sabato 11 marzo 2017

pc 11 marzo - Il caso Almaviva. Un buon articolo, ma il problema è sempre quello: con i lavoratori in mano ai sindacati confederali le lotte per il lavoro e le condizioni di lavoro si perdono

Subject: ALMAVIVA E NOI

La drammatica situazione in cui versano i lavoratori dei call-center in Italia è tornata alla ribalta dopo il licenziamento in blocco dei 1.666 lavoratori di Almaviva, società privata che viveva principalmente di commesse pubbliche “esternalizzate”.
In quest’articolo vogliamo soffermarci sulla situazione delle telecomunicazioni. Dopo la privatizzazione (sarebbe meglio dire svendita) di Telecom del 1997 è stato possibile acquistare reti telefoniche e antenne da parte di altri gestori, interessate a porre a profitto ciò che con i soldi pubblici si era riuscito a costruire, ossia una rete telefonica che fornisse il servizio pressoché ovunque nel nostro paese.
Le aziende che hanno approfittato di questa occasione sono diverse (Wind, Vodafone, Fastweb, la stessa Telecom privatizzata ecc). Ciò che balza subito all’orecchio di chiunque abbia una rete internet e/o telefonica è che quando si chiama il servizio clienti per segnalare un problema o per chiedere informazioni nella stragrande maggioranza dei casi si viene trasferiti all’estero dove rispondono operatori che non hanno una buona conoscenza della lingua italiana.
I pochi “privilegiati” che ancora rispondono dall’Italia sono operatori che lavorano in settori prevalentemente amministrativi: dalla vendita di servizi alla riscossione degli insoluti.
E’ lecito dunque domandarsi perché le aziende che erogano un servizio in Italia decidano di
trasferire la loro assistenza clienti all’estero.

La ragione è chiaramente di ordine economico. Queste aziende erogano tutte lo stesso servizio e dunque la concorrenza si fa sull’abbattimento del costo finale per l’utente. Per abbattere i costi, stanti le necessarie spese tecnologiche e di manutenzione degli impianti, si scarica sul lavoro la riduzione dei costi. Per farlo si approfitta della situazione di dumping sociale dell’Unione europea, ossia il fatto che nell’Unione non esiste un unico regime di tassazione e quindi l’azienda può decidere di spostarsi dove il costo del lavoro è più basso e quindi sono più ampi i margini di profitto. Per chiarezza va detto che la maggior parte di queste aziende ha esternalizzato in Albania, paese che, pur non facendo parte dell’Unione, ha accordi commerciali che gli consentono di offrire condizioni di particolare favore ai padroni di aziende. Tutto ciò reso ancora più conveniente dalla pressoché totale assenza del sindacato conflittuale e dall’assenza di regolamentazione della giornata lavorativa (con turni che possono arrivare fino a 16 ore), delle ferie, delle malattie, dei permessi, oltre che dal clima pressoché intimidatorio in cui si è costretti a lavorare, e dalle retribuzioni nette che oscillano tra i 200-250 euro per un part-time e 400-450 per un full time.
E veniamo all’altra faccia di questa triste medaglia, ossia i “fortunati” che hanno un padrone che li sfrutti in Italia, anziché in Albania. Ebbene il caso Almaviva ci mostra come con il progredire della crisi i lavoratori siano sempre più costretti nella morsa del ricatto padronale che peggiora le condizioni di lavoro e di salario; e in caso di mancato accordo tra azienda e sindacato o nel caso venga opposta una resistenza da parte dei lavoratori alla situazione descritta, l’azienda minaccia di prendere e spostare tutto altrove. In ogni caso anche qualora decidesse di restare in Italia, sistematicamente l’azienda pretende condizioni lavorative non troppo dissimili da quelli albanesi: precariato diffuso (in Albania sono pressoché assenti forme di stabilizzazione del personale), bassi salari (perché dove si delocalizza si guadagna meno della metà e dunque non ci si può lamentare), assenza pressoché totale del sindacato (se non quello complice che benedice tutti gli accordi peggiorativi come i migliori possibili data la situazione economica) e il video-controllo a distanza o diretto dei lavoratori.
Questo meccanismo è favorito dal fatto che la maggior parte di questi lavoratori non lavora direttamente per l’azienda per la quale fornisce il servizio di assistenza clienti, ma per altre aziende più piccole che hanno ottenuto la commessa e che sono legate a obiettivi e costi sempre più stringenti e alla possibilità di licenziare la gran parte dei suoi dipendenti e collaboratori data la pressoché totale abolizione dell’articolo 18 operata dal governo Renzi con il Jobs Act. Ma la catena dei subappalti spesso non si ferma al primo passaggio, in un sistema di scatole cinesi da cui è difficile risalire a quello che è il principale committente.
Dopo la parte analitica è venuto il momento di provare ad abbozzare il che fare per cercare di migliorare questa situazione.
Proprio per la situazione descritta antecedentemente una lotta che mobiliti i lavoratori di questo settore sul piano nazionale potrà essere vincente solo sul breve periodo, potendo il padronato decidere più o meno a suo piacimento dove spostare la produzione.
Piuttosto bisogna ragionare sull’internazionalizzazione delle lotte, coscienti che come proletari non abbiamo che le catene da perdere (in questo caso specifico rappresentato simbolicamente dalle cuffie) in un contesto in cui solo attraverso tale strumento è possibile reagire alla transnazionalizzazione del capitale. Questo consente inoltre di evitare le retoriche razziste di coloro che vogliono contrapporre la buona qualità del lavoro degli italiani con quella degli operatori stranieri o di chi denuncia il furto del lavoro di quest’ultimi ai danni dei lavoratori autoctoni.
E quindi ciò significa cercare di entrare in contatto con le realtà che negli altri paesi lavorano e lottano nello stesso settore, solidarizzare con le lotte quando si verificano e costruire nel frattempo almeno un piano nazionale di rivendicazioni.
Un piano che abbia al centro la stabilizzazione del personale precario ma soprattutto come obiettivo strategico l’internalizzazione di tutti i servizi, pubblici e privati, presso gli enti o le aziende per le quali essi vengono erogati.
di Matteo Bifone
25/02/17

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