La produzione del
plusvalore assoluto. Le lotte della classe operaia per la conquista della giornata
lavorativa ridotta
Svariati sono i metodi
con cui i capitalisti elevano il grado di sfruttamento degli operai, che in
sintesi però riguardano tutti invariabilmente la produzione di plusvalore assoluto
o quella di plusvalore relativo. Esamineremo prima la produzione di plusvalore
assoluto.
L’unica fonte del
plusvalore è il lavoro non pagato dell’operaio salariato. Per ottenere
plusvalore, il capitalista è obbligato a protrarre il tempo di lavoro dell’operaio
oltre il tempo di lavoro necessario. Solo in questo modo l’operaio può creare
plusvalore per il capitalista, nel periodo di pluslavoro. In regime
capitalistico dunque, la giornata lavorativa dell’operaio è sempre composta di
due parti, il tempo di lavoro necessario e il tempo di pluslavoro.
Supponiamo ora che il capitalista acquisti al suo valore forza-lavoro e che per poter produrre il valore di mezzi di sussistenza necessari all’operaio per un giorno occorrono 6 ore di lavoro, per cui il tempo di lavoro necessario è uguale a 6 ore. Se la durata della giornata lavorativa è di 12 ore, la divisione fra tempo di lavoro necessario e tempo di pluslavoro potrà essere espressa con la seguente tabella:
0 6 ore 12 ore
I__________________I__________________I
tempo di lavoro tempo
necessario di pluslavoro
Qui il tempo di pluslavoro
= 12 ore – 6 ore = 6 ore;
6
ore di “tempo di pluslavoro”
il saggio del plusvalore
= ------------------------------------------------ =100%
6
ore di “tempo di lavoro necessario”
Se su questa base si prolungasse
di 3 ore la giornata lavorativa, cioè si protraesse fino a 15 ore, il tempo di pluslavoro
e il saggio del plusvalore varierebbero come segue:
0 6 ore 12 ore 15 ore
I__________________I__________________I___________I
tempo tempo
di lavoro necessario di pluslavoro
qui il tempo di pluslavoro
= 15 ore – 6 ore = 9 ore;
9
ore di “tempo di pluslavoro”
il saggio del plusvalore
= ------------------------------------------------ =150%
6
ore di “tempo di lavoro necessario”
Risulta evidente che in
una situazione in cui il tempo di lavoro necessario è dato, il grado di
sfruttamento capitalistico dell'operaio si innalza in seguito al prolungamento
assoluto della giornata lavorativa. Al prolungamento della giornata lavorativa
corrisponde quello del tempo di pluslavoro, dunque l’innalzamento del saggio
del plusvalore e l’aumento della quantità di plusvalore. Marx chiama plusvalore
assoluto questo plusvalore prodotto dal prolungamento assoluto della giornata
lavorativa.
Per far produrre all’operaio
più plusvalore il capitalista, oltre quello di prolungare la giornata lavorativa,
può anche usare il metodo di aumentare l’intensità del lavoro dell’operaio. Aumentare
l’intensità del lavoro significa forzare l’operaio a lavorare più intensamente,
fargli consumare più energia cerebrale e fisica di prima in un tempo di lavoro
della medesima durata; non vi sono sostanziali differenze con il prolungamento
della giornata lavorativa, quindi, dal punto di vista delle singole imprese, il
plusvalore prodotto dell’aumento dell’intensità del lavoro è ugualmente
plusvalore assoluto. Per comodità d’esposizione, nella nostra seguente analisi
della produzione di plusvalore assoluto tratteremo solo il metodo del
prolungamento della giornata lavorativa e non più quello dell’aumento
dell’intensità del lavoro.
Poiché il grado di
sfruttamento dell’operaio dipende dalla durata della giornata lavorativa, nella
produzione di plusvalore assoluto il capitalista la prolunga il più possibile
per impadronirsi di maggior plusvalore. Ma esiste un limite alla durata della
giornata lavorativa oppure no?
In regime capitalistico
non occorre fissare il limite inferiore della giornata lavorativa. Forse
qualcuno riterrà che quella parte che l’operaio usa per produrre il valore
della forza-lavoro, il tempo di lavoro necessario, rappresenti il limite
inferiore della giornata lavorativa: è un errore. Il tempo di lavoro necessario
dell’operaio, determinato dalla natura della produzione capitalistica, può
essere solo una parte della giornata lavorativa, ma non tutta quanta, poiché
altrimenti il capitalista non avrebbe modo di ottenere plusvalore e il
capitalismo non sarebbe più quello che è. Perciò, in regime capitalistico, la
giornata lavorativa non potrà in nessun caso ridursi fino a una misura
equivalente al tempo di lavoro necessario dell’operaio, ma deve prolungarsi
oltre questo limite.
C’è però un limite al
prolungamento della giornata lavorativa, cioè il limite massimo della giornata
lavorativa, che è determinato dai seguenti due fattori: primo, il fattore
fisiologico. In un giorno e una notte di 24 ore, l’operaio deve avere una parte
di tempo per mangiare, dormire ecc., per soddisfare le necessità fisiologiche,
altrimenti non potrebbe ricostituire le capacità lavorative né continuare a lavorare
per il capitalista. Secondo, il fattore morale e sociale. Nella giornata, oltre
che a lavorare, a mangiare e dormire, l’operaio deve avere anche un certo tempo
per leggere il giornale, divertirsi, badare ai figli, partecipare alle attività
sociali ecc., in un ambito e in una quantità necessari che sono determinati
dallo stato dello sviluppo economico e culturale di un determinato paese. Il
limite massimo della giornata lavorativa costituito dai due suddetti fattori
determina l’impossibilità per la giornata lavorativa di coincidere con la durata
naturale di un giorno e una notte, cioè 24 ore. Ma poiché questi due fattori
sono variabili, il limite massimo della giornata lavorativa è dotato di una
grande elasticità. Questo spiega come molte siano anche le possibilità per il capitalista
di prolungare sensibilmente la giornata lavorativa oltre il tempo di lavoro necessario.
Per sua stessa natura,
il capitalista vuole sempre prolungare al massimo la giornata lavorativa: egli
non si cura affatto della salute e della longevità dell’operaio salariato;
l’unica cosa che gli sta a cuore è spremere dall’operaio quanto più plusvalore
è possibile. Marx mette in rilievo che “il capitale, nel suo smisurato e cieco
impulso, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non
soltanto i limiti massimi morali della giornata
lavorativa, ma anche quelli puramente fisici”.
Per prolungare la
giornata lavorativa, il capitalista può spostare le leggi dello scambio di
merci e farsene una “base” per dire che anch’egli, al pari degli altri
compratori di merci, ha il diritto di consumare completamente il valore d’uso
delle merci che ha acquistato; poiché ha accettato al suo valore un giorno di
forza-lavoro dell’operaio, ha di conseguenza il diritto di utilizzarla completamente
per un giorno. Però, sulla base della stessa legge, anche l’operaio ha tutte le
ragioni per contrastare il prolungamento eccessivo della giornata lavorativa da
parte del capitalista e per esigere di lavorare per la sua durata normale.
Poiché la forza-lavoro risiede nel corpo stesso dell’operaio, la possibilità di
venderla senza interruzione dipende dalla sua salute. Se il capitalista
prolunga eccessivamente la giornata lavorativa, può rovinare la salute
dell’operaio e di conseguenza accorciare il periodo in cui l’operaio può
vendere forza-lavoro. Se in condizioni di durata normale della giornata
lavorativa, l’operaio può avere una capacità lavorativa di 30 anni, il valore
giornaliero della sua forza-lavoro deve essere in tale periodo – 1/365x30 del
valore totale della forza-lavoro, cioè 1/10950. Ma a causa di un prolungamento
eccessivo della giornata lavorativa, si arriva al punto che in 20 anni
l’operaio vende 30 anni di forza-lavoro, cioè in media al giorno più di ½. Naturalmente,
il capitalista viola le leggi dello scambio di merci quando acquista una
giornata e mezzo di forza-lavoro con il valore di una giornata di forza-lavoro;
sulla base di tale legge l’operaio ha il diritto di opporsi al prolungamento
eccessivo della giornata lavorativa da parte del capitalista.
Sulla base dunque della
legge dello scambio di merci e dei diritti del compratore (il capitalista) e
del venditore (l’operaio) che ne derivano, non è assolutamente possibile
fissare la lunghezza effettiva della giornata lavorativa. Sulla base di tale
legge e dei diritti da essa prodotti, il capitalista vuol prolungare al massimo
la giornata lavorativa, mentre l’operaio da parte sua si oppone al prolungamento eccessivo della
giornata lavorativa. Proprio come dice Marx, qui ha luogo “un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla
legge dello scambio delle merci”. Ma allora da che cosa è fissata, in regime capitalistico,
la durata effettiva della giornata lavorativa? Essa è determinata dai rapporti
di forza tra le classi. Quando le forze della borghesia sono ancora potenti
mentre il proletariato non ha la forza di opporsi, questo sarà costretto ad
accettare una giornata lavorativa più lunga; viceversa, quando le forze del
proletariato si sono ormai irrobustite e hanno ingaggiato una lotta accesa con
la borghesia, questa a sua volta sarà costretta ad assecondare la richiesta del
proletariato di accorciare la giornata lavorativa. La storia dello sviluppo
capitalistico dimostra che la situazione generale dei cambiamenti della
giornata lavorativa è esattamente questa.
Ne Il Capitale, facendo l’esempio dell’Inghilterra, Marx mise in luce
con una gran quantità di fatti il crimine capitalistico di prolungare la
giornata lavorativa senza curarsi delle conseguenze e di distruggere la salute
fisica e mentale dell’operaio. Prima della rivoluzione industriale, poiché le tecniche
produttive si basavano sul lavoro artigiano, per aumentare su vasta scala la
produzione, bisognava basarsi soprattutto sull’aumento della quantità di
lavoro. Il prolungamento della giornata lavorativa divenne, per quel tempo, il
metodo fondamentale col quale i capitalisti elevavano il grado dello
sfruttamento. Ma allora la borghesia si trovava ancora nel periodo della
formazione, e “assicurava il suo diritto di assorbire una quantità sufficiente
di pluslavoro non ancora mediante la pura e semplice forza dei rapporti
economici, ma anche con l’ausilio del potere dello Stato”.
Perciò la
caratteristica di tale periodo è il prolungamento coatto della giornata
lavorativa attuato dalla borghesia tramite l’attività legislativa dello Stato.
Per esempio, nel lasso di tempo compreso fra il XIV secolo e la metà del XVIII
secolo, il governo inglese promulgò i più svariati decreti sul lavoro
obbligando gli operai a prolungare la giornata lavorativa. La situazione mutò
solo dopo la rivoluzione industriale. Il capitalista fece affidamento
unicamente sulla potenza prodotta dalle grandi macchine e prolungò la giornata
lavorativa in termini senza precedenti. Nel periodo che va dagli ultimi trent’anni
del XVIII secolo alla prima metà del XIX secolo, la giornata lavorativa durò
12, 14, 16 ore e talvolta superò le 18 ore, e anche il numero delle donne e dei
bambini in fabbrica fu eccezionale.
Il capitalista, oltre a
prolungare apertamente la giornata lavorativa, aumenta anche il tempo di lavoro
degli operai con ogni sorta di espedienti occulti. Per esempio, egli anticipa di
qualche minuto il segnale orario che annunzia l’inizio del lavoro e ritarda di
qualche minuto quello che ne annunzia la fine; inoltre, al termine del lavoro,
fa ripulire agli operai il posto di lavoro, pulire il macchinario ecc. Così
anche se la giornata lavorativa, nominalmente, non cambia, viene effettivamente
prolungata. Se facciamo la somma dei tempi, apparentemente trascurabili, rubati
ogni giorno, vediamo che con il sistema del “furto del lavoro” in un anno si
possono raggiungere cifre molto considerevoli.
Facendo i conti sulla
base di un caso concreto, un capitalista con questo sistema poté far fare agli
operai nel corso dei dodici mesi dell’anno tredici mesi di lavoro.
L’eccessivo
prolungamento della giornata lavorativa arrecò gravi conseguenze alla classe
operaia. Per l’eccessivo affaticamento, gli operai ancor giovani invecchiavano precocemente
e la durata della vita si accorciava; gli incidenti sul lavoro si ripetevano in
continuazione provocando una massa di mutilati e di morti e in particolare la
salute delle donne non era minimamente salvaguardata, la crescita dei giovani
operai era gravemente messa a repentaglio. Tutto ciò insidiava l’esistenza
stessa della classe operaia.
[…]
Perciò, proprio come ha
messo in rilievo Marx, “con il prolungamento della giornata lavorativa la
produzione capitalistica, che è essenzialmente produzione di plusvalore non
produce soltanto il deperimento della forza-lavoro umana, che viene derubata
delle sue condizioni normali di sviluppo e di attivazione, morali e fisiche; ma
produce anche l’esaurimento e l’estinzione precoce della forza-lavoro stessa.
Essa prolunga il tempo di produzione dell’operaio entro un termine dato,
mediante l’accorciamento del tempo che questi ha da vivere.”
Per difendere il
proprio diritto all’esistenza, la classe operaia iniziò una lotta accanita con
la borghesia, s’oppose al prolungamento eccessivo della giornata lavorativa e
conquistò la cosiddetta “giornata lavorativa standard” fissata per legge.
Le prime lotte della
classe operaia per conquistare la riduzione della giornata lavorativa
cominciarono in Inghilterra. Dall’inizio del XIX secolo in poi, la classe
operaia inglese condusse una lotta durata oltre mezzo secolo, che costrinse il
governo a promulgare alcune leggi di fabbrica, che limitarono successivamente
la giornata lavorativa dei fanciulli, delle operaie e degli operai adulti a 12
e a 10 ore. Sull’esempio dell’Inghilterra, anche la classe operaia di tutti gli
altri paesi capitalistici sviluppò in seguito una lotta per conquistare la
riduzione della giornata lavorativa. Nel 1866, la classe operaia americana
avanzò per la prima volta la richiesta della giornata lavorativa di 8 ore; in
seguito, la Prima assemblea internazionale dei Rappresentanti di Ginevra
lanciò, su proposta di Marx, la parola d’ordine di lotta per la conquista di un
orario lavorativo di otto ore. Tale parola d’ordine, subito dopo essere stata
lanciata, ottenne la fervida risposta della classe operaia di tutti i paesi, la
quale sviluppò una lotta accanita con la borghesia per la conquista della
giornata lavorativa di otto ore. Tuttavia, per la dura resistenza della
borghesia, tale lotta a quei tempi non poté mai ottenere dei risultati
immediati. Bisognò attendere fino alla conclusione della Prima guerra mondiale
perché qualche paese capitalistico, a causa della pressione colossale e senza
precedenti esercitata sulla borghesia dal movimento operaio rivoluzionario
internazionale sviluppatosi vigorosamente, fosse costretto a realizzare un
regime lavorativo di 8 ore.
Attualmente, il regime
lavorativo di otto ore, sebbene sia ormai fissato per legge in numerosi paesi capitalisti,
continua in pratica a essere ostacolato in tutti i modi dai capitalisti. In
particolare, a causa del basso livello salariale, gli operai sono costretti a
fare normalmente gli straordinari o un secondo lavoro, per procurarsi un poco
di salario in più; nel codice vi sono inoltre articoli integrativi che permettono
lo straordinario.
Perciò nei paesi
capitalistici la giornata lavorativa di migliaia e migliaia di operai continua
a superare le otto ore. In alcuni Stati e regioni dell’Asia, dell’Africa e
dell’America Latina, che non si sono sottratti alla dominazione coloniale, la
giornata lavorativa è ancor oggi priva di un limite legale; in molti settori
essa supera sempre le 12 ore e in taluni casi raggiunge le 20 ore. […]
Dal Trattato di economia
politica di Xu He
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