Moshe Zuckermann * | ilmanifesto.it
23/07/2025
Israele e la città umanitaria Nessuna protesta per le azioni inumane dell'esercito contro la popolazione civile, nessun segnale di shock rispetto a ciò che, in fin dei conti, viene eseguito in nome dei cittadini israeliani
Il Ministro della Difesa Israel Katz ha un'idea: vuole costruire (in accordo con il Primo Ministro) una «città umanitaria» nella Striscia di Gaza. Si tratta di un'area nel distretto di Rafah all'interno della quale circa 600.000 palestinesi dovranno essere «concentrati» in delle tende e ricevere «aiuti umanitari». Hamas non sarà coinvolta in questo approvvigionamento e in questo modo perderebbe il controllo sui rifornimenti. In parallelo dovrà essere costruito un «meccanismo per favorire l'emigrazione dalla striscia di Gaza». Le persone che si trasferiranno in questa «città umanitaria» verranno severamente esaminate; successivamente verrà loro interdetto di lasciare la «città«, a meno che non vogliano emigrare «volontariamente».
Organizzazioni per i diritti umani hanno fatto notare che potrebbe trattarsi di una «evacuazione forzata» contraria alla legislazione internazionale. Giuristi hanno fatto notare che una simile disposizione di concentramento della popolazione di Gaza rappresenta in modo univoco un ordine illegale, la cui realizzazione andrebbe considerata un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità; che in determinate circostanze potrebbe degenerare in genocidio
La «città umanitaria» è un campo di concentramento?
In effetti, viene da pensare a una neolingua orwelliana in cui «città umanitaria» intende nascondere nel migliore dei casi la realtà di un ghetto, un campo di concentramento nel caso più realistico. Ma nulla può più essere veramente nascosto. La classe politica israeliana, il suo esercito (si ricordi: «l'esercito più morale del mondo»), ma anche la stragrande maggioranza della popolazione israeliana hanno attinenza con un sentire umano nei confronti dei palestinesi, per non parlare degli aiuti umanitari, più o meno tanto quanto Netanyahu è incline a non mentire o i kahanisti aspirano alla pace con gli arabi.
La coalizione di governo vuole la «vittoria totale», che poi non è altro che la devastazione di qualsiasi base vitale della Striscia di Gaza e la sistematica trasformazione del suo territorio in un «parcheggio» (almeno una parte della coalizione con la sua vecchia-nuova ambizione di un reinsediamento ebraico nella striscia di terra). L'esercito esegue i piani del governo (che è orientato primariamente alla mera conservazione del potere) con tale gioiosa verve, da aver già adesso accumulato una quantità spropositata di crimini di guerra per i quali c'è da aspettarsi che in futuro terranno occupata in modo massiccio la Corte di Giustizia Internazionale.
Anche se il grosso della popolazione israeliana è stanca della guerra e preoccupata del destino degli ostaggi a Gaza (il cui orrendo destino è da tempo deteriorato in un giocattolo tattico-politico di Netanyahu), non riserva neanche una briciola di compassione per la situazione catastrofica nella Striscia di Gaza, è cieco nei confronti della sofferenza palestinese e vuole anche restarlo. Per questo non ci sono manifestazioni contro la guerra, nessuna protesta per le azioni inumane dell'esercito contro la popolazione civile di Gaza, nessun segnale di shock rispetto a una pratica che, in fin dei conti, viene eseguita in nome dei cittadini israeliani. Per non parlare del ruolo che in questa cupa realtà svolgono l'opposizione parlamentare e i media. Con piccolissime eccezioni, fa parte di quanto di più vergognoso abbia mostrato questa guerra in termini di società civile.
Questo certamente non può sorprendere: è parte integrante dell'eclissi degli ultimi resti della democrazia israeliana che ormai equivale a un suicidio politico collettivo. Ci vorranno anni prima di poter esprimere un giudizio storico sulla misura in cui ciò che attualmente collassa, sia il risultato di strutture che da tempo erano insite nella società e nella politica di Israele.
Ma la bugia eclatante della «città umanitaria» porta in sé un'ulteriore dimensione della realtà israeliana. Quando circa 25 anni fa iniziai a parlare del fatto che il sionismo era entrato in un vicolo cieco, dal pubblico chiedevano sempre se a parte la soluzione dei due Stati resa impossibile, e la soluzione dello Stato unico che nessuna delle parti voleva, non ci fosse anche la reale possibilità che Israele potesse avviare un massiccio trasferimento della popolazione palestinese per «risolvere» definitivamente il «problema palestinese». Proposte di questo tipo in passato c'erano state e non solo in forma delle schiumanti minacce di Meir Kahane, ma anche nella forma «più moderata» della proposta di «trasferimento volontario di popolazione» del leader del partito Moledet, Rehavam Ze'evi, o da parte di Avigdor Lieberman, presidente del partito Yisrael Beiteinu.
All'epoca usavo rispondere che non vedevo questa possibilità perché gli Stati arabi e l'ONU non lo avrebbero permesso in nessun caso, ma soprattutto perché ero fermamente convinto che se si fosse arrivati a tanto, la maggioranza dei cittadini di Israele si sarebbe opposta in massa («nel peggiore dei casi ci si sdraierà davanti ai camion», era l'immagine piena di patos che evocavo). Mi sono sbagliato, devo correggere la mia valutazione di allora. L'apatia con la quale oggi viene percepita l'idea della «città umanitaria» e l'intrinseca possibilità di un trasferimento di popolazione e di pulizia etnica, è indice della più realistica possibilità di un quadro opposto.
Il razzismo israeliano e la disumanizzazione dei palestinesi
Questa impressione non si basa solo sulla speculazione. Già oggi a Gaza quotidianamente vengono uccise dozzine di civili, in parte proprio coloro che si recano a ricevere i necessari aiuti umanitari. Questo si aggiunge all'indifferenza con la quale in Israele si registra la politica con la quale si affama la popolazione di Gaza e quindi la morte di innumerevoli bambini e delle loro madri. Motto corrente: «Se lo sono cercato con il 7 ottobre» e «A Gaza non ci sono innocenti - tutti sono terroristi, compresi i bambini che sono tutti potenziali terroristi». Il governo è al «passo con i tempi» - viene molto criticato, molti odiano Netanyahu, ma i crimini commessi a Gaza e quanto lì viene pianificato in spregio della legislazione internazionale lascia indifferente la maggior parte degli israeliani. Il bisogno di vendetta e la sete di ritorsioni, evidentemente non sono ancora venuti meno. Il razzismo israeliano e l'affratellata disumanizzazione complessiva dei palestinesi sono alla riscossa.
Torniamo alla «città umanitaria», che appunto non è ciò che dice il nome, ma un ghetto ossia un campo di concentramento. Per la maggior parte degli israeliani ebrei, il problema non sta nel fatto che una tale idea sia anche solo proposta o già pianificata, ma che questa realtà in quanto tale accettata, sia così denominata. Un problema di nomenclatura. Perché ghetti e campi di concentramento in Israele codificano qualcosa che si sottrae a qualsiasi paragone. I campi di concentramento appartengono all'eredità della memoria della Shoah, e questa è unica, non ammette paragoni.
Si sa: l'Olocausto che dovrebbe costituire un riferimento nella storia mondiale per marcare il permanente potenziale di una ricaduta umana nella barbarie sotto forma di un ammonimento dato dalla memoria, già da tempo non assolve più questa funzione. È difficile determinare in quale misura questo sviluppo sia legato all'oggettiva incapacità di produrre una rappresentazione valida della Shoah, ma dovrebbe essere chiaro che le rappresentazioni prodotte, e soprattutto i contesti in cui e per i quali cui sono nate, hanno un effetto principalmente ideologico. La domanda che qui si pone quindi, non è se la «città umanitaria» di Israele sia da mettere sullo stesso piano dei campi di concentramento tedeschi nella Shoah, ma come si possa arrivare al fatto che si produca una tale associazione.
Va da sé che nonostante il paradigma di un «secolo dei Lager» (Zygmunt Bauman) non ogni Lager abbia già il carattere del campo di concentramento tedesco (KZ). Ma l'associazione automatica del KZ con la «città umanitaria» ha a che fare in primo luogo con il fatto che chi ha ideato questa «città» e la cui idea, almeno per quanto riguarda il suo reale obiettivo, è senz'altro compatibile con l'associazione KZ, siano ebrei. E nel caso del Ministro israeliano Israel Katz perfino figlio di sopravvissuti della Shoah.
Per decenni si è costruita ideologicamente l'affermazione protettiva che gli ebrei non sarebbero capaci di ciò che gli è stato inflitto dai nazisti. Questo è vero, ma solo con riserva. Vero è che gli israeliani non hanno costruito campi di sterminio nella misura dei nazisti, in cui viene condotto un genocidio su scala industriale; ma hanno effettivamente articolato una volontà di distruzione paragonabile, e non solo nei mass-media ma anche nel Parlamento israeliano. L'idea di affamare e della distruzione totale, così come la sistematica e prestabilita disumanizzazione di coloro che sono da sterminare, non è nata nel vuoto pneumatico; il terreno fertile era già pronto.
Ma anche se si rifugge dal paragone con i nazisti, si pone sempre la disturbante domanda: cos'è che continua a portare gli israeliani a pratiche che fanno sorgere associazioni con le mostruosità della storia? La risposta israeliana secondo la quale l'affermazione come tale non corrisponde al vero e si basa sull'antisemitismo, non è mai stata sufficiente, ma ormai ha perso definitivamente anche la giustificazione, un tempo forse ancora sostenibile. Anche l'affermazione che la radicalizzazione israeliana sia legata alla reificazione ideologica del problema della sicurezza e alla feticizzazione della superiorità militare, non basta a spiegare tale smodatezza.
L'accresciuta bramosia di distruggere e uccidere con il pretesto del «diritto all'autodifesa», in cui ci si impegna nella disumanizzazione di coloro dai quali ci si vede costretti a «difendersi», indica piuttosto che si mira a nascondere qualcosa di se stessi nello stesso modo in cui si intende nascondere qualcosa facendo diventare un campo di concentramento una «città umanitaria». Una risposta univoca a questa domanda non c'è.
Ma anche qui si offre la poesia di Heinrich Heine «An Edom!» come suggestiva rappresentazione poetica (o addirittura decodifica) di ciò di cui evidentemente si tratta.
Da un millennio e forse più
ci tolleriamo fraternamente:
tu sopporti ch' io respiri,
il tuo infuriarti tollero io.
Solo a volte, in tempi bui,
ti prendeva un certo sentire
e le tue zampette pie e amorose
del mio sangue coloravi!
Ora la nostra amicizia si rinsalda,
si accresce giorno dopo giorno:
io stesso cominciai a infuriare
divento quasi come sei tu.
Note:
* Sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia dell'università di Tel Aviv.
L'articolo è stato pubblicato in tedesco su Overton Magazin il 19 luglio 2025.
Traduzione a cura di Sveva Haertter e Helena Janeczek.
Israele e la città umanitaria Nessuna protesta per le azioni inumane dell'esercito contro la popolazione civile, nessun segnale di shock rispetto a ciò che, in fin dei conti, viene eseguito in nome dei cittadini israeliani
Il Ministro della Difesa Israel Katz ha un'idea: vuole costruire (in accordo con il Primo Ministro) una «città umanitaria» nella Striscia di Gaza. Si tratta di un'area nel distretto di Rafah all'interno della quale circa 600.000 palestinesi dovranno essere «concentrati» in delle tende e ricevere «aiuti umanitari». Hamas non sarà coinvolta in questo approvvigionamento e in questo modo perderebbe il controllo sui rifornimenti. In parallelo dovrà essere costruito un «meccanismo per favorire l'emigrazione dalla striscia di Gaza». Le persone che si trasferiranno in questa «città umanitaria» verranno severamente esaminate; successivamente verrà loro interdetto di lasciare la «città«, a meno che non vogliano emigrare «volontariamente».
Organizzazioni per i diritti umani hanno fatto notare che potrebbe trattarsi di una «evacuazione forzata» contraria alla legislazione internazionale. Giuristi hanno fatto notare che una simile disposizione di concentramento della popolazione di Gaza rappresenta in modo univoco un ordine illegale, la cui realizzazione andrebbe considerata un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità; che in determinate circostanze potrebbe degenerare in genocidio
La «città umanitaria» è un campo di concentramento?
In effetti, viene da pensare a una neolingua orwelliana in cui «città umanitaria» intende nascondere nel migliore dei casi la realtà di un ghetto, un campo di concentramento nel caso più realistico. Ma nulla può più essere veramente nascosto. La classe politica israeliana, il suo esercito (si ricordi: «l'esercito più morale del mondo»), ma anche la stragrande maggioranza della popolazione israeliana hanno attinenza con un sentire umano nei confronti dei palestinesi, per non parlare degli aiuti umanitari, più o meno tanto quanto Netanyahu è incline a non mentire o i kahanisti aspirano alla pace con gli arabi.
La coalizione di governo vuole la «vittoria totale», che poi non è altro che la devastazione di qualsiasi base vitale della Striscia di Gaza e la sistematica trasformazione del suo territorio in un «parcheggio» (almeno una parte della coalizione con la sua vecchia-nuova ambizione di un reinsediamento ebraico nella striscia di terra). L'esercito esegue i piani del governo (che è orientato primariamente alla mera conservazione del potere) con tale gioiosa verve, da aver già adesso accumulato una quantità spropositata di crimini di guerra per i quali c'è da aspettarsi che in futuro terranno occupata in modo massiccio la Corte di Giustizia Internazionale.
Anche se il grosso della popolazione israeliana è stanca della guerra e preoccupata del destino degli ostaggi a Gaza (il cui orrendo destino è da tempo deteriorato in un giocattolo tattico-politico di Netanyahu), non riserva neanche una briciola di compassione per la situazione catastrofica nella Striscia di Gaza, è cieco nei confronti della sofferenza palestinese e vuole anche restarlo. Per questo non ci sono manifestazioni contro la guerra, nessuna protesta per le azioni inumane dell'esercito contro la popolazione civile di Gaza, nessun segnale di shock rispetto a una pratica che, in fin dei conti, viene eseguita in nome dei cittadini israeliani. Per non parlare del ruolo che in questa cupa realtà svolgono l'opposizione parlamentare e i media. Con piccolissime eccezioni, fa parte di quanto di più vergognoso abbia mostrato questa guerra in termini di società civile.
Questo certamente non può sorprendere: è parte integrante dell'eclissi degli ultimi resti della democrazia israeliana che ormai equivale a un suicidio politico collettivo. Ci vorranno anni prima di poter esprimere un giudizio storico sulla misura in cui ciò che attualmente collassa, sia il risultato di strutture che da tempo erano insite nella società e nella politica di Israele.
Ma la bugia eclatante della «città umanitaria» porta in sé un'ulteriore dimensione della realtà israeliana. Quando circa 25 anni fa iniziai a parlare del fatto che il sionismo era entrato in un vicolo cieco, dal pubblico chiedevano sempre se a parte la soluzione dei due Stati resa impossibile, e la soluzione dello Stato unico che nessuna delle parti voleva, non ci fosse anche la reale possibilità che Israele potesse avviare un massiccio trasferimento della popolazione palestinese per «risolvere» definitivamente il «problema palestinese». Proposte di questo tipo in passato c'erano state e non solo in forma delle schiumanti minacce di Meir Kahane, ma anche nella forma «più moderata» della proposta di «trasferimento volontario di popolazione» del leader del partito Moledet, Rehavam Ze'evi, o da parte di Avigdor Lieberman, presidente del partito Yisrael Beiteinu.
All'epoca usavo rispondere che non vedevo questa possibilità perché gli Stati arabi e l'ONU non lo avrebbero permesso in nessun caso, ma soprattutto perché ero fermamente convinto che se si fosse arrivati a tanto, la maggioranza dei cittadini di Israele si sarebbe opposta in massa («nel peggiore dei casi ci si sdraierà davanti ai camion», era l'immagine piena di patos che evocavo). Mi sono sbagliato, devo correggere la mia valutazione di allora. L'apatia con la quale oggi viene percepita l'idea della «città umanitaria» e l'intrinseca possibilità di un trasferimento di popolazione e di pulizia etnica, è indice della più realistica possibilità di un quadro opposto.
Il razzismo israeliano e la disumanizzazione dei palestinesi
Questa impressione non si basa solo sulla speculazione. Già oggi a Gaza quotidianamente vengono uccise dozzine di civili, in parte proprio coloro che si recano a ricevere i necessari aiuti umanitari. Questo si aggiunge all'indifferenza con la quale in Israele si registra la politica con la quale si affama la popolazione di Gaza e quindi la morte di innumerevoli bambini e delle loro madri. Motto corrente: «Se lo sono cercato con il 7 ottobre» e «A Gaza non ci sono innocenti - tutti sono terroristi, compresi i bambini che sono tutti potenziali terroristi». Il governo è al «passo con i tempi» - viene molto criticato, molti odiano Netanyahu, ma i crimini commessi a Gaza e quanto lì viene pianificato in spregio della legislazione internazionale lascia indifferente la maggior parte degli israeliani. Il bisogno di vendetta e la sete di ritorsioni, evidentemente non sono ancora venuti meno. Il razzismo israeliano e l'affratellata disumanizzazione complessiva dei palestinesi sono alla riscossa.
Torniamo alla «città umanitaria», che appunto non è ciò che dice il nome, ma un ghetto ossia un campo di concentramento. Per la maggior parte degli israeliani ebrei, il problema non sta nel fatto che una tale idea sia anche solo proposta o già pianificata, ma che questa realtà in quanto tale accettata, sia così denominata. Un problema di nomenclatura. Perché ghetti e campi di concentramento in Israele codificano qualcosa che si sottrae a qualsiasi paragone. I campi di concentramento appartengono all'eredità della memoria della Shoah, e questa è unica, non ammette paragoni.
Si sa: l'Olocausto che dovrebbe costituire un riferimento nella storia mondiale per marcare il permanente potenziale di una ricaduta umana nella barbarie sotto forma di un ammonimento dato dalla memoria, già da tempo non assolve più questa funzione. È difficile determinare in quale misura questo sviluppo sia legato all'oggettiva incapacità di produrre una rappresentazione valida della Shoah, ma dovrebbe essere chiaro che le rappresentazioni prodotte, e soprattutto i contesti in cui e per i quali cui sono nate, hanno un effetto principalmente ideologico. La domanda che qui si pone quindi, non è se la «città umanitaria» di Israele sia da mettere sullo stesso piano dei campi di concentramento tedeschi nella Shoah, ma come si possa arrivare al fatto che si produca una tale associazione.
Va da sé che nonostante il paradigma di un «secolo dei Lager» (Zygmunt Bauman) non ogni Lager abbia già il carattere del campo di concentramento tedesco (KZ). Ma l'associazione automatica del KZ con la «città umanitaria» ha a che fare in primo luogo con il fatto che chi ha ideato questa «città» e la cui idea, almeno per quanto riguarda il suo reale obiettivo, è senz'altro compatibile con l'associazione KZ, siano ebrei. E nel caso del Ministro israeliano Israel Katz perfino figlio di sopravvissuti della Shoah.
Per decenni si è costruita ideologicamente l'affermazione protettiva che gli ebrei non sarebbero capaci di ciò che gli è stato inflitto dai nazisti. Questo è vero, ma solo con riserva. Vero è che gli israeliani non hanno costruito campi di sterminio nella misura dei nazisti, in cui viene condotto un genocidio su scala industriale; ma hanno effettivamente articolato una volontà di distruzione paragonabile, e non solo nei mass-media ma anche nel Parlamento israeliano. L'idea di affamare e della distruzione totale, così come la sistematica e prestabilita disumanizzazione di coloro che sono da sterminare, non è nata nel vuoto pneumatico; il terreno fertile era già pronto.
Ma anche se si rifugge dal paragone con i nazisti, si pone sempre la disturbante domanda: cos'è che continua a portare gli israeliani a pratiche che fanno sorgere associazioni con le mostruosità della storia? La risposta israeliana secondo la quale l'affermazione come tale non corrisponde al vero e si basa sull'antisemitismo, non è mai stata sufficiente, ma ormai ha perso definitivamente anche la giustificazione, un tempo forse ancora sostenibile. Anche l'affermazione che la radicalizzazione israeliana sia legata alla reificazione ideologica del problema della sicurezza e alla feticizzazione della superiorità militare, non basta a spiegare tale smodatezza.
L'accresciuta bramosia di distruggere e uccidere con il pretesto del «diritto all'autodifesa», in cui ci si impegna nella disumanizzazione di coloro dai quali ci si vede costretti a «difendersi», indica piuttosto che si mira a nascondere qualcosa di se stessi nello stesso modo in cui si intende nascondere qualcosa facendo diventare un campo di concentramento una «città umanitaria». Una risposta univoca a questa domanda non c'è.
Ma anche qui si offre la poesia di Heinrich Heine «An Edom!» come suggestiva rappresentazione poetica (o addirittura decodifica) di ciò di cui evidentemente si tratta.
Da un millennio e forse più
ci tolleriamo fraternamente:
tu sopporti ch' io respiri,
il tuo infuriarti tollero io.
Solo a volte, in tempi bui,
ti prendeva un certo sentire
e le tue zampette pie e amorose
del mio sangue coloravi!
Ora la nostra amicizia si rinsalda,
si accresce giorno dopo giorno:
io stesso cominciai a infuriare
divento quasi come sei tu.
Note:
* Sociologo israelo-tedesco e professore emerito di storia e filosofia dell'università di Tel Aviv.
L'articolo è stato pubblicato in tedesco su Overton Magazin il 19 luglio 2025.
Traduzione a cura di Sveva Haertter e Helena Janeczek.
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