Memoria storica: il 2 febbraio 1977 esplode il Movimento del 77
da contromaelstrom
L’anno 1977 iniziò un mese prima, il 3 dicembre ’76, quando Franco Maria Malfatti, ministro ell’istruzione, gettò sul tavolo le sue carte: la famigerata circolare che limitava la reiterazione degli esami, con l’aumento delle tasse, soprattutto per i fuoricorso, si definivano per la prima volta i tre livelli di laurea (diploma, laurea, dottorato di ricerca), la reintroduzione del numero chiuso, ecc.
Il 24 gennaio ’77 a Palermo gli studenti occuparono la facoltà di Lettere, il 31 gennaio bloccate le attività didattiche presso le facoltà umanistiche di Torino, Cagliari, Sassari, Salerno. A Bologna, Milano, Padova, Firenze, Pisa si tenevano manifestazioni, cortei, assemblee.
2 febbraio ’77
All’Università La Sapienza di Roma una settantina di fascisti aggredirono un’assemblea di studenti. Respinti esplosero colpi di arma da fuoco. Guido Bellachioma venne gravemente ferito alla testa. L’indomani un corteo uscì dall’università, a via Solferino, nei pressi di via Sommacampagna, un gruppo di compagni si separò dal corteo e andò ad attaccare la sede del Msi da cui erano partiti gli aggressori il giorno prima. In piazza Indipendenza, da una 127 senza contrassegni scesero alcuni poliziotti con le pistole in pugno. Cominciò una sparatoria tra i poliziotti e due compagni, Paolo e Daddo e un poliziotto rimasero feriti gravemente.
Paolo e Daddo liberi!!!
Il dirigente del partito comunista Ugo Pecchioli rilascio al quotidiano «la Repubblica»: «Il raid dei fascisti all’università e le violenze dei provocatori cosiddetti autonomi sono due volti della stessa realtà […] la matrice fascista è comune, analoghe le finalità. La polizia e la magistratura facciano il loro dovere chiudendo i covi». Il movimento rispose con una grande manifestazione di 30.000 persone che invase le strade della città.
Il 17 febbraio, di giovedì, Luciano Lama, segretario generale Cgil, all’università di Roma per ricondurre i ribelli all’ordine.
Nei giorni precedenti la tensione era salita grazie ai tentativi degli studenti del Pci e dei loro alleati di impossessarsi con la forza delle Facoltà.
Il 17 febbraio ’77 era giovedì. Arrivati al lavoro, io e altri compagni ci apprestammo a chiedere un permesso di un paio d’ore per andare all’Università. Sorpresa: trovammo un ordine del giorno della direzione-ufficio sindacale che consentiva due ore di permesso a tutti i delegati eletti per recarsi al comizio di Lama. Si era realizzata finalmente la «grande unità» tra direzione aziendale e direzione sindacale. Bene, ma c’era però un piccolo particolare che né la direzione aziendale né quella sindacale immaginano: la gran parte dei delegati eletti nei vari posti di lavoro non stava con Lama, piuttosto era vicina al movimento. In quegli anni per essere eletto delegato non era necessaria la tessera sindacale e si votava senza
lista, chiunque poteva essere eletto. Quel metodo durò poco, ma allora in ferrovia venivano eletti molti compagni del comitato politico, e altri che condividevano le nostre posizioni. Stessa cosa succedeva negli altri posti di lavoro.
Il pomeriggio del giorno prima, nel movimento si era discusso come accogliere Lama. L’assemblea all’Università era numerosissima.
Cosa fare? Farlo parlare? Fischiarlo? Cacciarlo? L’assemblea alla fine decise di presenziare al comizio, subissarlo di fischi ma evitare lo scontro fisico. Una soluzione che andava bene a tutti e non creava problemi al movimento in una fase di crescita.
Dopo l’assemblea, riunione dei servizi d’ordine. Tutti d’accordo, ma… non ci stavano gli «indiani metropolitani»; non ci stavano in quelle riunioni e non ci stavano ad accettare decisioni comuni. Loro volevano muoversi in piena autonomia, anche dal movimento, e stavano preparando un pupazzone di cartapesta molto alto pieno di tanti slogan ironici: «Più lavoro meno salario»;
«Lama è mio e lo gestisco io»; «Vogliamo un affitto proletario il 100% del salario» (quella ironia, purtroppo, si è poi rivelata del tutto realista».
Arrivai sul piazzale della Minerva con i compagni delegati ferrovieri che non andarono di certo a dar manforte al servizio d’ordine di Lama. Il camion del comizio sindacale era circondato da un servizio d’ordine di un centinaio di persone ben attrezzate. A qualche metro di distanza tutti gli altri: studenti, lavoratori, molti visi conosciuti. Fino a una certa ora, nel raggruppamento del movimento i lavoratori risultavano superiori agli studenti che arrivavano alla spicciolata. Tra i due schieramenti c’era un corridoio di tre metri, una «terra di nessuno» tenuta sgombra grazie a una fila di servizio d’ordine del movimento che cercava di evitare il contatto col servizio d’ordine di Lama, così com’era stato deciso nell’assemblea del giorno prima. Cinque-sei metri indietro c’era il pupazzone con intorno gli indiani metropolitani la cui consistenza numerica andava man mano aumentando.
Come andò a finire oggi si sa bene, anche per i successivi «pentimenti» e confessioni di alcuni che facevano parte del servizio d’ordine di Lama, poi usciti dal Pci. Furono gli slogan urlati da una quantità crescente di voci, non solo «indiani», che fecero saltare i nervi ai militanti del servizio d’ordine di Lama, ossessionati dalla vista di nemici e provocatori ovunque. Alcuni slogan erano molto divertenti e intonati a più voci acquistavano un effetto dissacrante:
«È ora, è ora: miseria a chi lavora»; «Potere padronale»; «Andreotti è rosso Fanfani lo sarà»; «Più baracche meno case».
Poteva anche finire così: in un intreccio non-comunicante di due linguaggi opposti e ostili ma non in guerra. Avremmo dato modo ai sociologi di dilettarsi in analisi bizzarre e linguistiche. Invece no, quelli del Pci e del sindacato erano convinti che eravamo al soldo della Cia, e così ci insultarono definendoci fascisti. Il servizio d’ordine del movimento aveva un bel da fare a tener fermi i compagni che non ne potevano più.
Poi arrivò il lancio di palloncini ripieni di colore verso il camion.
I militanti del servizio d’ordine di Lama impugnarono gli estintori e si lanciarono contro le prime fila del servizio d’ordine del movimento che a stento riuscivano a trattenere quanti premevano indignati. Il cordone del movimento cedette consentendo agli «indiani» di partire alla controffensiva e arrivare a contatto con gli aggressori. Dietro c’erano tutti gli altri. A quel punto il parapiglia fu inevitabile. Il movimento incalzò il servizio d’ordine sindacale che arretrò fino a uscire dall’università.
Alle 11.00 di una tiepida mattina di febbraio era tutto finito. Si era consumato un difficile passaggio, duro da digerire, ma necessario.
La retorica del «rosso», delle canzoni comuni, delle radici comuni, Gramsci, la Resistenza, il luglio ’60, non servivano più a tenere insieme ciò che ormai era diviso, anzi contrapposto, sul crinale della condizione di classe e dello sfruttamento capitalistico.
Fin lì c’erano state solo litigate, qualche spintone e qualche ceffone durante le manifestazioni per il Vietnam del ’66-67, dieci anni durante i quali lo scontro nei posti di lavoro era stato durissimo verso chi voleva imporre il dictat dei vertici sindacali collaborazionisti.
Si era cercato di mantenere quei contrasti all’interno di una convivenza, ma il momento della verità doveva arrivare, e arrivò.
Quel pomeriggio del 17 febbraio il Pci perse più iscritti che in tutta la sua storia. La sera stessa la Cgil convocò Cisl e Uil per proporre uno sciopero contro le provocazioni, ma i due sindacati si resero conto che sarebbe stato un flop e optarono per una settimana di assemblee nei posti di lavoro. Anche lì ne uscirono scornati, le assemblee venivano disertate dai lavoratori, oppure là dove erano partecipate ai burocrati venivano indirizzati tanti di quei fischi da farli pentire di averle convocate.
Il giorno dopo, venerdì 18, nella facoltà di Economia si tenne un’affollata assemblea del movimento che approvò un documento sui fatti del giorno prima:
Nei giorni precedenti la tensione era salita grazie ai tentativi degli studenti del Pci e dei loro alleati di impossessarsi con la forza delle Facoltà.
«Nella mattinata il servizio d’ordine del Pci […] ha dato il via a gravissimi incidenti nel tentativo di schiacciare l’autonomia del movimento. Questa manovra è fallita per la reazione di massa degli studenti che hanno cacciato il servizio d’ordine del Pci e sono rimasti padroni dell’Università. […]
Nel pomeriggio Cossiga, favorito dalla situazione, ha fatto prendere d’assalto l’Università da un imponente schieramento di Ps, riuscendo così a fare, grazie al Pci, quello che non gli era stato possibile nei giorni scorsi. […] Per quanto riguarda la lotta, il movimento non intende rinunciare ai suoi obiettivi centrali che sono: 1) ritiro del progetto Malfatti e di quello del Pci; 2) sciopero generale nazionale contro il governo per aprire un fronte di lotta nuovo e di massa sull’occupazione. Il movimento sa che questi obiettivi significano il rifiuto della politica dei sacrifici, della logica della compatibilità capitalistica rispetto alla crisi […]. Per queste ragioni l’assemblea generale decide: di intimare al governo lo sgombero dell’Ateneo, che deve funzionare come luogo di aggregazione autonoma dei giovani e l’allontanamento definitivo della polizia; di fare un manifesto cittadino che chiarisca le posizioni del movimento; di indire per sabato 19 febbraio, alle ore 17 a piazza Esedra, una grande manifestazione cittadina e di massa, che verrà garantita dalle strutture di movimento; di invitare tutte le Università in lotta a un confronto nazionale sabato e domenica 26 e 27 febbraio a Roma». [Dario Paccino, Sceemi, il rifiuto di una generazione, 1977]
Quel 17 febbraio il sole non fece in tempo a tramontare sull’università occupata che la polizia sgomberò. Anche quel nuovo movimento si cimentò con le occupazioni e con gli sgomberi, stavolta più duri, scoprì un’università diversa. Corridoi, aule, scale, pareti con le scritte di un decennio, consunte dal tempo ma ancora ben visibili: «Johnson boia. Panagulis libero»; «Vietcong vince, morte ai colonnelli greci». Le scritte sbiadite segnavano il tempo passato, ma quelle ragazze e quei ragazzi vi scoprirono una rabbia simile alla loro. E scoprirono le falsità dei giornali che raccontavano
i fatti a modo loro.
Il «Corriere della Sera» intervistò Lama.
È nuovo fascismo, perché anche il fascismo ebbe all’inizio, specie tra i giovani, radici demagogiche e irrazionali simili a queste. Poi c’è il qualunquismo dell’ostilità dei partiti, alla politica concreta, ai meccanismi della democrazia. C’è lo svuotamento dei simboli, la irrisione nichilista esemplificata da slogan quali «Meno ferie più sfruttamento» o «Potere dromedario». E naturalmente c’è la scelta del nemico: i sindacati, i comunisti.
Da cos’altro si riconosce il fascismo?
[da Maelstrom, scene di rivolta e autorganizzazione di classe in Italia (1960-1980). Ed DeriveApprodi 2011, pag. 365 e seg.]
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