lunedì 25 agosto 2025

La situazione all'ex Ilva è parte di una situazione mondiale di guerra commerciale sull'acciaio

La situazione all'ex Ilva è parte di una situazione mondiale di guerra commerciale sull'acciaio (Leggi articolo che segue del 'The New York Times'). 

La inevitabile internazionalizzazione dei mercati, a cui tutti i capitalisti, le grandi multinazionali sono necessariamente soggetti, va in crisi per la sovrapproduzione di acciaio, per la concorrenza spietata nell'esportazione in cui si avvantaggia chi può vendere l'acciaio a prezzi più bassi (come la Cina), tagliando i costi degli operai/e aumentando lo sfruttamento, i costi della sicurezza, i costi ambientali, fino alla qualità del prodotto. I tentativi dei vari paesi, dei capitalisti di affrontare questa crisi di sovrapproduzione, di frenare il rapido abbassamento dei profitti, sono impotenti e si ritorcono anche contro; dovrebbero anche le altre economie dei paesi imperialisti europei, degli Usa abbassare i costi di produzione e/o ottenere da parte dei governi miliardi e miliardi per un "acciaio pulito" e competitivo. Questo in parte lo stanno facendo, in primis attaccando gli operai, con massicci licenziamenti. Poi vi sono i dazi degli Usa di Trump - che, però, non solo danneggiano i paesi colpiti dai dazi, ma gli si ritorcono contro aumentando i prezzi del mercato interno americano; i governi di ogni paese fino ad un certo punto possono finanziare le aziende, poi anche loro si scontrano con le "regole" di freno internazionali anti aiuti alla concorrenza (vedi la UE). Alla globalizzazione dell'economia ci si illude di reagire con un moderno nazionalismo; gli stessi che hanno operato per l'uno ora operano per l'altra strada. 
Ma la crisi capitalista e la concorrenza vanno avanti. 

E, in questo, cosa li può "salvare"? Tutti aspettano le "sante guerre" che gli permettano una effettiva ripresa, sia producendo subito acciaio per gli armamenti, sia dopo acciaio per la ricostruzione. 

Quindi la ripresa del capitale - temporanea, in attesa si una nuova e più forte crisi - è distruzione, morte per i popoli, i proletari, economia di guerra nei paesi imperialisti, tagli di costi "improduttivi" (sanità, scuola, servizi sociali, ambiente...), più sfruttamento e licenziamenti per gli operai.

Tutti coloro che pensano a "soluzioni" per salvare questo sistema capitalista, per renderlo compatibile con la vita dei milioni, miliardi di persone, invece di operare per la fine di questo sistema sociale nocivo e di sfruttamento e morte, operano per "salvarlo". E alimentano anch'essi le spinte nazionaliste, fino a spinte da "cortile di casa", di sapor di razzismo (l'abbiamo sentito anche in questo giorni: che l'acciaieria di Taranto chiuda e si costruisca a Gioia Tauro). 

Ma come il sistema del capitale è, per sua necessità, internazionale, imperialista, così i proletari devono essere e praticare un'opposto e contrario internazionalismo, comprendere la realtà, e unirsi, dall'Italia alla Cina... 
Questo oggi chiama a lottare contro i propri capitalisti, i propri governi, difendendo rigidamente i propri e delle masse popolari interessi. Che questo sistema capitalista vada in crisi, si aggrovigli nelle sue crisi sempre più - ai proletari e alle masse popolari il compito di dargli una forte "spinta".

Da un articolo di Patricia Cohen, The New York Times, Stati Uniti
20.8.2025

"...Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), la produzione di

acciaio in eccesso dovrebbe raggiungere i 721 milioni di tonnellate entro il 2027.
Una soluzione sarebbe semplicemente farne meno, ma c’è un problema: nessun paese vuole essere il primo a smettere di produrre un materiale considerato essenziale per l’economia e la sicurezza nazionali.

La produzione di acciaio ha sempre avuto un ruolo particolare, come simbolo di potenza economica e prestigio internazionale. L’acciaio costituisce il tessuto della vita moderna, usato non solo per costruire edifici, strade, automobili, frigoriferi, dispositivi elettronici, forchette e viti, ma anche per armi, carri armati e aerei da guerra.
In Europa la consapevolezza di non poter più contare sugli Stati Uniti per la sicurezza del continente ha reso ancora più evidente l’importanza dell’acciaio nel campo della difesa.

Nell’ultimo decennio l’acciaio a buon mercato della Cina ha inondato i mercati mondiali. L’enorme numero di impianti siderurgici cinesi – costruiti in parte con il sostegno del governo e spesso senza i vincoli ambientali richiesti in Europa – produce più acciaio (e alluminio) di tutti gli altri paesi del mondo messi insieme. Con il rallentamento dell’economia cinese, una quantità maggiore di questi metalli viene esportata all’estero a prezzi stracciati.
Il risultato è un crollo generale dei prezzi e dei profitti, con un conseguente aumento della disoccupazione nel settore. Misurato al chilo, l’acciaio oggi costa meno dell’acqua in bottiglia. A maggio l’Ocse ha avvertito che la riduzione dei guadagni sta rendendo difficile investire nelle tecnologie a basse emissioni di anidride carbonica, che sono essenziali per raggiungere gli obiettivi climatici.
Questa situazione ha messo i governi in una situazione difficile: vogliono proteggere i posti di lavoro e un’industria considerata cruciale per la sicurezza nazionale, ma anche ridurre le spese e risparmiare sugli aiuti economici. Vogliono accelerare la transizione verso le energie pulite, ma anche produrre acciaio a costi competitivi.

In primavera la multinazionale indiana Tata ha annunciato 1.600 licenziamenti nell’impianto di IJmuiden. L’anno scorso le acciaierie dei 27 paesi dell’Unione europea hanno tagliato complessivamente 18mila posti di lavoro, riducendo la capacità produttiva di nove milioni di tonnellate.
Nei primi sei mesi del 2025 la Germania (primo produttore europeo) ha registrato un declino dell’11,6 per cento nella produzione di acciaio (più di 17 milioni di tonnellate) rispetto allo stesso periodo del 2024.

Oltre ai costi per la manodopera e l’energia, alle tecnologie ormai superate e alla competizione feroce della Cina, i produttori europei devono fare i conti anche con i dazi punitivi voluti da Donald Trump. Il mese scorso gli Stati Uniti hanno imposto una tassa del 50 per cento su quasi tutte le importazioni di acciaio e alluminio.
I dazi di Trump non solo minacciano di ridurre significativamente la quantità di acciaio che l’Europa può vendere negli Stati Uniti, ma spingeranno altri produttori a esportare di più verso l’Europa, aumentando ulteriormente la concorrenza per le aziende del continente.

L’anno scorso il governo britannico ha stanziato 500 milioni di sterline per sostenere la Tata Steel (chi metodi ecologici riduce le emissioni, ma costa fra il 30 e il 60 per cento in più...".e gestisce un grande impianto a Port Talbot, in Galles) nella transizione verso un altoforno elettrico meno inquinante che funziona riciclando l’acciaio.


In Olanda l’impianto della Tata Steel di IJmuiden è in condizioni migliori di quelli britannici. La struttura, vicino a una spiaggia pubblica, è la seconda più grande d’Europa (è grande come 1.100 campi da calcio) e, nell’industria, è tra i principali datori di lavoro nel paese. Entro il 2030 la Tata Steel vorrebbe convertire lo stabilimento (oggi alimentato a carbone) per usare idrogeno e gas naturale, e sta negoziando con il governo olandese per ottenere finanziamenti. La transizione verso una tecnologia a basse emissioni costerà miliardi di euro e avrà bisogno di molto tempo prima di essere completata.

Secondo varie stime, oggi produrre acciaio negli altiforni elettrici a idrogeno verde o con altr

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