Salario minimo – una necessità o una generalizzazione della miseria?
In questo periodo è tornata alla grande, non la lotta necessaria per forti aumenti salariali, ma, con interventi, dibattiti sia da parte di operatori al servizio del capitale, sia di intellettuali e stampa, la questione del “salario minimo”.
Fino alla riformulazione da parte del governo fascio-populista di una proposta di legge come quella presentata in Senato dal M5S per l’introduzione di un salario minimo garantito a 9 euro lorde complessive l’ora – che comunque sarà molto più basso: le manovre del M5S/Di Maio da ingannapopolo, di sparare alto e realizzare bassissimo già le abbiamo viste all’opera; a questa si unisce la proposta del PD che parla di 9 euro nette.
La questione non è nuova, si è dibattuta e posta già negli anni passati – e tra i primi ad avviare il dibattito è stata la Confindustria tramite il suo giornale ‘Sole 24ore’ che dimostrava la positività, convenienza per le aziende stesse di fissare per legge un “salario minimo” (ma molto minimo: 5 euro
l’ora), al di sotto del quale le aziende non potrebbero andare. Così come si era posto nell’ultima trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, dove era stata la Federmeccanica a proporre di istituire un “salario minimo di garanzia” da rivalutare ogni anno ex post: per i lavoratori sotto questo livello minimo scatterebbe l’adeguamento retributivo. Questo voleva dire in sostanza “non riconoscere - come ammisero gli stessi sindacati confederali - al 95% dei lavoratori nessun aumento, rendendo inutile e residuale il CCNL”.
Ora il “salario minimo” si ripropone. Certo vede non entusiasti i padroni, ma solo perchè la cifra ventilata per loro è “troppo alta”, a dimostrazione che il salario effettivo è molto più basso. Anche i sindacati confederali mugugnano ma solo perchè significherebbe togliere loro potere di contrattazione, non certo perchè nei loro programmi ci sono richieste di forti aumenti salariali.
Ma il ”salario minimo” è una giusta rivendicazione, anche se parziale, una inevitabile necessità a fronte del fatto che buona parte di salari non raggiungono neanche il salario minimo? O, no?
Vediamo vari aspetti da un punto di vista di lotta di classe, e non di “gioco forza” a prendersi anche le
miserie perchè i lavoratori, le famiglie non ce la fanno più.
Il “salario minimo” se per aziende che sono al di sotto vorrebbe dire aumentare di poco le retribuzioni fino a questa soglia minima (che comunque sarebbe al di sotto del salario dei principali contratti dell'industria- es. metalmeccanico), per tante altre aziende vorrebbe dire rendere legale il sottosalario già pagato o addirittura ridurlo, fino al “salario minimo”.
Ciò che avverrebbe non sarebbe una uguaglianza al rialzo delle retribuzioni dei lavoratori, ma un livellamento al ribasso, una generalizzazione della miseria. L’”unità” dei lavoratori verrebbe stabilita dal “salario minimo”, che via via porterebbe ad unificare tutti i salari a questo livello minimo. E la stragrande maggioranza dei lavoratori svenderebbe così la propria forza-lavoro al minimo del suo valore.
Quindi, invece di garantire, a chi viene sottopagato un salario contrattuale, si darà a chi prende ancora un salario contrattuale, un salario minimo. Per cui - come diceva Marx nel breve pezzo che riportiamo di seguito, il “minimo” diventerebbe il “massimo”.
Ma Marx andava ancora più pesante. Quando verso la fine del 1879 la Federazione del Partito dei lavoratori socialisti in Francia cominciò a lavorare a un programma politico, Marx insistette, ricorda Engels, nel proporre l’eliminazione di “quella stupidaggine del salario minimo”. Nello stesso periodo, in una lettera inviata il 23 novembre 1880, al marito, anche la figlia maggiore di Marx, Jenny Longuet, riferì: “Rispetto alla questione della garanzia di un salario minimo, forse ti interesserà sapere che papà ha fatto di tutto per convincere Guesde (fondatore del partito operaio francese) a non includerla nel loro programma; spiegandogli che un provvedimento del genere, qualora venisse adottato, porterebbe al risultato per cui, in base alle leggi economiche, il minimo garantito diventerebbe il massimo”.
Tornando al “nostro” salario minimo, esso porterebbe ad affossare definitivamente i contratti collettivi nazionali, la lotta nazionale per aumenti salariali, un “auspicio” da molto tempo chiesto dai padroni, e di fatto accettato dai sindacati confederali in nome di dare più potere e spazio alla contrattazione aziendale, che, come abbiamo visto in questi anni, non difende il salario, al massimo concede, ad alcuni sì ad altri no, briciole, ma a fronte di più flessibilità, più carichi di lavoro, più disponibilità a turni, riduzioni di pause, straordinari, più cumulo di mansioni, e, di conseguenza, meno salvaguardia della sicurezza, della salute.
Il “salario minimo”, per il governo, diventerebbe un modo per cristallizzare, rendere permanente la situazione di sottosalari attuale (come il “reddito di cittadinanza”), della serie: poiché i padroni non vogliono dare neanche i salari contrattuali – che comunque sono rimasti al palo da diversi anni; poiché non si devono richiedere aumenti salariali per difendere i profitti delle aziende, allora si stabilisce una soglia minima, che comunque, come abbiamo detto prima, è abbondantemente al di sotto del “pagamento della merce forza-lavoro”.
D’altra parte il governo non fa quello che invece potrebbe fare per non ridurre a sua volta i salari: riduzione delle bollette, reintroduzione della scala mobile, ecc.
Infine, diciamo che se nel pesante attacco ai salari, ogni miseria in più, per tanti lavoratori, può essere vista come una “boccata di ossigeno”, accettare questa logica è legarsi mani e piedi al fatto che non è più la lotta sindacale di classe l’arma della difesa delle condizioni di lavoro e di vita ma l’attesa, l’auspicio di concessioni di padroni e governo; così alla lotta di classe si sostituisce il “voto”. Ma questa sarebbe una visione miope e perdente.
Sempre nella storia della lotta di classe dei lavoratori, ogni miglioramento è stato strappato ed è stato possibile solo con la lotta, creando per i padroni e lo Stato un problema sociale a cui sono costretti a rispondere.
Una lotta per gli aumenti salariali, porterebbe comunque, sia pur in maniera parziale, a risultati maggiori del “salario minimo”.
E 50 anni fa il 1969/Autunno caldo questo ce lo ha ben insegnato e mostrato.
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