da CITTA' FUTURA ALESSANDRIA
Sappiamo che Marx chiamava “comunismo” l’assetto in cui
tutto fosse stato di tutti, e per ciò stesso senza classi e senza Stato.
E sappiamo pure che a tale esito, secondo lui, “portava
necessariamente” tutta l’attività anticapitalistica del proletariato,
ossia tutta la resistenza contro lo sfruttamento da
parte di quanti per vivere siano costretti a vendere la propria forza
lavorativa sul mercato, a un prezzo, che fluttua come quello di tutte le
merci dipendentemente dalla domanda e dall’offerta, chiamato salario. I
proletari, infatti, avrebbero potuto superare i mali del loro vivere –
dipendente e miserabile – solo abolendo tutte le differenze di classe
(per loro e per tutti). Un tale salto da una società basata sullo
sfruttamento e sull’autoritarismo ad una senza classi e per ciò senza
Stato non avrebbe certo potuto realizzarsi d’incanto, come sembravano
pensare gli anarchici anche collettivisti quali Michail Bakunin e
compagni. Piuttosto sarebbe stata da mettere nel conto una fase più o
meno lunga di transizione dal capitalismo al comunismo, dalla società
divisa in classi alla società senza classi in cui
tutto sarebbe stato di tutti: fase intermedia solitamente chiamata “socialismo”, ma che in Marx era solo il ponte, anzi l’antefatto – detto infatti da Engels un “semistato” [1] – tra capitalismo e comunismo. Perciò mi sembra molto più corretto parlare, per Marx, della transizione dal capitalismo al comunismo, cioè dalla società divisa in classi alla società senza classi. Infatti per Marx il “socialismo” – il potere proletario, eccetera – non era altro che il prologo, più o meno lungo, del comunismo: la fase in cui l’autoritarismo, proprio dello Stato borghese (o “moderno”, o burocratico-repressivo) e l’opera di sfruttamento della forza lavoro da parte dei borghesi, vengono dissolvendosi (cioè “estinguendosi”).
tutto sarebbe stato di tutti: fase intermedia solitamente chiamata “socialismo”, ma che in Marx era solo il ponte, anzi l’antefatto – detto infatti da Engels un “semistato” [1] – tra capitalismo e comunismo. Perciò mi sembra molto più corretto parlare, per Marx, della transizione dal capitalismo al comunismo, cioè dalla società divisa in classi alla società senza classi. Infatti per Marx il “socialismo” – il potere proletario, eccetera – non era altro che il prologo, più o meno lungo, del comunismo: la fase in cui l’autoritarismo, proprio dello Stato borghese (o “moderno”, o burocratico-repressivo) e l’opera di sfruttamento della forza lavoro da parte dei borghesi, vengono dissolvendosi (cioè “estinguendosi”).
Per ciò Marx e Engels, nell’
Ideologia tedesca (1846, ma 1930), intanto
ribadivano l’idea che il singolo – ritenuto un essere sociale per natura
– si salvi solo a livello sociale (anche se su ciò, per me, si può
molto discutere). Infatti osservavano: “Solo nella comunità con altri
ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue
disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà
personale. Nei surrogati di comunità che ci sono stati finora, nello
Stato, ecc., la libertà personale esisteva soltanto per gli individui
che si erano sviluppati nelle condizioni della classe dominante e solo
in quanto erano individui di questa classe.”
[2]
Per ciò nelle società non capitalistiche, come quella antica
schiavistica, o quella medievale feudale, per il singolo asservito era
possibile tentare di liberarsi solo rifiutando individualmente la
schiavitù o il servaggio, provando a cambiare classe come persona, quasi
sempre senza riuscirci e a prezzo di una pena di vivere spesso
interminabile: mentre sotto il capitalismo ci si poteva, e può, liberare
dal salariato non già tentando semplicemente di cambiare la classe
individuale di appartenenza, ma appunto lottando insieme ai compagni di
lavoro e della propria classe sociale asservita per realizzare via via
una società senza classi (e per ciò stesso senza Stato). Tanto che i due
autori lì dicevano: “… i proletari invece, per affermarsi
personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza
quale è stata fino ad oggi, che in pari tempo è la condizione di
esistenza di tutta la società fino ad oggi, il lavoro. Essi si trovano
quindi in antagonismo diretto con la forma nella quale gli individui
della società si sono dati finora un’espressione collettiva, lo Stato, e
devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità”
[3]
Perciò anche il
Manifesto del partito comunista di Marx e Engels,
del 1848, termina il terzo paragrafo, “Proletari e comunisti”,
esprimendo, più icasticamente, la stessa idea, notando: “Il
proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la
borghesia, facendosi classe dominante attraverso
una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli
antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di
produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè
abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche
il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese
con le sue classi e i suoi antagonismi tra le classi subentra una
associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del
libero sviluppo di tutti.”
[4]
Questo spiega anche la rivendicazione dell’abolizione del lavoro salariato, come si può notare in
Salario, prezzo e profitto (1865, ma 1898), laddove
Marx, che era allora, a Londra, il Presidente dell’Associazione
Internazionale dei Lavoratori (Prima Internazionale), pur valorizzando
le lotte economiche della classe operaia (con particolare riferimento al
tradeunionismo inglese), osservava: “Nello stesso tempo la classe
operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al
sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il
risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che
essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti;
che essa può soltanto frenare il movimento discendente”, ossia la
diminuzione del valore della sua forza lavorativa, cioè dei salari, a
causa della sovrabbondanza di offerta di lavoro proletario che c’è
sempre sul mercato, “ma non mutarne la direzione” (e qui il riferimento
andava alla cosiddetta legge economica della miseria crescente del
proletariato, legata allo stesso meccanismo della domanda e dell’offerta
delle merci sul “libero” mercato, in cui di forza-lavoro da comprare
tramite salario ce n’è sempre molto più del necessario); la classe
operaia, insomma, non deve dimenticare “che essa applica soltanto dei
palliativi, ma non cura la malattia. Cioè essa non deve lasciarsi
assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia” (noi diremmo
sindacale), “che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del
capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il
sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia,
genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali
necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della
parola d’ordine
conservatrice: ’
Un equo salario per un’equa giornata di lavoro’, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto
rivoluzionario: ‘Soppressione del sistema del lavoro salariato. (…) Le
Trade-Unions compiono un buon lavoro come centri di
resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano
inefficaci in seguito a un impiego irrazionale della loro forza. Esse
mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano a una
guerriglia” sindacale “contro gli effetti del sistema esistente, invece
di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e a servirsi della
loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva
della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del
lavoro salariato.”
[5]
Tale abolizione presuppone ovviamente il potere operaio, tanto sul
terreno economico quanto su quello politico, potere chiamato nel
Manifesto del partito comunista di Marx e Engels (1848) “dominio del proletariato” e, dal 1850 in poi, dittatura del proletariato. Su ciò nel
Manifesto scrivevano: “Abbiamo già visto sopra che
il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto
che il proletariato si eleva a classe dominante, cioè nella conquista
della democrazia.” (Si dà infatti per scontato che il proletariato
costituisca la grande maggioranza della popolazione, formata da tutti
quelli che debbono vendere la loro energia lavorativa per vivere, e che
per ciò il suo potere segni l’avvento della “vera” democrazia). “Il
proletariato adopererà il suo dominio politico per strappare a poco a
poco alla borghesia il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di
produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato
come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la
massa delle forze produttive.”
[6]
Lì veniva pure delineato un programma di massima, ritenuto
valido nei diversi paesi capitalistici, in dieci punti, non diverso da
quello di qualsiasi grande successiva socialdemocrazia, per così dire di
sinistra, del mondo. Tuttavia va fortemente notato che in tutto il
Manifesto del partito comunista, e tendenzialmente
nell’insieme dell’opera di Marx, non era minimamente presente l’idea che
la dittatura del partito comunista potesse essere diversa da quella del
proletariato in carne e ossa.
Del resto, per tutte le classi, l’idea di un partito che si
sostituisse, come fosse il loro tutore, alla volontà di quelle grandi
collettività economico-sociali che chiamiamo classi, sino al secondo
decennio del XX secolo, e comunque sino alla prima guerra mondiale, non
era neppure in campo, se non per piccole minoranze settarie, che proprio
Marx e Engels volevano mandare a casa, in ambito socialcomunista, sin
dal 1847. La forma più matura di Partito fu non già la minuscola Lega
dei comunisti del 1847/1849 per cui Marx e Engels avevano scritto il
Manifesto del partito comunista, ma la Prima
Internazionale, o Associazione Internazionale dei Lavoratori, in cui non
c’era neppure distinzione tra associazione politica e associazione
sindacale (ossia tra partito e sindacato), le adesioni erano soprattutto
collettive, e la centralizzazione era esclusivamente d’indirizzo
programmatico (per quanto contestata dall’anarchismo di Bakunin, che
esprimeva un settarismo estremistico anteriore all’epoca del movimento
operaio di massa).
Va però riconosciuto che la forte affermazione del primato
della “struttura” economica rispetto alla sovrastruttura politica e
ideale
[7],
cioè delle classi economiche nella vita storica, disponeva Marx e
Engels ad un approccio ai problemi della politica e dello Stato che noi
oggi, con il linguaggio del pensiero politico contemporaneo, chiameremmo
relativismo istituzionale. In sostanza i problemi della forma di
governo e degli assetti specifici dello Stato attenevano, per Marx e
Engels, e poi per gran parte dei loro epigoni “grandi” o “minori”
dichiaratamente “marxisti”, alla sfera intercambiabile dei mezzi per
l’affermazione del potere della classe di riferimento. Essi avevano
anche la certezza che ciò valesse – di fatto se non a chiacchiere – per
tutte le classi in lotta, con particolare riferimento alla borghesia
capitalistica (naturalmente con rapporto inverso con lo Stato dominante,
quale fosse la forma esteriore del dominio politico custode, nel caso
dei borghesi, dei loro interessi economici).
Questo relativismo istituzionale in Marx si accentua a
partire dalla fine del 1848, e soprattutto del 1848-49 in Francia, in
riferimento a due fenomeni concomitanti. Il primo è costituito dal fatto
che la rivoluzione democratica basata sul suffragio universale e su
un’idea di democrazia aperta alle forze del lavoro, in Francia, dopo
straordinarie lotte dal basso dei proletari di Parigi descritte da Marx
con forte afflato epico nel libro
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850
(1850), era finita nell’autoritarismo conservatore, dapprima votato
legalmente dai cittadini, di Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro
Napoleone III poi proclamatosi “imperatore” a vita (scacciato dal potere
solo in seguito alla sconfitta infertagli dalla Prussia di Bismarck a
Sédan nel 1870). Il secondo fenomeno era rappresentato dalla decisione
di Marx e dei suoi compagni di reagire alla controrivoluzione detta
bonapartista rifondando la Lega dei Comunisti – quella che aveva
commissionato a Marx e Engels il
Manifesto del partito comunista, ma che nel corso
del 1848 europeo si era dissolta nei movimenti nazionali, democratici e
soprattutto sociali dalla Germania alla Francia – in alleanza con la
setta del grande rivoluzionario cospiratore Auguste Blanqui. Questi era
certo l’erede della Congiura giacobina di sinistra degli uguali, detta
di Babeuf, del 1796, e, comunque, era teorico, sempre impegnato in
tentativi più o meno disperati, della dittatura rivoluzionaria di
sinistra, anticipatrice del futuro leninismo. Ciò si vede bene nell’
Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti di Marx e Engels (Londra, 1850, ma 1853)
[8],
anche se poco oltre il 1850 Marx e Engels preferirono dedicarsi
totalmente al lavoro teorico, in attesa di una nuova crisi generale,
invece di seguitare a tramare come i settari irriducibili (aspetto molto
ben illustrato da Antonio Labriola nel 1895
[9]).
Comunque a ridosso dello sbocco autoritario conservatore del
“maggior 1848” europeo, quello francese, Marx e Engels si persuasero –
però tendenzialmente per sempre – che quando lo scontro sociale diventa
effettivamente risolutivo, classe contro classe, la democrazia
parlamentare venga necessariamente travolta. Perciò, iniziata la fase
della repressione contro il movimento operaio, la conclusione – secondo
il Marx di
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 –
avrebbe potuto essere solo la seguente: “Il suffragio universale aveva
compiuto la sua missione. La maggioranza del popolo era passato per la
sua scuola, il che è tutto ciò a cui il suffragio universale possa
servire in un’epoca rivoluzionaria. O da una rivoluzione o dalla
reazione esso doveva venire eliminato.”
[10] Ciò diventava pure, non senza sarcasmo da parte dei due, elemento di teoria politica, inducendo Marx alla nota apostrofe di
Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), rivolta
contro i socialisti riformisti francesi del 1848: “Essi erano dunque
tenuti a muoversi strettamente entro i limiti del parlamento. E dovevano
essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha
infierito su tutto il Continente, il cretinismo parlamentare, malattia
che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie
loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo
esteriore; dovevano essere colpiti da quel cretinismo parlamentare
mentre, dopo aver distrutto con le loro mani tutte le condizioni del
potere del Parlamento, dopo essere stati costretti a distruggerle nella
loro lotta con le altre classi, consideravano ancora le loro vittorie
parlamentari vere vittorie, e, battendo i suoi ministri, credevano di
colpire il presidente.”
[11]
Questa posizione era accentuata dal forte legame con il
gruppo di Blanqui, di cui si è detto, che emerge con chiarezza laddove,
in
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Marx osservava: “… Il
proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al
socialismo rivoluzionario, al
comunismo, pel quale la borghesia stessa ha inventato il nome di
Blanqui. Questo socialismo è la
dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe
del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l’abolizione
delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i
rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte
le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione,
per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste
relazioni sociali. “
[12]
In materia di Stato sono però presenti, in Marx e Engels,
forti oscillazioni: dal modello di Stato fondato sul totale autogoverno
dei cittadini, abbozzato da Marx nel 1841-1843 in
Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico,
alla critica dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, cioè del
modello liberale, nel cui ambito non sarebbe stato possibile risolvere
neppure la questione ebraica (come si evince dal saggio del 1844 ad essa
dedicato negli “Annali franco-tedeschi” del 1844), alla forte
valorizzazione delle tendenze liberaldemocratiche nel corso del 1848,
pur con la conclusione di svalutazione della via parlamentare di cui si è
detto; ai tanti momenti di convergenza con gli stessi socialisti più
riformisti nella lotta contro gli anarchici al tempo della Prima
Internazionale (1864/1871); alla forte valorizzazione delle riforme
legislative, specie in materia di orario di lavoro, anche come via di
emancipazione della classe operaia, in Inghilterra, nel primo volume del
Capitale (1867); sino alla famosa Introduzione a una nuova edizione di
Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 di
Marx da parte di Engels nel 1891 (dopo la prima forte affermazione
elettorale della socialdemocrazia tedesca nel 1890), in cui si teorizza
la possibile conquista parlamentare del potere da parte dei socialisti,
che pure prevedeva la reazione autoritaria della borghesia (cui si
sarebbe risposto con la rivoluzione proletaria, che però in tale
contesto sarebbe stata praticata in nome della democrazia).
[13]
(
Segue)
di Franco Livorsi
- F. ENGELS, Introduzione a: K. MARX, La guerra civile in Francia (1871), del 1891, in: K. MARX – F. ENGELS, Il Partito e l’Internazionale, traduzione di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1948, pp. 129-142. ↑
- K- MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, Editori Riuniti, Roma, 1958, pp. 72-73. Questa posizione, a causa della definitiva affermazione del materialismo storico, era un po’ diversa da quella della Sacra famiglia (1844), Edizioni Rinascita, 1954, che vedeva come non-liberi, ma alienati, anche i membri della classe dominante, pur sottolineando che essi stavano bene nell’alienazione (poveri di coscienza di sé come gli sfruttati, ma obnubilati dal loro stesso privilegio). ↑
- Ivi, pp. 75-76. ↑
- K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, con introduzioni e a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino, 1964, P. 158. ↑
- Il testo completo è in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 769-826, ma v. pp. 825-826. ↑
- K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, cit., p. 157. ↑
- Il riferimento va al materialismo storico, maturo dal 1845/1846, come si può notare In: K. MARX, Tesi su Feuerbach (1845), in appendice a: F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia clssica tedesca (1888), Edizioni Rinascita, Roma, 1953; e K. MARX – F. ENGELS, L’ideologia tedesca (1846, ma 1932); ma la migliore esposizione dottrinaria è quella contenuta in: K. MARX, Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, 1957, da confrontare con il vero e proprio saggio – direi di sociologia economica della storia – Introduzione alla critica dell’economia politica (1857, ma 1903), in: K. MARX – F. ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, 1966, pp. 711-742. ↑
- Si veda il testo in: K. MARX – F. Engels, “Opere scelte”, cit., pp. 359-372. ↑
- Antonio LABRIOLA, In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), in: La concezione materialistica della storia, Introduzione di E. Garin, Laterza, Bari, 1965, pp. 31-32. ↑
- K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), con Introduzione di F. Engels, a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1962, p. 290. ↑
- K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, 1964, p. 157 ↑
- K. MARX, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 (1850), cit., 268-269 ↑
- K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1841/1843, ma 1927), in: “Opere filosofiche giovanili”, a cura di G. della Volpe, Editori Riuniti, 1963; La questione ebraica (1844), in Annali franco-tedeschi, a cura di G. M. Bravo, cit.; F. ENGELS, Per la storia della Lega dei comunisti (1885), in “Opere scelte” di Marx e Engels cit., pp. 1077-1099; K. MARX, Il capitale (I, 1867), tr. di D. Cantimori, Editori Riuniti, 1962 (specie le parti sulla giornata lavorativa). Per questi aspetti resta fondamentale: D. ZOLO (a cura), I marxisti e lo Stato. Dai classici ai contemporanei, Il Saggiatore, Milano, 1977.
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