martedì 16 agosto 2011

pc 16 agosto - un articolo della rivista marxista-leninista-maoista 'La Nuova Bandiera' dell'agosto 2009 - utile da leggere anche oggi

CRISI - Contro le false soluzioni del riformismo
La “soluzione” è la rivoluzione


La crisi mostra la sua profondità.
La crisi devastante che attraversa il sistema imperialista mondiale mostra giorno dopo giorno la sua profondità. Essa da crisi finanziaria si è trasformata in recessione mondiale. Come la crisi sia nata nell'ambito finanziario per effetto della bolla speculativa è stato ampiamente analizzato e descritto. Quello che occorre mettere in luce è che essa è strettamente connessa alla natura stessa del sistema imperialista. La finanziarizzazione dell'economia è stata lo sviluppo inevitabile del capitale e data da lungo tempo.
Dietro la finanziarizzazione c'è la ricerca del massimo profitto e l'uso di tutti gli strumenti finanziari e di tutte le strutture costruite dall'imperialismo a questo scopo. I grandi finanzieri che hanno tirato la corda di quella che impropriamente viene chiamata “speculazione”, sono stati messi sotto accusa, ma in realtà sono stati fedeli esecutori e interpreti dell'esigenza del grande capitale, industriale, terziario o pubblico che sia. I grandi capitalisti e i loro governi cercano ora di singolarizzare le colpe, trovare dei capri espiatori per salvare innanzitutto l'immagine e poi il funzionamento del sistema stesso.

Lo squilibrio di fondo è originato dallo sviluppo produttivo finalizzato al profitto basato sullo sfruttamento della forza-lavoro e i profitti possibili attraverso gli investimenti finanziari. Questo squilibrio non dipende dalla volontà dei singoli ma dalla legge stessa che guida la ricerca del massimo profitto da parte del capitale.
La presunta immoralità della speculazione finanziaria, l'assenza di regole in essa di cui si parla, sono la norma in ogni tassello del sistema capitalista e del movimento reale del capitale su scala mondiale.
La crisi ha avuto il merito di mettere a nudo tutto questo, di rendere evidente questo funzionamento mandando in frantumi, di conseguenza, l'immagine che il capitale e il suo sistema dà di sé. Come nell'attività produttiva il capitale cerca costantemente di affinare macchine e metodi per trarre il massimo dallo sfruttamento operaio e dall'utilizzo intensivo dei mezzi di produzione e materie prime, lo stesso avviene nel campo dell'attività finanziaria. Anche qui si sono inventati via via sistemi sempre più sofisticati ed efficaci di una macchina produttrice di denaro e riproduttrice di profitto.
La crisi ha messo in particolare luce il rapporto tra questo gigantesco sistema e una serie di fattori molto legati al coinvolgimento dei proletari e delle masse popolari negli ingranaggi del sistema stesso. In particolare i meccanismi legati ai mutui, al credito drogato al consumo, ai fondi pensioni, ecc., hanno dato la possibilità al capitale finanziario di succhiare dieci volte lo stesso sangue all'operaio, reso oltre che operaio industriale anche consumatore, acquirente di case, sottoscrittore di Fondi pensioni, ecc.
Questo scarica in forme non solo indirette ma anche dirette e moltiplicate la crisi finanziaria sui proletari e le masse.

L' accentuata globalizzazione si è trasformata da arena dell'esercizio allargato della finanziarizzazione dell'economia in generatore e generalizzatore globale della crisi stessa, una volta scoppiata nel suo centro finanziario mondiale.
In questo senso si può dire che si tratta di una crisi senza precedenti, di ampiezza mondiale senza precedenti, e quindi anche superiore a quella del '29 su scala mondiale.
Abbiamo già detto che la crisi sottintende il funzionamento reale del sistema capitalista e la legge che lo determina. Ma tutto questo in questa crisi si cerca di nascondere. Perchè vi è tutto l'interesse ad uscire dalla crisi salvando il sistema capitalista.
Ma ci sono aspetti della crisi reale che hanno un ruolo fondamentale.
La crisi di sovrapproduzione dovuta al fatto che il sistema mondiale produce merci, sebbene insufficienti a soddisfare i bisogni mondiali della popolazione due terzi della quale vive al di sotto del minimo necessario, eccessive per l'interesse del capitale dato che esso produce fino a che può ricavare profitto. E quindi ci si trova costantemente e fisiologicamente e patologicamente ciclicamente ad una insufficiente produzione rispetto ai bisogni e ad un eccesso di produzione rispetto alle capacità di acquisto.
A fronte di questo stato delle cose si mettono in moto due processi, anch'essi apparentemente contraddittori, uno, si produce sempre di più a minor profitto, si ricercano profitti in campi e settori dove possono moltiplicarsi più facilmente, cercando così di sganciarsi dalla caduta tendenziale del profitto stesso
Il sistema imperialista produce quindi oltre che sovrapproduzione di merci, una eccedenza di capitali che attraverso la finanziarizzazione e la globalizzazione dell'economia si moltiplicano, diventando il centro del sistema economico mondiale e mina vangante dello stesso.

In questo senso la crisi attuale, come tutte le crisi cicliche del capitalismo, non ha che due vie d'uscita: una, realizzare quella distruzione di capitali e di merci atta a riattivare la produzione e il profitto, e affrontare un altro ciclo di quello che possiamo chiamare 'circuito virtuoso' del capitale che ne permette la sopravvivenza e sviluppo; l'altra mettere fine alla crisi stessa rimuovendone le cause di fondo che l'hanno provocata.

Partire da un punto di vista di classe.
Nell'affrontare la questione occorre necessariamente partire da un punto di vista di classe, cioè che cosa è nell'interesse del proletariato e delle masse popolari.
Primo. Non abbiamo interesse che la crisi si “risolva” dal punto di vista del capitale; quindi dobbiamo smascherare le interpretazioni e le soluzioni della crisi che vanno nell'interesse del capitale e che si traducono nello scaricamento di essa sulle spalle dei proletari e delle masse popolari.
Il capitalismo mobilita i suoi governi e i suoi Stati per fronteggiare l'emergenza principalmente finanziaria, e rilanciare la produzione creando nuove occasioni di profitto, riducendo i costi, in primis il costo del lavoro. Se la soluzione del capitale va avanti la crisi si risolve; certo creando le condizioni epocali per una crisi ciclica ancora più dura in futuro, ma intanto si “risolve”. Il capitale è oggi più forte che nel '29 per risolvere la sua crisi. Le sue strutture concentrate e cooperanti sono molto esercitate, lubrificate e la costruzione dell'unità di intenti tra di loro più facile che nel passato.
Contrastare le soluzioni del capitale è un aspetto decisivo per l'approfondimento della crisi stessa. La discarica di essa sui proletari ne provoca le reazioni, alimenta la lotta di classe, e ci sono le condizioni più favorevoli per contrastare le soluzioni capitaliste della crisi.
Ma il contrasto verso i piani del capitale deve essere reale e deve distinguersi da essi nettamente nell'analisi e nella terapia. Far passare e alimentare l'idea nel proletariato che la crisi sia fondamentalmente originata dalla speculazione finanziaria, lungi dall'essere una “lotta contro la crisi”, è una compagna di strada del capitale.
Non distinguersi nell'analisi della crisi, provoca un'alleanza capitale-lavoro per uscire da essa, alleanza che serve solo gli interessi del capitale.
Il capitale attualmente ha bisogno assoluto del ruolo dello Stato, dopo la sbornia neoliberista, delle risorse di esso per ridurre i danni della devastazione finanziaria, socializzare le perdite e riattivare i meccanismi del profitto. Perorare, quindi, un nuovo intervento dello Stato nell'economia, fino a nazionalizzare banche o industrie in crisi coincide con l'interesse oggettivo del capitale di uscire dalla crisi e contribuisce alla realizzazione di quell'interesse generale del capitale che ha bisogno in fase di crisi di imporsi, anche con l'aiuto della lotta operaia, all'interesse privato dei singoli capitalisti o a quello di frazioni di esso che sono l'incrocio dei profittatori falliti della pre crisi e dei pesi ingombranti della sua ripresa.
In questo senso, è proprio l'alleanza tra interessi del capitale e “salvatori” dalla crisi il nemico principale che i proletari devono combattere.

Due varianti di questa situazione sono: i sostenitori che l'uscita dalla crisi debba avvenire con la ripresa dei consumi, secondo la teoria che il capitale nella sua sete di profitto abbia ridotto i salari in modo tale che non possono acquistare i prodotti, per cui rilanciando i salari si rilancia il consumo e quindi la produzione, si emancipa il capitale industriale dalla sua finanziarizzazione, e... il capitale prospera nuovamente. A parte che si tratta di una sorta di “favola consolatoria”,viene trascurato il carattere della produzione capitalista come produzione di merci e dello stesso lavoratore come merce, che fa sì che non il consumo ma la produzione sia la fonte del profitto e che non l'assorbimento del consumo sia il fine del salario, ma quello della riproduzione della forza-lavoro. Di conseguenza non ci può essere produzione là dove non c'è profitto e né espansione del salario tale da assorbire la produzione.
Il risultato effettivo di questa impostazione è di propugnare al massimo una lotta sindacale estrema, motore dello sviluppo del capitale, esattamente l'opposto dell'interesse del proletariato come classe del superamento del capitale.
La seconda posizione è una forma di neo Keynesianismo estremo, la quale sostiene che vi deve essere intervento dello Stato, ma questo intervento deve servire a indirizzare e anche a cambiare il capitale; e quindi l'aiuto al capitale non è per far riprendere il capitale così com'è ma per indirizzarlo verso produzioni ad alta occupazione, verso la bonifica ambientale, verso una statalizzazione più strutturata.
A parte la facile considerazione che si tratta di un già visto, i cui esiti furono nazismo e II guerra mondiale, entrando nel merito.
'Alta occupazione'? Lo sviluppo dell'automazione e informatizzazione della produzione hanno reso i settori legati ad essa gli unici a più alto profitto e con minore caduta del saggio di profitto. Ciò rende impossibile che, salvo autodistruzione e ritorno all' 'età della pietra', i settori ad alta occupazione possano diventare i settori di ripresa del capitale.
'Bonifica ambientale'? Anche qui la funzione dell'intervento dello Stato sarebbe quella di creare nuove fonti di profitto che diventino appetibili per il capitale, a fronte della saturazione di alcune delle fonti attualmente in uso. Questo non è altro che un processo di travaso degli attuali mezzi di produzione, compresa la forza-lavoro, non un fattore di sua espansione e sviluppo; e, fermo restando la questione profitto come ragione della produzione, questo accentuerebbe ancora di più il divario, pur esistente e concausa della crisi, tra produzione e consumo (vedi questione auto ecologica e piano Obama).
'Statalizzazione più strutturata'? Essa è possibile in campi della produzione in cui la concentrazione del rapporto Stato/industria è organica – vedi l'industria bellica e la militarizzazione dell'economia o la neo nuclearizzazione.
Quindi, chi perora queste “soluzioni” come uscita dalla crisi, non solo è sostenitore che il capitale riprenda, ma nel contesto attuale propugna soluzioni peggiori del male.

Per queste ragioni obiettive il contrasto nella crisi, dal punto di vista del proletariato come classe sociale deve organizzarsi e agire non solo contro il capitale e i suoi governi, ma fuori dall'intero arco delle attuali opposizioni, in tutti i paesi imperialisti, e sul piano internazionale, nel quadro della contraddizione imperialismo/popoli oppressi, fuori da buona parte dell'opposizione che si definisce antimperialista, movimento antiglobalizzazione, fondamentalismo islamico, movimenti di liberazione nazionalistici, ecc.

Questa crisi ha un solo merito reale l'affermazione dell'analisi marxista del capitale e delle sue crisi, che montagne di sacerdoti, filosofi, scienziati e politici del capitale avevano voluto cancellare, sia nella trionfante affermazione del neoliberismo, sia con il riformismo socialdemocratico e revisionista. La “vecchia talpa” ha scavato nelle fondamenta delle teorie degli apologeti di questo sistema.
Tutto questo viene alla luce e le armi feconde della critica marxista è a fondamento della “critica delle armi”, cioè della rivoluzione necessaria, come uscita non del capitale dalla crisi, ma dell'umanità dalla crisi del capitale.

La crisi sembra voler dare nuovo spazio ai riformisti.
I riformisti anche estremi avevano sostenuto finora che il capitalismo sempre era riformabile e che l'idea di una sua crisi irreversibile facesse parte ormai di teorie obsolete, fenomeno ormai morto e sepolto. Ora, a fronte della crisi, cambiano ruolo e riciclano la “riformabilità del capitalismo della pre crisi” con la sua “salvabilità, ora post crisi”.
Si tratta di un cambiamento di posizione, per mantenere lo stesso ruolo.

L'effettiva realtà di questa crisi devastante, che permette la ripresa del marxismo e delle sue categorie di analisi, costituisce indubbiamente una novità positiva nel movimento operaio e nel movimento comunista.
Ma comporta anche l'insidia di un utilizzo del marxismo non corretto dentro la lotta proletaria nella crisi e soprattutto dentro la prospettiva del grande salto per il nuovo inizio che il movimento comunista può fare nelle condizioni create dalla crisi stessa. Il complesso delle argomentazioni di questa posizione parte dall'assunto della descrizione della crisi come categoria generale e permanente del capitalismo di cui questa crisi non sarebbe che l'ultima e più generale rappresentazione e che obiettivamente fa corrispondere a questa descrizione una visione di essa come catastrofica e insuperabile. L'anti riformismo contenuto in questa posizione e la nuova fiducia che ispira verso le possibilità della rivoluzione, sono fatti indubbiamente salutari e positivi. Ma portano con sé un insidia, anch'essa non nuova nel movimento comunista, che è quella di non analizzare i caratteri specifici della crisi e della sua influenza specifica nella politica e nell'azione della borghesia. Rimandare solo al suo carattere generale significa sostenere che il capitalismo è in crisi da sempre, negare che nel capitalismo le crisi sono cicliche e non permanenti, fino alla visione conclusiva del suo carattere catastrofico e insuperabile.
Questo complesso di ragionamenti ha l'effetto principale di dare per morto ciò che ancora vivo e vegeto.
Questi ragionamenti trasformano l'affermazione di potenza del comunismo che obiettivamente emerge dalla crisi, in impotenza dei comunisti nell'agire nella crisi come fattore di contrasto e approfondimento.

Il capitalismo ha messo in azione un ventaglio di soluzioni buone per tutti i gusti e capaci di mobilitare a suo sostegno tutte le forze. Per i comunisti è decisivo stare dentro il contrasto con ognuna di esse e con tutte insieme, per approfondire il contrasto capitale/lavoro, Stato/masse, riformismo/masse, per trasformare le potenzialità della crisi in possibilità di rivoluzione.

La crisi ha avuto il suo centro negli Stati Uniti e ha reso evidente come l'imperialismo USA, sia pur egemone, è un imperialismo in crisi. Questo manda in frantumi l'idea che il futuro sia caratterizzato da un ordine mondiale unipolare a dominio USA. La fase dell'era Bush e del post '89 è una parentesi della storia non la fine della storia. L'assetto del mondo già prima del '89 sul piano economico e geostrategico era multipolare, il bipolarismo era dominante solo sul piano militare, questione certo abbastanza determinante ma non decisiva. Le contraddizioni interimperialiste Usa, paesi europei, Giappone, Russia, le nuove potenze emergenti Cina, India, nella crisi dell'imperialismo USA, sono destinate ad accentuarsi, anche se siamo ben lungi da una loro precipitazione in una nuova guerra. Per questa mancano ancora diversi fattori, primo tra tutti il ridefinirsi delle alleanze sul piano dell'unione tra economico e militare, vero cemento di ogni alleanza imperialista.
Non corrisponde neanche a realtà che la crisi dia vita ad una nuova guerra fredda, cioè alla ripresa di una contesa Usa/Russia o che sia all'orizzonte un nuovo bipolarismo in cui questa volta i contendenti sarebbero Usa e Cina.
La crisi chiama l'imperialismo USA ad uno sforzo particolare, la presidenza Obama è sul piano politico un tentativo in questa direzione. La crisi è globale ma non colpisce in egual misura tutti i paesi. Quello che è certo è che essa incoraggia nel mare aperto da essa creata, tutti i contendenti imperialisti a cercare nell'uscita dalla crisi, l'opportunità per ricollocarsi con più forza nella contesa mondiale.
Ma ricollocarsi non è così facile, gli effetti perversi della finanziarizzazione hanno creato forme di cointeressi che stridono con la sfera di influenza di ciascuno dei contendenti. Questo rende molto intrecciata la situazione ed è la definizione leninista dell'imperialismo che ci aiuta a decifrarla.
Guardando ad una fotografia della situazione attuale l'accordo Usa/India e l'intervento americano in Iraq, Afghanistan e il dominio attuale del Medio Oriente spinge verso un'alleanza Russia/Cina. Il Giappone è conteso tra un'alleanza strategica con gli Stati Uniti e l'esigenza di mantenere e sviluppare un suo ruolo di potenza asiatica divenuta ora sempre più difficile con l'ascesa del gigante cinese. La Russia permane nella sua contesa con gli Stati Uniti e ha ridato alla dittatura borghese di Putin tutta la necessità di riscoprire e rivalutare in termini nazional imperialisti sia l'antica eredità zarista come la più recente da Stalin a Brezniev.

La crisi pone grandi problemi ai paesi imperialisti europei che, da un lato, sono legati al ruolo che gli Usa svolgono nella finanza mondiale, dall'altro hanno l'esigenza a diversi livelli e secondo diversi ambiti di approfittare delle difficoltà dell'imperialismo Usa in tutto lo scacchiere mondiale.

Alcuni paesi imperialisti europei, tra cui l'Italia, hanno interesse ad aumentare i loro legami con la Russia, così come altri a stabilire un rapporto di complementarietà con la Cina e la sfera asiatica, di mantenere la loro presenza imperiale in alcuni gangli vitali noti e meno noti dei paesi del Terzo Mondo e delle loro immense ricchezze giacenti. In Medio Oriente, in Africa gli imperialisti europei non sembrano però in grado di mantenere le posizioni a fronte del dominio americano e della crescente presenza cinese.

Comunque grande è il disordine sotto il cielo che la crisi ha portato alla luce. La materia incandescente delle contraddizioni interimperialiste cova inesorabilmente i germi di un nuovo conflitto mondiale. I tempi di esso appaiono ancora lunghi ma non vuol dire che non agiscano fin da ora.

E' erronea la posizione che guarda agli Usa come dominatori del mondo, unica superpotenza e che per questo perorano un fronte unito mondiale contro l'imperialismo USA. Questa posizione lega obiettivamente le lotte proletarie e dei popoli agli imperialismi concorrenti e trasforma le lotte proletarie e i movimenti di liberazione in succubi e compartecipi della contesa interimperialista. Perfino nei luoghi in cui l'imperialismo Usa interviene direttamente – Iraq, Afghanistan, Medio Oriente con il gendarme israeliano, America Latina – la lotta contro l'imperialismo Usa non deve lasciare alcun spazio alla subordinazione agli altri imperialismi.

I processi che innesca la crisi sono sostanzialmente uguali in tutto il mondo: contenere i danni dei crack bancari, intervenire a sostegno delle industrie in crisi, favorire una ristrutturazione di collocazione di esse sul mercato mondiale. Questo esige l'abbassamento del costo del lavoro, l'ulteriore taglio delle spese sociali, mantenere bassi i prezzi dell'energia e delle materie prime, in una gara in cui chi riesce prima guadagna terreno sugli altri.
Questo domanda uno Stato ancora più schiacciato sugli interessi immediati del grande capitale, uno Stato forte e militarizzato per imporre a tutti queste soluzioni e contenere l'inevitabile protesta sociale, ribellione dei proletari e dei popoli in cui la crisi è scaricata. Le soluzioni sono identiche indipendentemente dalla forma dei governi e la reazionarizzazione generale è l'unica tendenza che si afferma.
In ciascun paese essa assume i colori legata alla storia di questo paese e alle sua trasformazioni, ma è importante vederne i tratti comuni e considerare che da un lato si accentua la lotta di classe e dall'altro si attenua la dialettica governo/opposizione nelle sfere istituzionali, parlamentari di ogni paese .

Dal punto di vista del proletariato e dei popoli avanza la necessità di contrastare la discarica della crisi sulla propria pelle e di dover fare questa lotta con mezzi rivoluzionari e con fini rivoluzionari.
Quindi ci sono condizioni favorevoli non solo allo sviluppo della lotta di classe ma al formarsi della coscienza rivoluzionaria e comunista.
Ma serve l'analisi concreta della situazione concreta, dato che esiste uno sviluppo disuguale che comporta uno sviluppo disuguale della lotta di classe e dei processi rivoluzionari. Lo sviluppo disuguale influenza la strategia e inquadra la tattica.
Lo sviluppo disuguale è fondamentale anche nella definizione programmatica della lotta per il socialismo. Essa deve tener conto della condizione concreta di ciascun paese nella catena imperialista e delle sue differenze. Una visione schematico-dottrinaria del socialismo contiene in sé elementi ora di immediatismo ora di attesismo, ora estremisti, ora opportunisti, che non consentono ai comunisti di cogliere l'effettiva opportunità della situazione mondiale e dei riflessi in ogni paese e di porsi alla testa di una lotta rivoluzionaria del proletariato quanto mai matura e sempre più obbligata.

La lotta rivoluzionaria non è la soluzione della crisi dell'imperialismo, serve ad acuire la crisi e sviluppare le condizioni migliori per il superamento del capitalismo che la genera.

Agosto 2009

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