Giappone no a pubblicazione di
sentenze sui morti da lavoro: “Danno per aziende”
Le vittime del karoshi sono una piaga sociale in
estremo Oriente. I tribunali costringono le aziende a risarcire i parenti dei
defunti da iper lavoro, ma la Corte Suprema ha deciso di non rendere pubbliche
queste decisioni per motivi di “ordine pubblico” e il diritto alla “privacy”
La scorsa
settimana la Corte Suprema del Giappone – che oltre a fungere da ultimo
grado di giudizio ricopre anche il ruolo di corte costituzionale – se ne è
uscita con un’altra, inquietante quanto bizzarra, sentenza (dico
un’altra perché la Corte è nota, oltre che per la sua lentezza, per la sua
oramai conclamata incapacità a svolgere il suo ruolo, che sarebbe quello
di far rispettare la Costituzione, una delle più belle e inapplicate al
mondo, e non quello di trovare appigli per tutti coloro che la violano). Nella
fattispecie, la Corte è riuscita a stravolgere, ribaltandolo, uno dei principi
fondamentali dell’ordinamento giuridico: la pubblicità delle sentenze.
Rispondendo
(dopo tre anni ) al ricorso di una organizzazione non governativa che si era
vista respingere dall’Ufficio provinciale del lavoro la richiesta di ottenere
copia di una sentenza riguardante un caso di karoshi (morte da
superlavoro, una delle piaghe sociali del Giappone, ma non solo), la Corte
Suprema ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Osaka, che
aveva ribaltato la sentenza favorevole di primo grado. Non ho avuto modo di
leggere direttamente la sentenza (che a suo volta non è ancora postata sul sito
ufficiale della Corte Suprema, neanche in giapponese), ma a quanto riferiscono
alcuni media locali, pare che il ragionamento sia il seguente: è vero che le
sentenze sono per loro natura “pubbliche”, ma come avviene nel caso di minori o
di contenuti scabrosi, i motivi di “ordine pubblico” e il diritto alla “privacy”
sono prevalenti.
Il che non
fa una piega, ma si stenta a capire cosa c’entri la “privacy”, e anche l’ordine
pubblico, con una sentenza che riconosca la responsabilità di un’azienda,
e la condanni ad un indennizzo a favore della famiglia superstite, per aver
costretto un suo dipendente a lavorare come uno schiavo, fino a provocarne la morte
per infarto o suicidio. C’è il sospetto, fondato, che la privacy invocata
sia quella dell’azienda, e non quella della povera famiglia. Che spesso viene
obbligata, prima di ricevere il risarcimento (il 75% delle cause di karoshi si
concludono con una transazione extragiudiziale) a non rivelare
pubblicamente i particolari, soprattutto per quanto concerne il nome
dell’azienda e l’ammontare del risarcimento ottenuto.
“E’
l’ennesima vessazione, l’ennesimo ricatto che le aziende compiono nei
confronti delle famiglie, già colpite dalla tragedia di perdere un loro caro e
la preoccupazione di tirare avanti”, spiega Hiroko Uchino, vedova di
Kenichi, un capo reparto della Toyota stramazzato al suolo in fabbrica
nel 2005, a 34 anni, dopo aver accumulato per anni oltre 100 ore al mese di
straordinari. La signora Uchino per un po’ ha rispettato l’accordo, poi,
d’accordo con il suo avvocato e con uno dei sindacati minoritari e
maggiormente discriminati, ha reso tutto pubblico e ora gira il Giappone
tenendo conferenze e dando consulenze, attraverso un popolare blog, su come
comportarsi nel caso che il karoshi colpisca la propria famiglia. Un evento
tutt’altro che improbabile, visto che l’aumento delle cause di risarcimento è
in continuo aumento e che i tribunali, negli ultimi anni, tendono ad
essere più “generosi” nel riconoscere la responsabilità delle aziende.
“Questo ha
portato ad una maggioore visibilità mediatica, costringendo le aziende,
sopratutto quelle più importanti, con una immagine da proteggere, a regolare
con maggiore attenzione il sistema del saavisu zangyo: gli
‘straordinari non pagati’”, spiega l’avvocato Hiroshi Kawahito, da anni
‘sulla breccia’ per quanto riguarda le cause di karoshi e del suo più recente,
e più difficile da dimostrare, karojisatsu: il suicidio da
stress. Due anni fa la prima sentenza, ottenuta proprio dall’avvocato Kawahito,
che da allora ha un’agenda sempre più piena. Peccato dunque, che nonostante
l’impegno del legislatore (la legge prevede un massimo di 40 ore
settimanali e anche pene severe per il datore di lavoro che ne imponga, anche
solo di fatto, di più. Ma il tutto è derogabile, grazie all’art.36 che lascia
ampio spazio alla libera contrattazione: ci sono aziende, specie nel settore
terziario, che offrono contratti con 60 ore settimanali e fino a 100 ore di
straordinari “forfettizzati”) e la crecente sensibilità della magistratura,
arrivi poi una sentenza della Corre Suprema che va in tutt’altra,
inaccettabile, direzione. Quella di nascondere il bubbone, anzichè contribuire,
rendendo pubblici i nomi delle aziende condannate, ad estirparlo.
Non so
quanto sia noto in Italia il termine karoshi – entrato ufficialmente nell’Oxford
English Dictionary nel 2002 – e soprattutto quanto si sappia della sua
diffusione, non solo in Giappone. L’idea stessa di “morire di lavoro” (che è
cosa diversa di morire “sul lavoro”) è – fortunatamente – abbastanza estranea alla
nostra cultura. Non lo è, invece, in Oriente, dove una efficace quanto
socialmente devastante sintesi tra il pensiero confuciano e le più sofisticate
tecniche di sfruttamento industriale hanno progressivamente trasformato – e
continuano a trasformare con forme contrattuali sempre più “flessibili” – il mercato
del lavoro in una sorta di discarica usa e getta. In Corea del Sud,
paese che si disputa con il Giappone l’orario di lavoro più pesante del mondo
industrializzato, il fenomeno si chiama gwarosa ed è diffuso
forse più che in Giappone, anche se per il momento ancora molto più sommerso.
E lo stesso
vale per la Cina, dove alcune fonti weibo (la “rete”
cinese ufficiale) parlano addirittura di 600 mila casi di guolaoxi,
anche se le sentenze che sanciscono formalmente il famoso “nesso” tra
superlavoro e morte improvvisa sono ancora pochissime. Sono invece in aumento,
come si diceva all’inizio, in Giappone: nel 2012 ben 338, su un totale di 842,
su base nazionale, quasi il doppio rispetto al 2011. Resta la profonda
perplessità sul perché questa civilissima tendenza debba restare nascosta al
grande pubblico, neanche fosse un segreto militare.
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