«Oggi il revisionismo è diventato moneta corrente, ormai nella sua versione estrema, quella rovescistica. Il “rovescismo”, infatti, può essere definito la fase suprema del revisionismo. Quest’ultimo filone è il cavallo di battaglia di Pansa, la sua gallina dalle uova d’oro. Senza alcun rispetto per i più elementari principi del lavoro storiografico, egli sta ormai perseguendo da anni un sistematico rovesciamento di giudizio sul ’43-45»
Si è battuto per la verità storica sul colonialismo italiano, dalla nascita dello Stato ai crimini dei "volenterosi carnefici" di Mussolini, un lavoro con cui lo storico ci ha restituito la politica servile e aggressiva della borghesia imperialista italiana, la natura e le caratteristiche del suo Stato, delle sue classi dirigenti.
il manifesto
Angelo Del Boca, partigiano dalla parte della Storia
Intervista. L'accademico e studioso del colonialismo ritorna sulle pagine buie del fascismo in Africa e sull'importanza di tenere vivo il dibattito storico
EDIZIONE DEL 15.08.2020
Ha ricevuto tre lauree honoris causa (Università di Torino, Lucerna, Addis Abeba), ma Angelo Del Boca non è uno storico «accademico» ed è il più illustre studioso della Storia del colonialismo italiano. È riduttivo relegare la sua ricerca storica al solo colonialismo italiano perché Del Boca ha rivelato nei suoi scritti l’anima oscura di un popolo. «Il mito falso di ‘Italiani brava gente», ha scritto Del Boca, «che ha coperto tante infamie… appare in realtà all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico».
Della dominazione coloniale italiana in Libia, seguita alla guerra del 1911, Del Boca svela le atrocità commesse sia dalla gestione coloniale del governo Giolitti che in quella di Mussolini. Dopo un attacco turco-arabo del 23 ottobre 1911, il governo Giolitti per rappresaglia fa giustiziare migliaia di arabi, secondo fonti arabe ed europee almeno 4000. Mussolini ordinando impiccagioni, fucilazioni di massa e deportazione, supera di molto i già efferati crimini dell’epoca giolittiana. I generali Badoglio e Graziani, con l’approvazione del quadrunviro Del Bono, fanno deportare 100.000 libici, quasi la metà della popolazione della Cirenaica, nei campi di concentramento nel sud bengasino, nella Sirtica uno dei luoghi più torridi e malsani della Libia. Se le epidemie o la fame, un pezzo di pane duro di 150 grammi al giorno, non sono sufficienti a trucidare i libici, ci pensano le guardie fasciste: una cinquantina di deportati viene fucilata ogni giorno davanti agli altri reclusi. Un film, Il Leone del deserto, che racconta l’epopea del capo guerrigliero libico Omar-al Mukhtàr nella resistenza al colonialismo italiano, agli inizi degli anni ’80 è giudicato «lesivo dell’onore dell’esercito italiano» e censurato, vietato dalle istituzioni della democratica Repubblica italiana.
Era disonorevole un film e non quello che aveva fatto l’esercito italiano in Libia? «Un atto», scrive Del Boca, che aveva incontrato e scritto un libro su Gheddafi, «che si inserisce in una più vasta e subdola campagna di mistificazione e disinformazione, che tende a conservare della nostra recente storia coloniale una visione romantica, mitica, radiosa. Cioè falsa».
Ma è negli archivi italiani, tra carte segrete e occultate intenzionalmente, che lo storico trova le prove delle orrende stragi, del tentativo di genocidio compiuto dalle armate italiane in Etiopia: i telegrammi inviati fin dall’ottobre1935 da Mussolini a Graziani e Badoglio, dove si autorizza l’utilizzo dei gas, armi proibite dalla Convenzione di Ginevra, contro gli etiopici. In realtà l’utilizzo era premeditato: i gas, 270 tonnellate per l’impiego ravvicinato, 1000 tonnellate di bombe per l’aeronautica caricate ad iprite e 60.000 granate per l’artiglieria caricate ad arsine, erano state imbarcati sui convogli navali che le sbarcarono in Eritrea prima che scoppiasse il conflitto.
Per vincere quella guerra sciagurata, Mussolini, «Pensava perfino di ricorrere alla guerra batteriologica», racconta Del Boca, «anche se sapeva perfettamente che nessuno al mondo l’aveva mai praticata».
Le stragi, i massacri continuarono anche dopo la conquista di Addis Abeba, «Il 19 febbraio 1937, in seguito ad un attentato alla vita del viceré d’Etiopia maresciallo Rodolfo Graziani, alcune migliaia d’italiani, civili e militari, davano inizio alla più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto». Gli «Italiani brava gente», massacrarono in tre giorni, da un minimo di 1400 ad un massimo di 30.000 etiopici, a seconda delle fonti.
Nei Balcani, scrive Del Boca, «I crimini commessi dalle truppe d’occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia superiori a quelli consumati in Libia e in Etiopia».
Le relazioni sui crimini di guerra italiani inviate all’United Nations War Crimes Commission sono impressionanti. Dall’11 aprile 1941 all’8 settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana, gli italiani fucilarono 1000 ostaggi, ammazzarono proditoriamente 8000 persone, incendiarono 3000 case, deportarono in campi di concentramento in Italia 35000 civili. Nel solo campo di Arbe perirono di fame più di 4500 reclusi. Bastano queste cifre, per immaginare che ci furono altre migliaia di vittime in Dalmazia, in Montenegro, in Kosovo e per comprendere che il nome «del giorno della memoria per le foibe» sarebbe da modificare in «Il giorno della memoria per le vittime degli italiani in Jugoslavia e per le vittime delle foibe».
Andrebbero poi raccontati i crimini di guerra commessi su altri fronti di guerra, la Spagna e la Russia dove c’è la testimonianza raccapricciante di un terribile delitto: «Alcuni soldati sovietici furono bagnati con la benzina e poi bruciati da un gruppo di carabinieri italiani».
Non c’è da stupirsi dell’efferatezza del crimine. Gli ufficiali italiani nei Balcani insegnavano come trasformare in torcia un partigiano catturato in Slovenia, «Erano sufficienti un palo o un albero al quale legare il prigioniero, un fiasco di benzina e un cerino».
«In genere le stragi», conclude mestamente Del Boca, «sono state compiute da “uomini comuni”, non particolarmente fanatici, non addestrati a liquidazioni di massa. Essi hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione, perché persuasi di essere nel giusto eliminando i ‘barbari’ o i ‘subumani’».
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