La Repubblica
Psicofarmaci, niente medici, nessun diritto. L’inferno del centro rimpatri di Caltanissetta: “Qui ogni giorno è lungo un anno
Parla uno dei sommersi nel Cpr di Pian del Lago. Ci è finito per un garbuglio burocratico, in pochi giorni è stato tirato fuori e adesso dice: “Salviamo quei ragazzi
“Sai qual è la prima cosa che ti dicono appena entri là? ‘La vuoi la terapia?’. Sono calmanti, sonniferi, non so quale altra schifezza. Non serve a curare niente, ti ammazza e basta”. Nell’inferno del Cpr di Pian del Lago, nel Nisseno, Bacary ci è stato per pochissimo tempo. “Ma un giorno lì dentro vale un anno. Io sono rimasto lì per poco più di 72 ore, mi è sembrato non finissero mai. Lì dentro non sei un essere umano, ti trattano come un animale da addomesticare. Non sembra neanche di stare in Italia”.
Dei Cpr, i centri per i rimpatri che il governo Meloni vorrebbe sempre più attivi, più grandi e in ogni
regione stando agli annunci, Pian del Lago è uno dei più vecchi. E dei più chiacchierati. Più volte in passato è finito al centro delle cronache per incendi, fughe, rivolte per le pessime condizioni di vita all’interno, denunciate da avvocati, giuristi e attivisti.Qualche mese fa, nella struttura si è presentato per un’ispezione il deputato di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. “In quell’occasione – spiega - avevamo potuto constatare strutture fatiscenti, condizioni di vita indegne, condizioni igieniche che di igienico non hanno nulla, assistenza sanitaria deficitaria, violazioni del diritto di difesa degli ospiti del Cpr, che in molti casi non hanno potuto nominare un legale di fiducia. Ora, ad alcuni mesi di distanza, nessun miglioramento anzi. A questo punto, il governo dovrà spiegare in Parlamento perché tutto ciò che abbiamo visto e tutto ciò che viene denunciato non trova soluzione”.
Ancor prima, nel 2022, a visitare il centro era stata una delegazione di avvocati e giuristi di Asgi, associazione studi giuridici sull’immigrazione. Nel report pubblicato nel novembre scorso si legge: “Le persone trattenute hanno lamentato l’insufficiente attenzione agli aspetti sanitari, la circostanza che gli vengano somministrare “gocce” che portano sonnolenza e tachipirina e ibuprofene a fronte di qualsivoglia problematica”. Chi è passato da quella gabbia parla di Rivotril, un potente antiepilettico, benzodiazepine come il Tavor, antidepressivi. “ Alcuni hanno evidenziato come vi siano persone trattenute che manifestano disturbi psichici”, si legge nel report dell’associazione. Non a caso, fra le raccomandazioni che chiudono il report c’è anche di “prevedere che la somministrazione di psicofarmaci e ansiolitici avvenga solo dietro prescrizione medica, preceduta ad apposita visita psichiatrica presso strutture del sistema sanitario nazionale”. A quanto pare però nulla è mai cambiato.
A taccuini chiusi sono tanti a confermarlo. Bacary, pur trincerandosi dietro un nome di fantasia, quello che ha visto lo vuole spiegare, far sapere. “Quello che ho visto è troppo grave, assurdo”. Dentro, lui ci è finito per un garbuglio burocratico: gli è stata negata la protezione internazionale, ha fatto appello ed è in attesa della fissazione del giudizio. Da terminale però non risulta e nel frattempo non ha documenti validi. Anche per questo chiede di trincerarsi dietro un nome di fantasia. “Ho paura che facciano del male a me e ai miei”. O banalmente che possa pregiudicare la sua battaglia legale. Fermato a un controllo stradale a Palermo, è stato subito trasferito in Cpr. “Mi hanno caricato su una volante e accompagnato a tutta velocità a Caltanissetta come se fossi un criminale. Ho fatto giusto in tempo ad avvertire la mia avvocata, poi mi hanno tolto anche il telefono”.
Succedeva mesi fa, ma quello che ha visto, quello che ha vissuto lo divora. “Bisogna fare qualcosa per salvare quei ragazzi – dice – lì dentro stanno distruggendo uomini e creando mostri, incapaci di parlare, di pensare, di fare qualsiasi cosa. Perché? Io non lo capisco, non me lo spiego”.
Tutto a Pian del Lago serve a farti dimenticare di essere una persona, un essere umano. “Io non avevo nome, non avevo identità. Io ero un numero. Io mi chiamavo trentacinque”. Per prima cosa, gli hanno chiesto di mettersi in fila. In fondo c’era un infermiere: “La vuoi la terapia?”. Gocce o pasticche, il risultato – spiega Bacary – era sempre lo stesso. “I ragazzi, molti giovanissimi, forse appena maggiorenni, diventavano degli automi. Incapaci di parlare, di pensare, di fare qualsiasi cosa. Molti passavano il tempo a dormire sui materassi luridi che ci sono lì dentro”.
Nessun medico a verificare le condizioni, “chi stava lì da più tempo mi ha detto che il dottore si fa vedere solo una volta al mese”. A distribuire psicofarmaci “era un infermiere, dicevano fosse un tirocinante”. E forse – o almeno questo lui sospetta – quei farmaci venivano imposti anche a chi non li volesse: “Ogni volta che mangiavo qualcosa – e ce ne voleva, perché il cibo era poco e pessimo – improvvisamente mi veniva sonno, mi sentivo intontivo, avevo solo voglia di dormire, non mi importava più di nulla”. L’imperativo categorico -spiega – era far stare tutti calmi. A vegetare. “Ho chiesto di avere un libro, un fumetto, un giornale, non c’è niente. Neanche una televisione per capire cosa stia succedendo fuori”. Il Cpr è un non luogo, dove anche le semplici attività quotidiane sono un lusso difficile da conquistare. “Lì c’è una sola doccia funzionante per tutti, un unico lavandino, anche l’acqua in piena estate è razionata”.
Dal Cara poco distante, dove da mesi gli ospiti protestano per le pessime condizioni di vita – mancano cibo e vestiti, solo dopo due mesi di proteste è stata effettuata una disinfestazione delle stanze container piene di insetti – denunciano: “Ogni notte si sentono urla, pianti, arriva l’odore dei lacrimogeni”. Perché l’effetto dei farmaci finisce.
“La notte lì sembra giorno. C’è chi protesta perché ha bisogno di dosi sempre maggiori di medicine, chi cerca di scappare, chi sale sui tetti e minaccia di buttarsi giù”. Pian del Lago, racconta, è un inferno da cui fuggire è impossibile. Qualcuno però ci prova comunque. Qualche mese fa, un ragazzo tunisino è caduto mentre tentava di scavalcare la recinzione alta oltre sei metri, provocandosi gravi ferite che hanno reso necessario il ricovero in ospedale. Ma pur di fuggire a quell’inferno, durante il trasferimento si è buttato giù dall’ambulanza, per poi lanciarsi da un viadotto.
“Appena arrivi ti tolgono lo smartphone – racconta Bacary – Significa che non puoi comunicare con nessuno, non puoi chiedere aiuto, non puoi documentare con foto e video quello che succede lì dentro”. Eppure, quanto meno formalmente non è un carcere.
Chi finisce lì è in stato di detenzione amministrativa, “giuridicamente una contraddizione in termini”, spiega l’avvocata Ilenia Grottadaurea, perché pur in assenza di reato o imputazione vi è una privazione della libertà personale. In teoria, è regime che può durare massimo 90 giorni, in alcuni casi prorogabili a 120. Ma a molti capita di essere liberati e immediatamente o quasi di nuovo imprigionati lì dentro. Gli operatori legali sono pochi, possono passare giorni prima che si rivolgano a un nuovo arrivato.
“Mi sono presentata appena il mio assistito è riuscito a contattarmi”, spiega l’avvocata Grottadaurea. Ma pur in presenza di una nomina formale ha dovuto attendere ore prima di riuscire a entrare. “Se non mi fossi presentata io al Cpr, sarebbe stato obbligato ad affrontare l’udienza di convalida da solo, affiancato da un avvocato che nulla sa del suo caso”. L’assistenza legale, gli sportelli di orientamento sono un miraggio. “Non volevo parlare per paura di ritorsioni – mormora Bacary – ma ogni giorno penso a quello che ho vissuto lì dentro e ogni giorno non posso che ripetermi che quei ragazzi non possono essere abbandonati. Lì dentro c’è per lo più gente che ci finisce perché non ha documenti validi o non li ha ancora. Per questo merita di essere lentamente ammazzata?”.
Nessun commento:
Posta un commento