gli
Stati Uniti (-28,6 per cento su base annua a novembre, dopo il -25,2 per
cento di ottobre), anche se per avere un quadro completo
dell’evoluzione del commercio Cina-Usa bisognerà attendere che faccia
effetto la tregua raggiunta da Xi Jinping e Donald Trump col faccia a
faccia del 30 ottobre e la telefonata del 24 novembre scorso.
Cosco rafforza la flotta con 87 nuove navi
Il
gruppo China COSCO Shipping (COSCO) ha effettuato un ordine record di
87 nuove navi dalla China State Shipbuilding Corp. (CSSC), del valore di
oltre 50 miliardi di yuan (7 miliardi di dollari). L’accordo,
annunciato l’8 dicembre scorso, rappresenta un massiccio investimento in
navi più grandi, ecologiche e tecnologicamente avanzate. COSCO ha
spiegato che aiuterà a ottimizzare la struttura della flotta e a
sostenere la stabilità della catena di approvvigionamento globale, in un
settore marittimo in rapida trasformazione.
Dati
della società di analisi marittima Alphaliner mostrano che, a inizio
ottobre, COSCO operava 541 portacontainer con una capacità totale di
quasi 3,5 milioni di TEU, al quarto posto a livello mondiale. Una fonte
aziendale ha dichiarato che COSCO - attraverso nuovi ordini e tramite
fusioni e acquisizioni - punta a portare la capacità totale della flotta
oltre i 4 milioni di TEU entro il prossimo anno, comprese le navi
attive e quelle in ordine.
L’espansione
avviene in un contesto di forte competizione. MSC Mediterranean
Shipping Co. continua ad aggiungere navi, ampliando il suo vantaggio
sulla seconda classificata A.P. Moller-Maersk A/S. La terza, CMA CGM
S.A., sta anch’essa aumentando rapidamente la flotta, mentre la tedesca
Hapag-Lloyd AG — attualmente dietro COSCO — punta ad acquisire
l’israeliana ZIM Integrated Shipping Services Ltd. per 2,4 miliardi di
dollari, operazione che porterebbe la sua capacità più vicina a quella
di COSCO.
Berlino zittisce Macron: no a dazi sulle merci cinesi
Secondo
Johann Wadephul, l’Europa deve evitare d’imporre dazi contro la Cina
che potrebbero innescare una “spirale” protezionistica. Wadephul, che ha
concluso l’altro ieri la sua due giorni a Pechino con la quale ha
preparato la visita che il cancelliere, Friedrich Merz, effettuerà nel
nuovo anno, si è detto «scettico sul fatto che ulteriori dazi possano
aiutarci. La Germania fondamentalmente non persegue una politica di
protezionismo, che dovrebbe essere considerata solo come ultima
risorsa».
In
questo modo Berlino ha smentito Emmanuel Macron (nella foto) che, a
Pechino e Chengdu la settimana scorsa, ai cinesi aveva detto che «se non
reagiranno, noi europei saremo costretti a prendere misure forti e a
ridurre la cooperazione, seguendo l’esempio degli Stati Uniti, ad
esempio imponendo dazi sui prodotti cinesi».
Con
la visita di Wadephul i tedeschi si sono assicurati un trattamento
preferenziale, con la promessa di un flusso “affidabile” di esportazioni
verso la Germania di terre rare, indispensabili per l’industria
dell’automotive. E chissà che Berlino - Merz ha definito “inaccettabile”
parte della strategia di sicurezza nazionale di Donald Trump -, in
conseguenza del terremoto che sta scuotendo le relazioni trasatlantiche,
non decida di tornare a una politica merkeliana sulla Cina.
Berlino,
fin dai primi del Novecento, attraverso le varie Siemens, Basf,
Volkswagen, ha costruito un rapporto simbiotico con la Cina che l’ha
confermata il mese scorso primo partner della Germania e che si è
tradotto in investimenti (basti pensare all’azzardatissimo rilancio di
Volkswagen sul mercato dell’auto cinese) e interscambio commerciale che
nessun altro paese può vantare (185,9 miliardi di euro nei primi tre
trimestri del 2025). La Francia in confronto (come l’Italia) ha una
posizione marginale, con un discreto export e qualche investimento,
mentre dalla parte opposta le importazioni dalla Cina sono di ben altra
magnitudine.
L’economista Jin: Cina benefattore tecnologico globale
Al Global Supply Chain Business Summit
di Hong Kong, l’economista Jin Keyu (nella foto) ha definito la teoria
della minaccia cinese (China threat) un “completo travisamento della
realtà”. «La Cina è un grande benefattore della diffusione della
tecnologia nel mondo», ha affermato la docente di finanza alla Hong Kong
University of Science and Technology.
Jin
ha ricordato che, per i paesi in via di sviluppo, la Cina è un “enorme
contributore” alla proliferazione di tecnologie avanzate essenziali, e
che ha favorito il calo del 90 per cento dei prezzi dei pannelli solari.
Secondo l’economista, il XV Piano quinquennale (2026-2030) punta a una
transizione verso un’economia più orientata ai consumi. «Non sarà
facile. Ci vorranno tre-cinque anni. Ma il governo sta cercando di
trattenere l’entusiasmo e la spinta all’export (al momento senza
successo, ndr), perché solo così possiamo davvero mantenere intatta e resiliente la catena di approvvigionamento globale».
Jin
ha giudicato improbabile il “decoupling”, ricordando che «la Cina
dipende ancora molto dagli Stati Uniti». E ha aggiunto che la difficoltà
di coordinare politiche tra paesi alleati rende restrizioni e blocchi
«molto più difficili da applicare». «Più duri sono blocchi e divieti,
più ci sono possibilità di diversificazione e sostituzione. Ora vediamo i
microchip raggiungere livelli di avanzamento senza precedenti in Cina:
con il “tecno-nazionalismo”, aziende concorrenti lavorano assieme,
grazie a Trump», ha concluso.
Il partito prepara la strategia economica per il 2026
Nella
riunione dell’8 dicembre scorso, l’ufficio politico del Partito
comunista cinese ha delineato le priorità economiche per il 2026, che
verranno discusse nel dettaglio dall’annuale conferenza di lavoro
economico che si svolgerà nei prossimi giorni. Al termine della riunione
di dicembre, la leadership allargata (24 membri) del PCC ha ribadito
l’impegno a «fare progressi mantenendo la stabilità», con una politica
fiscale proattiva e una monetaria moderatamente espansiva.
Il
consesso ha sottolineato la necessità di coordinare meglio il lavoro
interno con «le sfide dell’economia e del commercio internazionale»,
segnale che le tensioni con gli Stati Uniti e la sfida al loro
protezionismo sono considerate centrali dalla leadership.
Pechino
punta a rafforzare la domanda interna come motore principale,
promuovere innovazione e nuovi settori di crescita, stabilizzare
occupazione e imprese e garantire standard di vita minimi. Un programma
che deve fare i conti con la domanda debole, la crisi immobiliare,
pressioni deflazionistiche e invecchiamento demografico.
L’ufficio
politico ha inoltre sottolineato l’esigenza di stabilizzare
l’occupazione, le imprese, i mercati e le aspettative al fine di
«promuovere un miglioramento qualitativo efficace e una crescita
quantitativa ragionevole dell’economia” e di “garantire un avvio solido
al periodo del XV piano quinquennale» (2026-2030).
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