Cominciamo a pubblicare testi utili a comprendere lo stato delle cose -2
La divisione sociale del lavoro nell’industria automobilistica, a livello internazionale, è in subbuglio, non solo per la questione della transizione dal motore endotermico a quello elettrico, ma è costellata dallo spettro della sovracapacità produttiva.
Se in Italia gli impianti produttivi del gruppo Stellantis lavorano, ormai da tempo, a singhiozzo (1), la situazione non è nemmeno tanto rosea in Germania: il colosso di Wolfsburg, per la prima volta nella sua storia, nel mese d’ottobre dell’anno corrente, ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti, con la conseguente perdita di miglia di posti di lavoro e la riduzione del salario del 10%.
Per chi ha scarsa memoria storica, vale la pena ricordargli che stiamo parlando del marchio Volkswagen che, nei primi anni ’90 del secolo scorso, ha avuto il coraggio di adottare la soluzione che mirava a salvaguardare i posti di lavoro, con uno storico accordo che prevedeva la riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali, a parità di salario.
Le ripercussioni della crisi automobilistica tedesca creano un effetto domino su quella italiana, in quanto in questo comparto, l’Italia ha ridotto notevolmente la produzione di automobili (prodotti finiti), mentre ha incrementato le quote di mercato dei pezzi di automobili, i quali vengono assemblati in altri contesti produttivi. In altri termini, ci siamo specializzati nella componentistica per i marchi francesi e tedeschi.
Se in Europa si respira un’aria asfittica, negli USA, sebbene il settore sia in ripresa, non ha ancora raggiunto la produzione del periodo prima della pandemia. Tuttavia, nonostante la produzione di auto elettriche non sia decollata, anche per la difficoltà di approvvigionamento dei semiconduttori, le
rivendicazioni degli operai sono più frizzanti. Tant’è che nel mese di settembre dello scorso anno, dopo 88 anni, lo UAW, United Auto Workers, il sindacato degli operai del settore automobilistico, ha lanciato uno sciopero, che ha coinvolto gli operai di Ford, General Motors e Stellantis, che hanno rivendicato salari adeguati all’inflazione e contemporaneamente hanno messo in evidenza la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali.Al momento, nel panorama internazionale, sembra che i produttori cinesi, grazie ai massicci investimenti statali che ci sono stati negli anni passati, godano di un vantaggio competitivo. Infatti riescono a produrre auto elettriche a costi molto più bassi che in Europa e negli USA, ma il mercato interno non è sufficiente ad assorbire l’enorme capacità produttiva, mentre i paesi occidentali si difendono con pesanti dazi doganali dall’invasione di queste potenziali merci.
In Cina ci sono 450 fabbriche di veicoli elettrici e i loro impianti non operano a pieno regime, anzi utilizzano solo 1/5 della loro capacità produttiva. Dunque, i produttori cinesi sarebbero pronti ad inondare di veicoli elettrici l’Europa e gli USA, potrebbero aggirare le barriere doganali delocalizzando la produzione, se i Governi occidentali dessero la loro disponibilità ai consumatori meno ricchi di acquistare le auto elettriche.
Ma questo implicherebbe una perdita di posti di lavoro in Cina, in un periodo in cui emerge il problema della disoccupazione giovanile.
Produzione e consumo sono due momenti di uno stesso processo tra di loro strettamente connessi: se aumenta la capacità produttiva e i prodotti aggiuntivi finali non trovano una corrispondenza nel mercato, non vengono validati dagli acquirenti in quanto non soddisfano bisogni umani, allora subentra una crisi di sovrapproduzione.
Come spiega Marx, affinché un prodotto finale sia utile a soddisfare bisogni umani, cioè abbia un valore d’uso per altri e quindi diventi una merce, si deve verificare un passaggio significativo, attraverso il quale si realizza il valore di scambio. Ogni merce ha un valore d’uso e un valore di scambio, mentre il prodotto finale è una merce potenziale, pertanto esso diventa merce solo attraverso “un duplice salto mortale”, ossia esso non solo deve trovare il denaro corrispondente che ne permetta lo scambio, ma deve anche avere un valore d’uso per il suo acquirente.
Altrimenti quel prodotto non entra nel consumo, non viene utilizzato per soddisfare un bisogno.
I veicoli elettrici dei fabbricanti cinesi che sono stati progettati, pensando allo smartphone, con parti meccaniche ridotte all’osso e con prezzi competitivi, rivolti al consumo di massa, non intercettano gli acquirenti nazionali, né tanto meno quelli europei o americani, perché strozzati dalle elevate tariffe doganali.
Senonché, la sovracapacità produttiva detta legge: i 4/5 degli impianti produttivi cinesi non vengono utilizzati, di conseguenza i capitali finanziari disponibili non vengono investiti in mezzi di produzione aggiuntivi, in quanto non si prevede di incorporarli in consumi aggiuntivi futuri.
A ben guardare, Marx ed Engels, già nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, evidenziano l’epidemia della sovrapproduzione: l’abbondanza diventa come la carestia e si vive una situazione come se una terribile guerra di sterminio avesse distrutto l’industria e il commercio, facendo ripiombare la società nella barbarie.
E tutto ciò avviene per l’eccesso di produzione: troppe industrie, troppi commerci, troppi mezzi di sussistenza, troppa pubblicità, troppe banche, troppe transazioni finanziarie, troppe infrastrutture, troppe automobili nelle città e l’aria diventa irrespirabile, troppe reti, troppe mail e messaggi, eccetera. Il troppo storpia! Forse, l’espressione ripetuta continuamente, “le risorse sono scarse”, non ha molto senso.
La prospettiva cambia, invece, quando ci chiediamo: che fine fanno le risorse derivanti dagli eccessi di produttività?
Se i 4/5 degli impianti produttivi, delle fabbriche di veicoli elettrici cinesi, non vengono utilizzati, allora dovrebbe essere chiaro che lo stock di capitale fisso (le risorse) è sovrabbondante, quindi non c’è bisogno di nuovi “investimenti produttivi” nel settore, un aspetto nodale sul quale ritornerò nel fluire del discorso.
Su questo punto Marx, a suo tempo, ha individuato la relazione tra crisi di sovrapproduzione e caduta tendenziale del saggio di profitto, inteso come rapporto tra il plusvalore (Pv) e il capitale anticipato o investito, cioè il capitale fisso più il capitale variabile (C+V).
Il lettore attento si renderà conto che nel paese più dinamico del mondo, dal punto di vista dell’intensificazione o relativa espansione dei rapporti capitalistici, l’ago della bilancia, nella composizione organica del capitale, pende notevolmente dal lato degli impianti e macchinari, vale a dire il capitale fisso ( C ). L’80% degli impianti e delle macchine, al passo con i progressi tecnologici di ultima generazione, non produce merci per soddisfare bisogni.
Questa potenza immane, pronta per l’uso, ma inutilizzata, rappresenta una minaccia per i produttori europei ed americani, ma anche coreani e giapponesi, qualora volessimo allargare il quadro dell’analisi.
Ogni fabbrica chiusa e potenzialmente utilizzabile, ogni fabbrica con impianti inutilizzati o che lavora a regime ridotto, come accade a Mirafiori, in Italia, rappresenta capitale aggiuntivo che non incontra la sfera del consumo, ragion per cui non dà luogo a profitti. Tutto ciò non implica che non ci siano profitti, infatti, come vedremo nel corso di questa breve sintesi, ci sono altre strategie per gonfiare i profitti, ma tali procedure rilevano che i profitti realizzati non sono proporzionali ai capitali investiti.
In Europa la produzione delle auto elettriche non ingrana la marcia, non solo per la scarsa rete delle colonnine di ricarica e per le difficoltà a reperire le materie prime per la costruzione delle batterie, ma soprattutto perché costano troppo, non sono alla portata di tutti, in quanto ci troviamo di fronte a un modello produttivo che non è orientato alla motorizzazione di massa.
In questo contesto, la spuntano le case automobilistiche che assemblano modelli di alta gamma, il cui target è costituito dalle fasce della popolazione più ricche, precisando che da quest’articolazione del processo produttivo si ottengono margini di profitti elevati, con ridotti volumi fisici di produzione.
Siamo impigliati dentro le maglie della logica paradossale e non riusciamo a venirne a capo: a fronte di continui aumenti della produttività, per via delle innovazioni tecnologiche, la domanda di lavoro socialmente necessario diminuisce, all’aumentare della capacità produttiva, però, sembra che cresca il caos e l’immiserimento.
È possibile uscire dalle sabbie mobili in cui siamo incagliati, senza affrontare la logica paradossale, legata agli eccessi di produttività?
Mauro Parretti, in Le metamorfosi del capitalismo (2), sostiene che per percorrere questo sentiero, oltre agli sviluppi del pensiero e alle conoscenze elaborate da Marx, occorre far riferimento agli approcci teorici di Keynes, sebbene siano stati sviluppati in altra epoca e da un’altra angolazione.
Il metodo di Parretti è analitico e parte dal presupposto che per spiegare la relazione tra la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la crisi di sovrapproduzione, non è necessario ricorrere a formulazioni algebriche o complicati teoremi matematici. In realtà, l’autore ne fa uso, ma puntualizza che su questo versante, si rivolge anche ai lettori economisti eventualmente interessati.
Per il resto, egli si muove coerentemente sulle riflessioni del Centro Studi e Iniziative per la Redistribuzione del lavoro, che hanno rilevato il denominatore comune tra il pensiero di Marx e quello di Keynes, riguardo alla crisi di sovrapproduzione.
Marx visse e studiò le crisi cicliche e congiunturali della sua epoca, analizzò in profondità i rapporti di produzione capitalistici e ne fu uno tra i più audaci e tenaci critici. Egli mise in evidenza gli aspetti positivi del modo di produzione capitalistico, ma teorizzò anche il superamento di questo sistema produttivo mediante la suddetta legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e l’emancipazione dal lavoro salariato (riduzione progressiva dell’orario di lavoro) da parte dei lavoratori dipendenti.
Keynes visse la drammatica crisi di sovrapproduzione strutturale degli anni trenta del secolo scorso, crisi, che in qualche modo aveva previsto, uscendo fuori dallo schema degli economisti ortodossi e nel formulare la sua teoria economica – osserva Parretti – argomentò che essa era “il risultato dell’aumento della produttività, perché il capitalismo tende a limitare i consumi e espandere gli investimenti“. (3)
Keynes non era un rivoluzionario come Marx, il suo pregio fu quello di riuscire a spingersi oltre i luoghi comuni degli economisti che supportavano il capitalismo, pur se condannava la società a vivere al di sotto delle capacità sviluppate in quel periodo storico. Anche se si sposò con una ballerina russa, non aveva nessuna simpatia per comunismo ed utilizzava espressioni di scherno e toni dispregiativi per “la cooperazione forzata” nell’Unione Sovietica.
Nonostante pervenne a conclusioni simili a quelle di Marx sulla crisi, egli ignorò tale evidenza.
Per Marx, dice Parretti, il socialismo diventa opportuno quando il capitalismo sottrae risorse al consumo dei lavoratori, non per migliorare l’efficienza del sistema e il tenore di vita di tutti, ma per sprecarle. In queste ultime circostanze il capitalismo è arbitrario, è insopportabile.
Durante la grande crisi, Keynes comprese che i milioni di disoccupati, che si registravano nei paesi capitalisticamente più avanzati, rappresentavano uno spreco inaccettabile, un prezzo troppo elevato per una società che era più ricca o che produceva di più, rispetto al periodo che ha preceduto il primo conflitto mondiale.
A dire il vero, Keynes – asserisce Parretti – utilizza un linguaggio “marginalista neoclassico”, per evidenziare che all’aumentare della produttività, anche se aumenta la “produttività marginale” del capitale, nel contempo, diminuisce la sua “efficienza marginale”, cioè il suo rendimento monetario.
Keynes rilevò circa un secolo fa – continua Parretti – che una cosa è “produrre” nuovi investimenti, un’altra è “venderli”.
Quindi il rendimento monetario dei nuovi investimenti, intesi come mezzi di produzione aggiuntivi, tenderebbe a zero, quando una tale “offerta” non trova la corrispondente “domanda”. I nuovi investimenti aggiuntivi “sarebbero necessari soltanto se i consumi, merci finali, crescessero allo stesso ritmo” (4), altrimenti, si crea una situazione di stallo, quando la variazione dei consumi aggiuntivi sia inferiore a quella degli investimenti aggiuntivi., il che implica, nell’analisi keynesiana, propensione marginale al risparmio > della propensione marginale al consumo.
Queste ultime due variabili diventano significative, quando si riferiscono all’intera società, piuttosto che al singolo individuo o alla singola famiglia.
In seguito alla prolungata depressione degli anni 30, nei paesi più industrializzati, Keynes ebbe modo di mettere a nudo il pensiero che incarnava la teoria economica liberista, sostenendo che il mercato non si autoregolava da solo e che soprattutto non era il regno dell’armonia.
Infatti, il brillante matematico di Cambridge, insieme al suo gruppo di ricerca, formato prevalentemente da giovani economisti, riuscirono a formulare una teoria in grado di affrontare la logica paradossale della crisi di sovrapproduzione, dando vita alle premesse per edificare lo Stato sociale.
Uno stralcio del suo pensiero che smuove le acque: ci sono i mattoni, la calce, la sabbia, il legno (le risorse), ci sono disoccupati (muratori, manovali, carpentieri, eccetera), ci sono le macchine e le attrezzature, mancano le case per molti cittadini, in quanto vivono nelle baracche, allora se non intervengono i privati, con i loro capitali monetari inutilizzati, deve intervenire lo Stato e con la spesa pubblica finanzia la costruzione di case popolari, per coloro che non possono permettersi l’acquisto di una casa in muratura e con i confort minimi.
Nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale, le politiche di pieno impiego persuasero la classe borghese ad accettare l’idea che il lavoro potesse sottrarsi alla condizione di merce sovrabbondante e che i salari non fossero commisurati ai livelli di sussistenza, come ai tempi di Marx e nella prima metà del XX secolo.
Alla luce di quest’ultimo cambiamento, Parretti individua un passaggio cruciale: “La contrattazione collettiva del salario permise che una parte degli aumenti della produttività tecnologica (“prezzo/costo”) determinasse maggiori salari e servizi gratuiti da parte dello Stato (scuola, sanità, ecc.) e quindi aumentasse il tenore di vita dei lavoratori“. (5)
Man mano che miglioravano le condizioni di vita della classe lavoratrice, in quanto riusciva a soddisfare una serie di bisogni “improcrastinabili”, diminuiva la propensione marginale al consumo e di conseguenza gli effetti moltiplicativi della spesa pubblica iniziarono a subire rallentamenti e cadute.
A metà degli anni 70, quando riemerse il problema della disoccupazione, poiché lo Stato non riusciva a creare nuovi posti di lavoro nel settore pubblico, che potessero compensare la perdita di quelli che si verificavano nel settore privato, per via degli aumenti di produttività legati all’innovazione tecnologica, lo squilibrio tra pmac < pmar divenne consistente, cosicché le politiche keynesiane vennero messe sotto accusa e le teorie economiche neoliberiste ed ordoliberiste, che non erano morte, presero di nuovo piede.
Molti saggi sono stati scritti sulla “crisi dello Stato sociale”, quello di Parretti evidenzia un approccio che, a mio avviso, è interessante.
Egli sostiene che anche in una situazione come quella descritta qui sopra, è possibile fare nuovi investimenti, purché siano improduttivi. Quindi le imprese “non investono in mezzi di produzione aggiuntivi, poiché inutili, ma in attività che facciano aumentare la propria quota di mercato a danno dei diretti concorrenti“. (6)
L’aumento del capitale improduttivo, spiega Parretti, avviene a danno di quello produttivo, il quale continua a diminuire, a sua volta, per via degli aumenti della produttività tecnologica, espressa dal rapporto tra prezzo e costi diretti, così come il lavoro improduttivo sostituisce quello produttivo.
C’è un altro aspetto dirimente, che cattura l’attenzione quando si parla del come misurare la produttività del lavoro; infatti se nel rapporto tra prodotto netto e totale ore lavorate, si tiene conto anche delle spese improduttive, intese come costi fissi, negli ultimi trent’anni – afferma Parretti – la produttività del lavoro risulta stazionaria, se non calante, mentre se al denominatore del rapporto, teniamo conto solo delle ore del lavoro produttivo, allora l’indicatore è ampiamente aumentato.
Dunque le ore di lavoro improduttivo sono funzionali alle imprese, per mantenere o espandere la propria quota di mercato, ma esse non vengono utilizzate per produrre merci. Senza queste ore di lavoro improduttivo, le aziende sarebbero travolte dalla concorrenza, quindi sono costrette a sostenere questi “costi intermedi”, i quali decurtano il prodotto netto e fanno aumentare il valore delle imprese nei mercati finanziari.
Insomma, per chiudere quest’articolo con Parretti, più che a capitalisti, ci troviamo di fronte a dei veri e propri prestigiatori: le spese improduttive corrispondono a profitti nascosti reinvestiti, che non risultano nei libri contabili come capitale reale; capitale, quindi, che non è possibile tassare, ma che appare solo nella vendita di quote o azioni dell’impresa a un valore molto più grande del capitale sociale contabile, che esse rappresentano nello stato patrimoniale. (7)
Note
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Nel mese di luglio e settembre del 2024, a Mirafiori, gli impianti hanno funzionato solo per 5 giorni.
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Mauro Parretti, Le metamorfosi del capitalismo, formazione online, https://www.redistribuireillavoro.
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Idem p.6.
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Idem p. 11.
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Idem p. 34.
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Idem p. 35.
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Idem p. 36.
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