Dalle quattro e mezza cominciano a muoversi in bici verso le campagne dell'Agro pontino, dove è morto terribilmente uno di loro, Satnam Singh
di Angelo Mastrandrea
Alle 4:30 del mattino a Borgo Hermada, in provincia di Latina, decine di indiani escono dalle loro case e montano sulle bici per andare al lavoro. Alcuni indossano giubbotti catarifrangenti che li rendono visibili anche a distanza, altri no, e al buio si fa fatica a notarli. Per fortuna a quell’ora per strada non c’è nessuno. «Purtroppo ogni tanto qualcuno di loro muore in un incidente perché le auto non li vedono, soprattutto nelle vie di campagna che non sono illuminate o in quelle più trafficate», dice Sonia Narinder Kaur, un’attivista indiana del «sindacato di strada» che la FLAI (Federazione Lavoratori Agro Industria) CGIL organizza dal 2009 per entrare in contatto con i lavoratori «lì dove sono», cioè nei campi o mentre si spostano per andare al lavoro.
Ufficialmente risultano circa 2.000 abitanti, ma in realtà sono di più perché molti non hanno il permesso di soggiorno. In tutta la provincia di Latina gli indiani residenti sono poco più di 13mila, ma
secondo diverse stime gli irregolari sarebbero più di 30mila. La maggior parte proviene dal Punjab, uno stato del Nord dell’India. Tutti lavorano nelle aziende agricole della zona, spesso in nero o attraverso forme di lavoro «grigio», cioè con contratti stipulati per un numero di ore minimo da esibire nel caso di controlli, ma in realtà impiegati a tempo pieno.Al lavoro con lui c’era anche sua moglie Sony. Erano arrivati in Italia dal Punjab tre anni fa. Nei primi due anni avevano lavorato in un allevamento di bufale del casertano e da un anno lavoravano in nero a Borgo Santa Maria, frazione fondata dagli emigranti dal Nord Italia durante le bonifiche fasciste, attraversato dal canale “acque alte”, meglio conosciuto come Canale Mussolini. Secondo i lavoratori presenti, per un’ora e mezza il datore di lavoro – Alessandro Lovato – ha impedito a chiunque di chiamare i soccorsi e ha chiesto a tutti di dargli i telefonini. Quando Satnam Singh è stato scaricato agonizzante davanti alla sua abitazione, un’ora e mezza dopo l’incidente, un suo collega indiano ha fotografato il braccio nella cassetta e lo ha inviato al sindacato con una richiesta di aiuto.
Laura Hardeep Kaur è stata la prima persona a vedere Satnam Singh ferito. «Mi sono trovata di fronte una scena orribile, per una settimana non sono riuscita a mangiare nulla», dice. I vicini di casa nel frattempo avevano chiamato il 118. I medici hanno a loro volta fatto arrivare un’eliambulanza che lo ha portato all’ospedale San Camillo di Roma, dove è stato operato e ingessato all’altro braccio. Singh è morto due giorni dopo.
Secondo l’autopsia, Satnam Singh è morto per le gravi ferite subite e «anche per dissanguamento», che si sarebbe potuto evitare se i soccorsi fossero stati chiamati subito. Il titolare dell’azienda Agrilovato è indagato per omicidio colposo, omissione di soccorso, violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro e per le irregolarità nell’assunzione. Insieme a lui è indagato anche un indiano, ritenuto il caporale che guidava il furgoncino.
le violenze sui lavoratori indiani sono molto diffuse e quello di Satnam Singh non è un caso isolato. Ogni giorno il sindacato riceve richieste di aiuto di ogni genere. Sonia Narinder Kaur ricorda la telefonata di un indiano «che si era rifugiato in una coltivazione di kiwi perché il padrone stava tentando di investirlo con un SUV dopo che gli aveva chiesto di pagargli degli arretrati». A Pontinia un altro lavoratore ha denunciato di essere stato aggredito con un coltello e un bastone dal titolare dell’azienda e da suo figlio perché aveva chiesto di essere pagato.
Il sociologo Marco Omizzolo, che da anni studia la comunità sikh dell’Agro pontino, ha raccolto decine di testimonianze di violenze subìte. «Quello di Satnam non è il primo caso di un lavoratore vittima di un incidente sul lavoro che non viene soccorso e viene abbandonato fuori dall’azienda», dice. Di solito però i migranti «hanno paura di denunciare per paura di perdere il lavoro o anche di ulteriori violenze fisiche».
In un’interrogazione parlamentare sulle condizioni dei lavoratori indiani nell’Agro pontino vi si legge che «tra le più inquietanti costrizioni cui sono costretti i braccianti si annovera l’obbligo, imposto dal datore di lavoro o dal caporale indiano, di abbassare il capo o fare il saluto romano dinanzi all’effigie o busto del dittatore Mussolini presente in alcune aziende agricole pontine». Il parlamentare si riferisce alla denuncia di alcuni migranti impiegati in un’azienda agricola di San Felice Circeo, che hanno anche scattato alcune foto che mostrano un fascio littorio e un’immagine del Duce. Inoltre, dice l’interrogazione, «secondo alcune testimonianze, sarebbero nascoste armi come pistole e fucili, alcune regolarmente detenute, utilizzate per ricattare e/o impaurire i braccianti stranieri e ricordare loro chi comanda e cosa è in grado di fare se gli ordini imposti non vengono eseguiti correttamente».
Quando accadono episodi del genere, i sindacalisti accompagnano i migranti a denunciare e offrono una tutela legale, «ma non sempre i lavoratori se la sentono di andare dalle forze dell’ordine, anche perché di solito le denunce non hanno seguito o rimangono bloccate per mesi e nel frattempo loro rimangono senza protezione e rischiano di perdere il lavoro», spiega Laura Hardeep Kaur. «In media riceviamo una trentina di chiamate o di visite al giorno nelle nostre sedi di Latina e di Borgo Hermada. Nei giorni di pioggia, quando non si lavora, siamo arrivati anche a settanta», dice ancora. «Ci chiamano per qualsiasi cosa, per denunciare episodi di sfruttamento o di violenze, per le buste paga che non corrispondono a quanto pattuito e pure per l’iscrizione dei figli all’asilo, perché spesso non sanno leggere l’italiano per compilare i moduli, i siti web non hanno la pagina in inglese e magari serve lo SPID per accedere e loro non capiscono cosa sia».
Verso le 5 del mattino, lungo le strade di Borgo Hermada si formano crocicchi di persone che attendono i caporali. I lavoratori si fermano agli angoli delle strade o davanti ai negozi indiani. Salgono in fretta su auto di grossa cilindrata o su furgoni nuovi guidati da loro concittadini. Non ci sono più i pulmini sgangherati e i furgoncini e i pick-up da cui si affacciavano caporali per negoziare con i lavoratori sul prezzo prima di caricarli a bordo, spesso sui cassoni, come accadeva fino a qualche anno fa. Non ci sono neanche i proprietari delle aziende che vanno per strada a reclutare la manodopera senza intermediari. Le trattative ora avvengono sui gruppi WhatsApp: gli appuntamenti vengono fissati via chat e tutti sanno già dove andare.
Secondo una relazione dei carabinieri alla prefettura e secondo alcune indagini giudiziarie, tra cui quella in cui è coinvolto Renzo Lovato, il padre del titolare dell’azienda in cui è morto Satnam Singh, i caporali fanno parte di organizzazioni che cercano i lavoratori direttamente in Punjab, e gli prestano i soldi per il viaggio costringendoli a indebitarsi anche per decine di migliaia di euro. Una volta arrivati in Italia, trovano loro una sistemazione e li impiegano nelle aziende con cui sono in contatto.
In tutto l’Agro pontino l’INPS ha censito circa seimila aziende agricole, con 22.400 lavoratori, di cui 21.349 assunti con contratti a termine. Di questi, 13.869 sono stranieri, provenienti soprattutto dall’India, dalla Romania e dal Bangladesh. Secondo i dati forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2023 in tutto il Lazio ci sono state appena 222 ispezioni nel settore agricolo. Nel 64,5 per cento dei casi sono state trovate delle irregolarità. Su 785 lavoratori controllati, 608 lavoravano in nero o per un numero di ore superiore a quello dichiarato nei contratti e con paghe molto basse.
Per comprendere la gerarchia dello sfruttamento nell’Agro pontino bisogna fare attenzione agli orari. Tra le 4:30 e le 5:30 si muovono i lavoratori in nero e quelli che devono raggiungere le aziende più distanti. Sono spesso molto giovani, quasi tutti maschi, non parlano l’italiano e hanno bici sgangherate. Si fermano giusto qualche secondo per prendere l’acqua e la pettorina, poi ripartono in fretta perché non possono tardare e hanno paura di ritorsioni. «Non hanno un contratto, spesso neppure il permesso di soggiorno. Li costringono ad arrivare molto presto al lavoro e a rimanerci per 12 o anche 14 ore», dice Simona Cuomo, un’attivista del “sindacato di strada”. Secondo Jean René Bilongo, presidente dell’osservatorio Placido Rizzotto, sono pagati in media 20 euro per una giornata di lavoro che va dalle 10 alle 14 ore. «Ma c’è anche chi di euro ne prende solo 10 oppure acqua e un panino e basta», mentre le donne «vengono pagate il 20-30 per cento in meno degli uomini».
Quando il sole sta per sorgere arrivano quelli che attendono i caporali, che hanno qualche garanzia in più perché sono organizzati dagli intermediari, ma sono ugualmente sfruttati e sottopagati. Secondo un rapporto su agromafie e caporalato dell’osservatorio Placido Rizzotto, in tutta l’Italia 230mila persone lavorano in queste condizioni.
Infine, quando è ormai giorno pieno, escono quelli che hanno contratti più o meno regolari e non hanno bisogno di intermediari. Vanno al lavoro spesso con le bici elettriche, che costano di più. Alle 6:30 tutti sono già nei campi.
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