Lavoro a basso costo: è sempre questo il segreto di pulcinella del successo di ogni capitalista che si riempie la bocca di capacità di gestione, di investimento ecc. ecc...
Per tenere basso il livello dei salari i padroni devono avere meno leggi, meno vincoli (come li chiamano loro) possibili da rispettare; nel nostro paese questo prende la forma della guerra del governo e dei padroni contro i diritti dei lavoratori conquistati con le lotte degli anni 60 e 70 che imposero ai padroni lo statuto dei lavoratori; la cancellazione dell'articolo 18 vuole essere l'atto finale di una vendetta maturata per anni, una resa dei conti con quelle conquiste. I padroni avrebbero così mano libera nei licenziamenti e nel mantenere di conseguenza i salari bassi per la pressione che viene dalla paura di perdere il posto di lavoro e dalla aumentata disoccupazione.
E questo avviene in tutto il mondo: in Asia, in particolare, tutte le grandi multinazionali hanno saccheggiato risorse e sfruttato fino all'inverosimile le popolazioni operaie.
Ma da alcuni anni proprio l'aumento del numero dei nuovi operai e delle loro lotte sta portando a dei cambiamenti, i salari aumentano e i padroni prendono provvedimenti. Ma uno dei risultati è, per dirla con il giornalista dell'articolo che riportiamo, “Per chi è cresciuto solo grazie allo sfruttamento altrui, i posti dove fuggire iniziano a scarseggiare.”
E' anche per questo che nei paesi industrializzati, nei paesi ricchi, imperialisti, c'è un accanimento contro i diritti dei lavoratori...
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VILLAGGIO GLOBALE
COSTO DEL LAVORO FINISCE L’ERA DELL’ASIA A BUON MERCATO
L’aumento del costo del lavoro nell’ultimo anno ha fatto impennare l’inflazione in Cina, innescando la prima delocalizzazione all’estero della storia da parte di migliaia di imprese. La pressione sui salari dilaga però ora in tutta l’Asia e le multinazionali sono costrette a rivedere piani di produzione e di sviluppo. Le rivoluzioni scoppiate nell’Africa mediterranea e in Medio Oriente allarmano i governi asiatici. Per evitare che focolai di agitazioni sindacali si trasformino in sommosse popolari e magari nella miccia di rivoluzioni politiche, le autorità delle potenze produttive emergenti impongono così ai produttori aumenti di stipendi senza precedenti. La Malesia ha appena approvato la legge sul suo primo salario minimo: in vista delle elezioni ha aumentato le paghe del 30%, portandole tra 264 e 297 dollari al mese. Anche Thailandia e Indonesia hanno fatto lo stesso: con i primi di aprile Bangkok concederà aumenti del 40% (9,8 dollari al giorno), mentre chiedono salari più alti anche i sindacati di Cambogia, Sri Lanka e Bangladesh. In Indonesia, in pochi mesi, gli operai hanno strappato adeguamenti del 23%. L’esempio è quello cinese. Da gennaio Pechino ha alzato gli stipendi minimi dell’8,6%, portandoli a 199 dollari al mese. Shenzhen però, capitale mondiale hitech, è stata costretta ad aumenti fino al 14%, mentre l’esplosione del porto di Tianjin entro la primavera costringerà i datori di lavoro ad aumenti salariali del 13%. I livelli assoluti restano ben al di sotto delle retribuzioni medie delle regioni industriali sviluppate in Europa e Usa, ma gli amministratori delegati delle multinazionali ormai si guardano in giro. Lo sguardo si spinge verso nuovi distretti alternativi: America centrale e del Sud, Haiti, Egitto e Giordania, oppure il Vietnam. Il business industriale, osservano gli analisti, diventa sempre più mobile e ruota attorno ai Paesi in via di sviluppo più convenienti. I benefìci, secondo i produttori, non sono solo delle aziende: creano lavoro nelle nazioni più povere, generano lavoratori abili e distretti organizzati, stimolano la crescita di infrastrutture e la nascita di aziende capaci poi di convertirsi all’elettronica. Nell’Asia abituata allo sfruttamento di masse di schiavi, promosso oggi dalle imprese straniere, prevale però per ora l’allarme sull’aumento del costo del lavoro. I governi sperano che stipendi meno iniqui favoriscano un aumento dei consumi interni e scoraggino disordini sociali. Temono però che la crescita dei costi energetici e dell’inflazione non sia compensata dall’aumento delle esportazioni, che Europa ed Usa non possono più garantire. Le associazioni industriali del Sudest asiatico lanciano così l’allarme: un brusco aumento dei minimi salariali – sostengono – invece di garantire stabilità, favorirà nuove crisi. Lo spettro, già affacciatosi in Cina, è la perdita netta di posti di lavoro, la chiusura di migliaia di imprese e la loro fuga verso regioni ancora costrette ad offrire manodopera a basso costo. In Asia la nazione emergente è appunto il Vietnam. Nel 2011 gli aumenti salariali hanno seguito il trend cinese, ma le paghe nette rimangono più basse. Prima di scegliere delocalizzazioni in nuovi continenti, i colossi mondiali di Taiwan, Giappone e Corea del Sud fanno dunque oggi rotta su Hanoi, dove tasse e incentivi non hanno concorrenti. A penalizzare la Cina e altri Stati fabbrica dell’Asia, si aggiunge poi un elemento nuovo: la crescita dei consumi interni favorisce la moltiplicazione di piccoli business locali, si creano posti di lavoro nelle regioni periferiche e i lavoratori non sono più disposti a emigrare verso i grandi distretti delle coste. Per chi è cresciuto solo grazie allo sfruttamento altrui, i posti dove fuggire iniziano a scarseggiare.
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